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Il Foglio Rassegna Stampa
26.10.2013 Primo Levi poeta e riflessioni sull'odio antico
di Matteo Marchesini e Tiziana Della Rocca

Testata: Il Foglio
Data: 26 ottobre 2013
Pagina: 6
Autore: Matteo Marchesini-Tiziana Della Rocca
Titolo: «La poesia di Primo Levi come torcia socratica nella notte del male-Alle radici dell'odio, l'ebreo errante, un'anima inafferrabile»

Sul FOGLIO di oggi, 26/10/2013, nella pagine VI/VII del supplemento, un lungo saggio su Primo Levi poeta di Matteo Marchesini, e una breve storia dell'odio antico di Tiziana Della Rocca.

Matteo Marchesini: " La poesia di Primo Levi come torcia socratica nella notte del male "

 

 Il Novecento italiano conta diversi scrittori importanti per cui la poesia non è la vocazione maggiore ma non è neppure un violino d’Ingres, e anzi proietta una luce particolare sull’opera in prosa. Si pensi ad esempio alla Morante o a Volponi; ma anche a Bontempelli o alla Ortese, a Delfini, a Tobino… Forse, però, i casi più rappresentativi sono quelli di due autori ebrei maturati tra le leggi razziali e la tragedia della guerra: Giorgio Bassani e Primo Levi. Per entrambi, la poesia è una forma d’arte quasi originaria e al tempo stesso laterale, il luogo di sfogo di una scrittura più ingenuamente letteraria e più disarmatamente esistenziale di quella narrativa. Una scrittura “lapidea”: ma se in Bassani è spesso atteggiatamente autobiografica e introspettiva, prima idillico-elegiaca e nobilitata dalla musica, poi sliricata e irridente, in Levi (che con una poesia apre sia il suo primo libro sia “La tregua”, e da una poesia interna al romanzo trae il titolo di “Se non ora, quando?”) sembra comporsi soprattutto di aride allegorie generali, alternate a spoglie pagine di diario dove l’io non acquista mai la singolarità di un personaggio e il marchio di una psicologia speciale. Dei versi dello scrittore torinese ci offre oggi una felice analisi Paolo Febbraro in “Primo Levi e i totem della poesia”, un saggio edito da ZonaFranca. Febbraro inizia con una definizione complessiva del percorso di Levi che è già un ottimo esempio della sua prosa critica. L’autore di “Se questo è un uomo”, scrive, “è stato sempre molto attento alla piacevolezza di ciò che pubblicava (…) Forse perché non è stato un letterato di professione: ha dovuto farsi interprete della Chimica e di Auschwitz, ovvero di un sapere povero di tradizione letteraria e di un unicum assoluto. Così, Levi ha reso testimonianza di sé incrociando l’attività che si compie ogni giorno con l’evento che si è subìto una volta per sempre. In entrambi i casi, la letteratura non è stata per Levi un orizzonte totalizzante, o un destino di perfezione, ma un bisogno da gestire con allegro rigore affinché lui, ebreo maturato negli anni 30 e 40 del Novecento, potesse essere ascoltato e accettato”. Questo scrittore “troppo chimico e troppo memorialista” per essere accolto nella società letteraria “sa che neppure la verità più spaventosa (…) può esimersi dall’avere – manzonianamente – l’interessante e il vario come mezzo”. Levi stesso sottolinea di aver filtrato i fatti veri al setaccio dell’efficacia narrativa, perfezionando certi racconti nell’affabulazione orale prima di approdare alla forma scritta. Per raggiungere questa efficacia sulla pagina, si è forgiato una lingua il più possibile lineare, “equa”, ordinata e calma, una lingua implacabilmente economica e referenziale: come è detto nel “Sistema periodico”, la sua sfida è consistita nel “ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro”. Laico da tutti i punti di vista, Levi lo è anche davanti al linguaggio, di cui rifiuta le ontologizzazioni novecentesche, e che considera un magazzino di strumenti da scegliere di volta in volta a seconda delle contingenti ragioni di esattezza, sintesi e resa comunicativa. Quando serve, il suo stile si colora di una soda colloquialità piemontese, o acquista maggior concretezza ospitando brani di gerghi tecnici; ma queste sostanze sono poi sempre disciolte in un italiano studiato e trasparente. Tuttavia, anche in una scrittura così omogenea spiccano alcuni caratteri che la identificano come sigle. Tra questi caratteri ci sono le metafore tratte dal mondo del lavoro artigianale – sia quello