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Il Foglio Rassegna Stampa
19.08.2014 Iraq: l' offensiva americana, il ruolo dei curdi, gli yazidi come gli armeni
Cronache e analisi di Daniele Raineri, Carlo Panella, Nicoletta Tiliacos

Testata: Il Foglio
Data: 19 agosto 2014
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri - Carlo Panella - Nicoletta Tiliacos
Titolo: «La battaglia per la diga di Mosul dà il via all'escalation di Obama - Bastassero i curdi - Gli yazidi sui monti Sinjar sono come gli armeni del Mussa Dagh»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 19/08/2014, a pagg. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " La battaglia per la diga di Mosul dà il via all'escalation di Obama",  l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Bastassero i curdi", da pag. 2 l'articolo di Nicoletta Tiliacos dal titolo "Gli yazidi sui monti Sinjar sono come gli armeni del Mussa Dagh "


Raid aereo americano vicino a Mosul

Di seguito, l'articolo di Daniele Raineri:


Daniele Raineri

Roma. Negli ultimi dieci giorni gli aerei americani hanno colpito sessantotto bersagli dello Stato islamico nel nord dell’Iraq, dice il Comando centrale – l’abbreviazione è Centcom ed è la divisione del Pentagono che si occupa del settore di mondo compreso tra l’Egitto e l’Afghanistan. Trentacinque attacchi aerei si sono concentrati negli ultimi tre giorni, e tutti attorno alla diga strategica di Mosul. Da quando il primo ministro iracheno uscente, Nuri al Maliki, ha ceduto alle pressioni iraniane e americane e ha rinunciato al terzo mandato, la campagna aerea a bassa intensità per proteggere il personale americano a Erbil dall’avanzata del Califfato sta cambiando volto e si sta trasformando in un impegno militare forte che assomiglia a un’offensiva. Domenica il presidente americano Barack Obama ha dichiarato con una lettera al Congresso americano che anche questi ultimi bombardamenti rientrano nella categoria meramente difensiva già dichiarata, in questo caso per proteggere la vita degli americani che lavorano nell’ambasciata di Baghdad da un’eventuale, disastrosa onda di piena provocata dallo Stato islamico. Pare un pretesto. Il generale americano in congedo James Marks dice alla Cnn che gli uomini dello Stato islamico non apriranno le chiuse della diga con l’intento di provocare una catastrofe perché la prima città a essere investita dalla piena, cinquanta chilometri più sotto, è Mosul, con 1,7 milioni di abitanti, che è controllata da loro. Baghdad è quattrocento chilometri più a sud. Inoltre “penso che lo Stato islamico voglia mantenere il controllo della diga integra – dice il generale – perché genera energia elettrica e potrebbe usare questa produzione come arma di ricatto contro la popolazione sotto il suo controllo”. I bombardamenti dall’aria e la presenza di consiglieri militari delle forze speciali – i Berretti Verdi – sono il segno che la missione americana a fianco delle milizie curde e dell’esercito iracheno cambia: ora si tratta di collaborare a respingere l’avanzata dei soldati del Califfato. Il governo inglese ha annunciato l’invio di caccia e di elicotteri per appoggiare la campagna cominciata da Obama. Secondo il Telegraph, le truppe speciali inglesi del Sas (Special Air Service) sono già “on the ground”, sul campo, nell’Iraq del nord da sei settimane, quindi da prima della crisi umanitaria per salvare la minoranza yazida che ha dato il via alle operazioni militari inglesi nel nord dell’Iraq (finora si è trattato soltanto di trasporti umanitari con grandi cargo). Può essere che Washington e Londra avessero già assunto una postura interventista di riserva – data l’avanzata rapida dello Stato islamico dopo la conquista di Mosul a giugno – e osservassero lo svolgersi degli eventi. Giovedì scorso il governatore della regione irachena di al Anbar, Ahmed Khalaf al Dulaimi, ha detto in un’intervista con Reuters di essersi incontrato con militari e diplomatici americani che gli hanno promesso un intervento militare non soltanto con bombardamenti come a nord ma anche “con truppe a terra”. Boots on the ground, di nuovo ad Anbar: il governatorato maledetto, che durante gli anni della guerra costò agli americani il maggior numero di perdite. La promessa americana svelata dal governatore sembra davvero improbabile, ma circola in ogni caso l’idea che questo intervento sia “a slippery slope”, un piano inclinato verso una possibile escalation. Al terzo giorno di combattimenti, non è ancora chiaro se il controllo della diga giantesca è passato dagli uomini del Califfo Al Baghdadi alle milizie curde e alle forze speciali irachene, trasportate in aereo fino al teatro dell’offensiva. Il governo iracheno giura di sì, ma è inaffidabile. I curdi sul posto dicono che l’avanzata è rallentata dalle trappole esplosive che i guerriglieri hanno lasciato sulle strade e dentro gli edifici. In Siria, il governo del presidente Bashar el Assad ha ordinato bombardamenti come mai prima d’ora contro Raqqa, capitale dello Stato islamico, e contro Deir Ezzor, un’altra zona controllata da Al Baghdadi. E’ la prima volta che succede, di solito l’aviazione colpiva altre zone, come Aleppo. Non sfugge la coincidenza temporale con i bombardamenti americani: Assad sta oggettivamente collaborando con gli americani, colpendo lo stesso nemico nello stesso tempo. Si sta proponendo a un occidente riluttante come partner di fatto nella lotta contro il Califfato. Tra due giorni cade l’anniversario del massacro chimico di Damasco.


Di seguito, l'articolo di Carlo Panella:


Carlo Panella


Peshmerga curdi


Roma. “Il massimo della pavidità politica, unito al massimo di insipienza militare: l’Europa conferma in pieno Von Clausewitz!”, rigidamente anonimo, il commento di un alto ufficiale italiano che ben conosce l’Iraq fotografa bene la scelta dell’Ue di affidare ai soli peshmerga curdi il contrasto al Califfato dello Stato islamico. La facile riconquista della strategica diga di Mosul non deve trarre in inganno circa le capacità militari delle forze curde. La presa della diga è stata infatti resa possibile da uno scenario d’intervento facilissimo: un presidio dello Stato islamico allo scoperto, facile da colpire dall’aria dai caccia bombardieri americani, supportati per di più, come è trapelato, da un consistente intervento di ausilio sul terreno dei “consiglieri militari statunitensi”. Intervento che tradisce in pieno la recente e solenne affermazione del presidente Barack Obama che negava ogni “engagement” statunitense sul suolo iracheno. Deroga obbligata, tesa a impedire la replica drammatica di un poco noto precedente storico. La più umiliante sconfitta militare della Gran Bretagna nella Prima guerra mondiale, dopo quella di Gallipoli, si consumò infatti nel 1914 proprio a causa della distruzione da parte ottomana delle dighe sul Tigri che trasformarono in un immenso pantano l’ansa di Kut el Amara. La spedizione inglese diretta del generale Townshend rimase così intrappolata nel fango per un anno, prima di una poco onorevole resa (30.000 i morti, 50.000 i feriti e i prigionieri). L’enorme bacino di Mosul conquistato dal Califfato costituiva una micidiale arma d’acqua, che lo Stato islamico poteva distruggere sommergendo buona parte di Baghdad con il fango. Da qui la priorità della sua riconquista e la deroga della Casa Bianca. Detto questo, non si vede come i 1.050 chilometri della linea del fronte con il Califfato possano non solo vedere una controffensiva vittoriosa dei peshmerga, ma come possano addirittura essere da loro presidiati con successo. E non è solo questione di dotazione di quelle armi che ora l’Europa, con ritardo di 80 giorni, decide di fornire al Kurdistan. I peshmerga non hanno mai combattuto una guerra con carri armati e autoblindo su un fronte classico come è oggi quello che li separa dal Califfato. Contro Saddam Hussein hanno sempre e solo dispiegato tattiche di guerriglia, e per di più non combattono da una ventina d’anni. All’opposto, i miliziani dello Stato islamico si sono formati in tre anni di duri e vittoriosi combattimenti, anche in campo aperto, oltre che di intensissima guerriglia urbana, contro l’agguerrito e ben addestrato esercito del presidente siriano Bashar el Assad, supportato dagli ancora più esperti pasdaran iraniani e hezbollah libanesi. Il differenziale offensivo è dunque notevolissimo. Forse, solo i fatti lo diranno, incommensurabile. Basti pensare al tragico fallimento dell’offensiva operata per riconquistare la strategica Tikrit dagli sciiti di Baghdad, in sintonia con i pasdaran iraniani. Un fiasco. Ma l’estrema fragilità militare della scelta europea – ispirata dal solito Obama cunctator – è soprattutto conseguenza di una scelta politica tanto attendista quanto suicida. Limitarsi a fornire armi ai curdi può essere una soluzione di breve periodo, ma per risolvere la situazione irachena gli Stati Uniti e l’Europa devono impegnarsi in modo molto più deciso. La scelta che si impone hic et nunc è di una semplicità abissale: o si costruisce con alcuni paesi arabi, in primis con la confinante Arabia Saudita, un intervento di terra efficiente contro il Califfato, oppure si assume questo compito in prima persona con truppe occidentali. Sperare, come fanno l’Ue e Barack Obama, che il governo di Baghdad del nuovo premier Haider al Abadi sappia rendere efficiente un esercito iracheno che si è dissolto di fronte all’offensiva dello Stato islamico, venendo in soccorso ai peshmerga, è velleitarismo puro. Certo, è estremamente complesso ottenere che l’Arabia Saudita si faccia carico di una risposta militare allo Stato islamico. Infatti, la folle ideologia del Califfo Ibrahim Abu Bakr al Baghdadi ha le sue radici nel wahabismo, ideologia ufficiale dei sauditi. Re Abdullah teme soprattutto di non potere reggere sul piano interno un contrasto frontale contro il Califfato per una ragione scabrosa: lo Stato islamico riscuote molte simpatie tra i wahabiti dell’Arabia Saudita, anche tra i quadri militari. Questo, mentre i wahabiti emiri del Qatar addirittura lo finanziano e armano. La contraddizione tra una Riad alleata dell’America e insieme culla delle peggiori ideologie jihadiste è drammatica. Ma l’occidente non sa neanche come iniziare ad affrontarla.