degli operai specializzati, sia quello della chimica “avventurosa”, cioè non risucchiata dalla routine della grande industria – e soprattutto i riferimenti “ingenui” ai classici: al mondo greco e latino, ai romanzi d’avventura, ma in primo luogo a Dante e alla Bibbia. E’ celeberrima la scena di “Se questo è un uomo” in cui Primo spiega a uno studente alsaziano il canto di Ulisse, esaltandosi al punto da pensare che darebbe la zuppa quotidiana per ricordarlo tutto. Ma per capire l’attaccamento perfino eccessivo, “scolastico”, alla “Commedia”, si pensi anche alla commovente goffaggine con cui il narratore illustra la “follia geometrica” del campo servendosi dei versi oggettivamente comici sui barattieri lucchesi (“… Qui non ha luogo il Volto Santo, / qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”); o si veda l’accostamento forzato proposto in “I sommersi e i salvati” tra la situazione del conte Ugolino e quella che deforma la memoria degli ex internati. Poi c’è la Bibbia, nella quale l’autore del “Sistema periodico” confessa di aver cercato sotto il fascismo la stessa sapienza non inquinata che inseguiva intanto “nella chimica” e “in montagna”. Della sua presenza si potrebbero citare innumerevoli esempi: ma basti qui ricordare le pagine di “Se non ora, quando?”, dove l’ebreo Mendel associa ogni evento o dilemma a un passo dell’Antico Testamento. Questi riferimenti sono inseriti in un tessuto stilistico di costante limpidezza: una limpidezza “magari sterile”, ma non negoziabile. Estimatore dell’umanesimo ostinato di Thomas Mann, Levi ha il pathos della chiarezza. Per lui, anche il più oscuro gorgo esistenziale deve tradursi in trasparenza narrativa. Ma questa trasparenza, osserva Febbraro, è assai più problematica nella poesia, che forse costituisce il deposito delle esperienze refrattarie a un processo d’illimpidimento e decantazione. E’ interessante, in questo senso, il modo nel quale Levi descrive l’emergere in lui dell’esigenza di scrivere versi. La poesia gli si presenta come una “curiosa infezione”, una “malattia esantematica, che dà un rash (…) un fenomeno che non capisco (…) di cui rifiuto addirittura il meccanismo”. Tuttavia, anche quando viene spinto in questa terra misteriosa, Levi combatte contro l’oscurità. Combatte, soprattutto, contro l’ideologia che della lirica fa un oggetto autoreferenziale e totalizzante. Su Celan, poeta che canta la sua stessa tragedia, ma che a differenza di lui sprofonda nel linguaggio cifrato, spende parole piuttosto dure (che ricordano quelle usate in altro contesto a proposito di Améry, quasi per allontanare da sé lo spettro del suicidio): “L’effabile è preferibile all’ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi (…) Il loro comune destino fa pensare all’oscurità della loro poetica come ad un preuccidersi (…) Io penso che Celan poeta debba essere piuttosto meditato e compianto che imitato”. A differenza di Celan, commenta Febbraro, Levi scrive poesie “chiare, socratiche, teatrali, plurali di voci e di visione. Poesie non liriche, senza traccia di solipsismo; piuttosto allegorie, prosopopee, scorci epici, parti d’attore”. Si tratta di testi percussivi, anaforici, retoricamente poveri, caratterizzati da versi “lineari e perentori” – a volte sonori, a volte grevemente prosaici – e da una solennità o “loquacità stentorea” troppo nudamente dichiarativa, simile a una imperiosa “ingiunzione da pubblico ministero”. Ma in queste piane superfici linguistiche, che Levi stesso giudicava di modesto valore estetico, c’è qualcosa di più. Secondo Febbraro, con “la loro chiarezza, dunque la loro dichiarata minorità (…) rappresentano l’accesso nient’affatto nascosto ai luoghi non giurisdizionali della rabbia, della contraddizione”, e prefigurano “un’adesione a dei caratteri archetipici fissati una volta per sempre, in forme che hanno del ciclopico e del plausibile, del minaccioso e del gentile”. Levi ha riunito le sue poesie in “L’osteria di Brema” (Scheiwiller 1975) e in “Ad ora incerta” (Garzanti 1984). A queste raccolte si aggiungono un’altra ventina di testi scritti negli ultimi tre anni di vita, in gran parte usciti sulla Stampa e riuniti nelle “Opere” Einaudi. Le poesie leviane prendono spesso la forma dell’epigrafe o della monocorde, pignola orazione; ma a tratti affiorano ritmi giocosi di ballata o canzone (si veda la giovanile “Avigliana”) che richiamano l’amato Heine. Quasi in ogni testo è inserita una citazione letteraria. Ce ne sono da Coleridge e da Eliot, da Catullo e dal solito Dante. Ma forse la caratteristica più evidente è l’uso della prosopopea. In molti casi l’autore fa parlare personaggi storici e mitici, e soprattutto quegli animali che gli offrono “una selva di iperboli prefabbricate” sulle qualità umane. Ognuno viene avanti col suo esempio sentenzioso e sinistro, come quello dell’“Elefante” di Annibale o del corvo. Febbraro nota qui una ripetuta “trasposizione dell’io in figure di nascosta o sorda resistenza”: l’ippocastano, “Aracne”, l’“Agave”, la “Vecchia talpa”. Più volte il poeta si sofferma a illustrare le scoperte della nuova scienza, e come nel “Sistema periodico” descrive il trasmutare lucrezianamente vertiginoso e cupo degli elementi. Dappertutto spira un vento di distruzione. Levi indugia sull’eruzione del Vesuvio, sull’arrivo dei conquistatori europei presso gli Inca, sulla desertificazione della Terra. Sullo sfondo, poi, sono sempre presenti gli uomini che hanno “costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima”. C’è Eichmann, e c’è una “Annunciazione” in cui l’angelo reca la novella della nascita di Hitler. Ci sono, ancora, i fantasmi d’uomini che portano il rimorso: quelli di “Erano cento”, e la schiera innumerevole dei “morti invano”. Anche nella relativa serenità del secondo Novecento europeo, Levi attende “Il percuotere di passi ferrati”. Il presente gli appare animato da una cieca forza ferina, malefica e apocalittica, che mina internamente le cose e le creature: “Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera, / La mano destra nemica della sinistra. / In piedi, vecchi, nemici di voi stessi: / La nostra guerra non è mai finita”, dice agli ex compagni di Resistenza in “Partigia”. Ovunque, intorno, dilaga una violenza sociale senza obiettivo, che si mostra nella forma più aperta in “Dateci”. Questa poesia è la satira di un giovane mondo tardonovecentesco pervaso dal più distruttivo narcisismo di massa; un mondo contro cui il sobrio Levi, devoto al lavoro severo e alla costruttività paziente al di fuori di ogni utopia politica, sfoga tutto il suo moralismo: “Dateci qualcosa da distruggere, / Una corolla, un angolo di silenzio, / Un compagno di fede, un magistrato, / Una cabina telefonica, / Un giornalista, un rinnegato, / Un tifoso dell’altra squadra, / Un lampione, un tombino, una panchina. / Dateci qualche cosa da sfregiare, / Un intonaco, la Gioconda, / Un parafango, una pietra tombale, / Dateci qualche cosa da stuprare, / Una ragazza timida, / Un’aiuola, noi stessi. / Non disprezzateci: siamo araldi e profeti. / Dateci qualche cosa che bruci, offenda, tagli, sfondi, sporchi, / Che ci faccia sentire che esistiamo. / Dateci un manganello o una Nagant, / Dateci una siringa o una Suzuki. / Commiserateci”. Levi ha composto le sue poesie nell’arco di quarant’anni, ma non con costanza. Febbraro nota che scrive in versi “quando è più vicino alla morte: a quella nel Lager, nei mesi successivi al ritorno dalla prigionia, e a quella che egli stesso si dà nell’aprile del 1987”. Secondo Fortini, i versi leviani sono tanto meno esteticamente risolti quanto più si avvicinano a una “aperta condizione di angoscia”, “alla parte in ombra del soggetto che ci parla”. Questo vale senza dubbio per alcuni testi dell’ultimo decennio, lo stesso in cui lo scrittore lavora a “I sommersi e i salvati”. Febbraro insiste giustamente sul legame tra il saggio e le poesie coeve. Non a caso, l’epigrafe dei “Sommersi” è la citazione di Coleridge dalla quale è tratto il titolo del volume di poesia garzantiano: “Since then, at an uncertain hour, / That agony returns:/ And till my ghastly tale is told / This heart within me burns”. Levi s’identifica col “vecchio marinaio” della ballata, che ha un bisogno incontenibile di narrare la sua storia. Spinto da una “agonia” che torna “ad ora incerta”, il personaggio coleridgeiano ferma la gente e la ipnotizza col racconto del suo peccato oscuro e della morte toccata ai compagni, del rimorso incarnato dai loro corpi e della sua misteriosa salvezza. La situazione della “Ballata” ricorda ed esorcizza quel sogno