Di seguito, l'articolo di Nicoletta Tiliacos:


Nicoletta Tiliacos


Yazidi rifugiati sopra Sinjar


Capita che la storia, se non riesce a essere maestra di vita, si accontenti di tornare con precisione geometrica su certi luoghi del delitto. Capita per esempio che nella vicenda degli yazidi assediati dalle milizie del Califfato sulle montagne che sovrastano Sinjar, riecheggi quella dei cinquemila abitanti di sette villaggi armeni che trovarono rifugio sul Mussa Dagh – il “monte di Mosè”, a nord della baia di Antiochia – tra la fine di luglio e l’inizio di settembre del 1915. Novantanove anni fa, nello stesso periodo torrido, tra fine luglio e metà settembre, si consumò uno dei pochi atti di resistenza all’ordine di deportazione riservato dal governo ultranazionalista ottomano – già in mano ai Giovani turchi – ai due milioni di armeni che vivevano nei confini dell’impero. Gli armeni erano considerati, anche in quanto minoranza cristiana in terra islamica, il nemico interno da eliminare. L’ordine di deportazione era una condanna a morte: “Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi… ”, si legge in un dispaccio inviato dal ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915. E già nel 1911 il leader dei Giovani turchi, Enver Pascià, aveva scritto a Taalat: “Non dobbiamo preoccuparci di quanto ci verrà chiesto fra tre o quattro anni. Se agiamo con raziocinio e decisione fra tre o quattro anni un problema armeno non ci sarà. Non ci saranno più armeni”. La soluzione finale preparata per gli armeni, oltre che sulle armi, faceva affidamento sulle condizioni impossibili che attendevano i deportati. Un milione e duecentomila persone, con scorte minime di acqua e cibo, nell’aprile del 1915 furono avviate verso il deserto a sud dell’Iraq. Destinazione: il nulla. Solo in pochissimi ne uscirono vivi, e i cinquemila del Mussa Dagh, tra gli ultimi a ricevere l’ordine di abbandonare i loro villaggi, nel luglio di quell’anno già sapevano che cosa li aspettava. Lo scrittore ebreo praghese Franz Werfel, nel suo celeberrimo “I quaranta giorni del Mussa Dagh” (Corbaccio), pubblicato nel 1933, fa dire a un personaggio: “Beati i morti, che hanno già tutto dietro di sé”. Ma la storia del Mussa Dagh sarà per sempre quella di chi non volle rassegnarsi. La fuga sulla montagna imprendibile, la speranza di essere soccorsi da navi europee (come alla fine, per i superstiti, accadrà davvero), i contrasti, le ostilità e gli amori che nascono tra i rifugiati, a mano a mano che i giorni passano e che acqua e cibo si consumano, mentre le circostanze estreme stringono o spezzano legami, sono raccontati nel romanzo di Werfel con una partecipazione che ha il sapore di una premonizione. Lo scrittore, consapevole delle caratteristiche tragicamente “moderne” di quella che oggi appare come una prima assoluta sul palcoscenico genocidario del Novecento, e prima che l’avanzata del nazismo facesse anche di lui un profugo e degli ebrei d’Europa il nemico da sterminare, scrive che l’opera fu concepita nel 1929, durante un soggiorno a Damasco: “La visione pietosa di fanciulli profughi, mutilati e affamati, che lavoravano in una fabbrica di tappeti, diede la spinta decisiva a strappare dalla tomba del passato l’inconcepibile destino del popolo armeno”. Nelle donne armene raccontate da Werfel, che a centinaia, per la centesima volta, percorrono il territorio saccheggiato del Mussa Dagh nel quale hanno trovato riparo, alla ricerca di una ghianda o di una bacca commestibile da dare ai figli che si lamentano per la fame, non possiamo fare a meno di riconoscere le stesse donne yazide che le cronache di questi giorni ci mostrano, grazie ai potenti mezzi della comunicazione globalizzata, in fuga dai loro villaggi con i figli in braccio, un secolo dopo i quaranta giorni del Mussa Dagh. Donne in fuga da quei generi particolari ed eterni di saccheggio bellico che sono lo stupro e il rapimento, in èra ottomana come di neocaliffato. Le stesse cronache tuttavia ci rassicurano: gli yazidi sui monti del Sinjar attualmente non corrono il rischio di morire di fame o di sete. Un efficace ponte aereo ha sostituito le navi francesi sulle quali i sopravvissuti del Mussa Dagh, come raccontano Mario Tosatti e Flavia Amabile nel libro “La vera storia del Mussa Dagh” (Guerini e associati), giunsero a Porto Said, in Egitto, il 14 settembre del 1915. Per il resto, la storia si ripete.

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