di ritrovarsi a raccontare l’esperienza del lager davanti a persone indifferenti, che Levi scopre comune a molti ex internati. Il marinaio è insieme un colpevole e un sopravvissuto. E come è noto, proprio del rapporto inquietante tra sopravvivenza e senso di colpa parla il saggio dell’86. “I sommersi e i salvati” immerge Levi nel pozzo nero della più dolorosa ambiguità. Tutto qui viene rimesso in discussione: perfino l’amore per il lavoro ben fatto – l’amore del chimico produttore di vernici, del montatore Faussone della “Chiave a stella”, dell’orologiaio Mendel – diventa una “virtù fortemente ambigua”, avendo sorretto l’organizzazione della Germania hitleriana. Con un coraggio impressionante, il reduce di Auschwitz smonta ogni apparente certezza testimoniale, e spiega come il male nazista sia riuscito a contagiare manzonianamente le sue vittime. Nascono così le pagine sui Kapos, sulla “zona grigia”, e quelle sulla “vergogna” dei sopravvissuti che vivono la loro salvezza “come condanna a morte di altri” e come “forma di collusione” col lager: “Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”. Di coloro che ad Auschwitz erano prigionieri comuni, dice Levi, non si è salvato quasi nessuno, e quasi nessuno ha lasciato testimonianza: si tratta di uomini e donne che si sentivano dominati “da un enorme edificio di violenza”, senza potersene però fare un’idea. Un’idea se la sono fatta invece i prigionieri privilegiati, tra i quali lo scrittore mette se stesso, ma appunto perché dell’orrore non hanno “scandagliato il fondo”. La capacità di organizzare razionalmente la testimonianza è quindi in rapporto diretto con l’ignoranza delle esperienze più estreme. E la parola dei salvati scaturisce forse da una volontà non limpida. Quando pensa alla loro disposizione a raccontare, lo scrittore non sa più “se lo abbiamo fatto, o lo facciamo, per una sorta di obbligo morale verso gli ammutoliti, o non invece per liberarci del loro ricordo”. A distanza di decenni, emerge dunque sulla pagina il rimorso; e col rimorso un discorso sul suicidio sempre limpido nei dettagli, ma nell’impostazione di fondo sinistramente opaco. E’ quando si volgono indietro “a guardare l’‘acqua perigliosa’”, scrive a un certo punto Levi tornando al suo Dante, che i sopravvissuti rischiano di darsi la morte. A queste nere pagine del saggio corrispondono nell’opera poetica due testi, che in mezzo al tessuto uniforme di didascaliche allegorie socionaturali e di pallide elegie private appaiono dei corpi estranei. Sono l’oscura parabola di “Fuga” e l’inequivocabile “Il superstite”, entrambi dell’84. Ecco il secondo, che comincia con Coleridge e finisce con Dante: Since then, at an uncertain hour, Dopo di allora, ad ora incerta, Quella pena ritorna, E se non trova chi lo ascolti Gli brucia in petto il cuore. Rivede i visi dei suoi compagni Lividi nella prima luce, Grigi di polvere di cemento, Indistinti per nebbia, Tinti di morte nei sonni inquieti: A notte menano le mascelle Sotto la mora greve dei sogni Masticando una rapa che non c’è. “Indietro, via di qui, gente sommersa, Andate. Non ho soppiantato nessuno, Non ho usurpato il pane di nessuno, Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. Ritornate alla vostra nebbia. Non è mia colpa se vivo e respiro E mangio e bevo e dormo e vesto panni”. “Il superstite” riflette il tema generale di “I sommersi e i salvati”. Ma Febbraro osserva che la poesia trova corrispondenza anche in un episodio preciso descritto nel saggio. Nell’agosto del ’44, il prigioniero Levi viene mandato a sgombrare macerie in una cantina, e trova un tubo a metà pieno d’acqua. E’ poca per condividerla con tutti i compagni, e d’altra parte sente di non poterla bere da solo. Alla fine, la spartisce con l’inseparabile amico Alberto. Ma un altro prigioniero, Daniele, che come le ombre del “Superstite” è “grigio di polvere di cemento”, ha visto i due armeggiare in una strana posizione, indovinando quel che è successo. Commenta Levi: “E’ giustificata o no la vergogna del poi? Non sono riuscito a stabilirlo allora, e neppure oggi ci riesco, ma la vergogna c’era e c’è, concreta, pesante, perenne. Daniele adesso è morto, ma nei nostri incontri di reduci, fraterni, affettuosi, il velo di quell’atto mancato, di quel bicchier d’acqua non condiviso, stava fra noi, trasparente, non espresso, ma percettibile e ’costoso’”. Il tema dell’acqua è al centro della più simbolica “Fuga”. Qui l’autore parafrasa la “Terra desolata”, e tratteggia un paesaggio che ricorda alcuni luoghi danteschi. Ma neppure in questi versi, nota Febbraro, manca il riferimento a Coleridge: il loro “deserto di aridità e di scherno” non è troppo diverso “dall’imbevibile mare del Vecchio marinaio”, e anche in “Fuga” si trova un personaggio macchiato da una indefinibile colpa: Roccia e sabbia e non acqua Sabbia trapunta dai suoi passi Senza numero fino all’orizzonte: Era in fuga, e nessuno lo inseguiva. Ghiaione trito e spento Pietra rosa dal vento Scissa dal gelo alterno, Vento asciutto e non acqua. Acqua niente per lui Che solo d’acqua aveva bisogno, Acqua per cancellare Acqua feroce sogno Acqua impossibile per rifarsi mondo. Sole plumbeo senza raggi Cielo e dune e non acqua Acqua ironica finta dai miraggi Acqua preziosa drenata in sudore E in alto l’inaccesa acqua dei cirri. Trovò il pozzo e discese, Tuffò le mani e l’acqua si fece rossa. Nessuno poté berne mai più. Chiosa Febbraro: “E’ una parabola di contaminazione: l’acqua di pozzo rappresenta anche la purezza battesimale del testimone (…) E’ quella che viene sporcata, resa non potabile: dopo ‘I sommersi e i salvati’ non sarà possibile riprendere la propria attività letteraria come prima”. L’incommensurabile delitto tedesco ha insozzato per sempre le sue vittime. Coi pur schematici versi di “Fuga” ci troviamo di fronte a un testo assai poco levianamente compiuto, e singolarmente allusivo: l’acqua torbida del grumo esistenziale non ha potuto essere del tutto illimpidita. Come si vede, “Primo Levi e i totem della poesia” è un libro ricco di suggestioni. Non solo sui versi leviani, ma su tutta l’opera dello scrittore, di cui offre un ritratto scorciato ma penetrante. Alcune annotazioni sul Levi più classico si risolvono in sintesi critiche perfette. Ad esempio, là dove Febbraro rileva il suo rifiuto della “ripida ipotassi”, della “accumulazione aggettivale” e della “espansione entropica”, a vantaggio di una costante “callida iunctura”. Levi è maestro nel ricombinare con sorprendente precisione sostantivi e aggettivi tratti dal serbatoio della tradizione letteraria o dalla lingua d’uso quotidiana. Sa che ogni sperimentalismo è futile se non ritrova “la giusta composizione chimica di elementi dati e inscritti da sempre nelle regole del nostro gioco”. “Denotativo, scientifico e insieme vastamente simbolico: ecco il consueto stile di Primo Levi, ecco la sua calma potenza”, conclude il critico. La definizione è perfetta per lo scrittore torinese; ma acquista un senso ulteriore per chi conosce l’opera del poeta e saggista Febbraro. Perché qui, senza perdere la sua esattezza, il ritratto sfiora un possibile autoritratto. In questo libro, l’acume del critico è infatti stimolato da una circostanza speciale: il suo tentativo di comprensione di Levi è insieme una riflessione su una poetica che lo riguarda da vicino. Le pagine leviane, così cristalline e pudiche, ma anche costrette a rimettere di continuo in gioco la chiarezza e il pudore per negoziare coi contenuti più dolorosi e indicibili dell’esperienza, non potevano non sollecitare l’autore del “Bene materiale” (Scheiwiller 2008), un poeta che nelle nitide e reticenti superfici apollinee delle sue liriche filtra i referti degli strati più profondi della psiche, i sintomi degli impulsi più violenti, e la misteriosa imponenza degli archetipi. Entrambi gli scrittori optano per una parola casta e pregnante, problematicamente limpida e stratificata, che si rivela tanto più verticale e simbolicamente tesa quanto più appare referenziale; entrambi, poi, tentano di appropriarsi dei classici senza schermi, con una sorta di alta ingenuità; ed entrambi usano i mezzi stilistici nel modo più laico, rifiutando di rinunciare in nome di qualche ideologia estetica all’“allegro rigore” con cui si avvalgono di tutte le risorse possibili, ma sempre al fine di ottenere un’ars retorica economica e funzionale. Sì, c’è davvero molto di Levi nel suo critico Febbraro: che è autore romanissimo, ma che nella Roma dei salotti letterari e dell’approssimatività formale vive e scrive con un rigore da vecchio piemontese.

 Tiziana Della Rocca: " Alle radici dell'odio, l'ebreo errante, un'anima inafferrabile "

Come al tempo dei protocolli di Sion, oggi si nega l’esistenza delle camere a gas per accusare gli ebrei di essere dei falsificatori. Per una loro irriducibile volontà di nuocere avrebbero inventato lo sterminio. Lo scopo del negazionista è sempre lo stesso: trasformare i perseguitati in persecutori, i dissanguati in sanguinari. Un antisemitismo aggressivo che arriva a un atroce scambismo, invertendo le parti tra vittime e carnefici a testimoniare l’inesausta sete di sangue degli ebrei. Già all’inizio del Medioevo si diceva che gli ebrei crocefiggessero e dissanguassero i bambini; “si diceva”, la diceria era già allora in voga, più forte di ogni realtà e verità, e il sangue colorava e montava il tutto. Invano Papa Innocenzo IV scagionò gli ebrei dall’accusa di omicidio rituale, l’odore del sangue eccitava gli animi, al punto che tutt’oggi in Spagna se ne sniffa un ultimo venticello, celebrando il Santo Niño, un bambino cui gli ebrei avrebbero asportato il cuore per divorarlo e bevuto tutto il sangue. Sembrerebbe che l’ebreo sia indissolubilmente legato, nell’immaginario collettivo, al sangue. Eppure il sangue umano è uno dei tabù della religione ebraica, che ne vieta il contatto. Il sangue umano non deve essere versato invano. Come interpretare allora la fantasia dell’omicidio rituale ebraico? Gli ebrei non si accontentano d’avere ucciso una volta Dio e, tronfi e superstiziosi, devono ucciderlo almeno una volta l’anno, perché non torni a tormentarli? Fatto sta che il sangue, a partire dalla Crocifissione di Cristo, non ha fatto che ricadere sulle teste degli ebrei, e il primo grande sterminatore fu un imperatore romano il più colto e mite, Adriano. Israele divenne un lago di sangue, e iniziò la diaspora che portò gli ebrei in terre lontane. Divennero un popolo dalla struttura mobile, che incuteva timore: se l’altro da sé non è accettato, finisce per incarnare tutte le paure e i timori di cui si è afflitti. E chi meglio dell’ebreo poteva ricoprire questa funzione all’interno della società medioevale, dominata dal peccato e quindi in perenne conflitto con la propria carne? Ma c’è di più, molto di più. L’ebreo aveva ucciso Cristo in carne e sangue, ma i cristiani quante volte l’avevano ucciso, dal momento che Cristo disse d’incarnarsi in ciascun uomo cui viene fatto un torto? Per via dei loro peccati, i cristiani si sentivano a propria volta deicidi. Come tollerare di esserlo, deicidi e non più seguaci di quel Verbo su cui si fondava la loro identità? Bisognava riversare tutto il male sugli ebrei, per allontanarlo da sé, nell’illusione di sentirsene immuni. Tuttavia la chiesa aveva approntato un rimedio: il peccato originale degli ebrei, il deicidio, sarebbe scomparso miracolosamente con il battesimo che li tramutava in cristiani. C’era però una difficoltà: gli ebrei erano testardamente attaccati alla loro religione e, nonostante i vantaggi sociali che un’abiura avrebbe comportato, rifiutavano, per la gran parte, di convertirsi. I cristiani se ne adontarono. Se i Padri della chiesa insegnano che il Vangelo è quanto di più alto e di più sublime si sia concepito sinora e che il suo richiamo è irresistibile, infiamma i cuori più duri, è implicito in questo discorso che chi non è animato dal desiderio di convertirsi, chi è sordo all’amore di Cristo, al punto di averlo crocifisso, è empio e, se è empio, è peccato tollerarlo quindi bisogna convertirlo con la forza. Ecco il ragionamento che diede l’avvio alla politica delle conversioni forzate che, contrariamente a ogni aspettativa da ambo le parti, si rivelerà un rimedio inefficace per guarire dall’antigiudaismo, anzi lo farà esplodere in tutta la sua violenza. Le conversioni forzate nacquero nell’equivoco e nel dubbio più tormentoso. La comunità ebraica spagnola era allora la più numerosa, e la più potente d’Europa. Quando la Spagna avviò il processo di riunificazione interna, la situazione mutò improvvisamente. Sanguinosi pogrom distrussero molte comunità spagnole; tanti ebrei furono costretti alla conversione, pena la morte seduta stante. E per tutto il secolo successivo si proseguì su questa strada: devastazioni, conversioni forzate e infine l’espulsione definitiva degli ultimi ebrei rimasti. La politica adottata dalla Spagna sembrava avesse dato i suoi frutti, il male era stato debellato, la terapia aveva funzionato: la metà degli ebrei si erano convertiti, gli altri esiliati. Toltili di mezzo sarebbe scomparso anche ogni residuo d’odio, che la loro presenza risvegliava, e tutti si sarebbero sentiti più buoni. E invece nacque, a sorpresa, il fenomeno del marranesimo, del cripto giudaismo: alcuni ebrei praticavano di nascosto l’antica religione dei padri, aggirando le leggi, per farsi beffa di Cristo stesso. Ma chi veramente inquietò oltre ogni misura, chi ridestò gli artigli dell’Inquisizione e popolò di incubi il sonno di Isabella? Per tutta la prima metà del ’400 l’integrazione dei nuovi cristiani era proceduta velocemente: carriere universitarie, ecclesiastiche, professioni liberali, nulla era loro precluso. Ma ben presto l’odio, proprio perché messo a tacere, divenne invincibile. Cominciò il popolino, aizzato dal basso clero, che privato dello spettacolo di vedere gli ebrei in condizioni peggiori delle sue non si rassegnava ora ai successi che la condizione di nuovi cristiani aveva donato loro. Ne invidiava la straordinaria mobilità espressasi non appena fu dato loro modo di farlo. O si ammira o si invidia, o si compete o si uccide. Numerosi cadaveri di “conversos” cominciarono ad ammucchiarsi per le strade. I “conversos” erano deicidi che avevano assunto l’aspetto dei bravi cristiani, un affronto ancora peggiore. Cristo era stato di nuovo crocifisso. Che fare, come riparare al fatale errore che comprometteva il buon nome di tutta la Spagna, il paese che in un impeto di generosità aveva permesso agli ebrei di farsi cristiani? Come sfatare il pericolo incombente della stirpe maledetta che, penetrata nel cuore del cristianesimo, tramava per soppiantarlo? Meglio allora tenersi i giudei e controllarli con una serie di disposizioni, piuttosto che farli entrare con l’abito dei cristiani dalla porta principale, come se avessero amato Gesù, invece che ucciderlo. Occorreva rimediare al peccato e ingabbiarli definitivamente in qualcosa di cui loro non avrebbero potuto mai più sbarazzarsi. Ma come degradarli se erano stati battezzati, e spesso gli ebrei davano prova di essere ottimi cristiani? Non era sul versante della fede che si poteva perseguitarli, occorreva trovare qualcosa d’inoppugnabile, qualcosa di non suscettibile di discussione o d’interpretazione, qualcosa che li inchiodasse definitivamente alla loro colpa: questa cosa era il sangue. Il sangue: da quando, nel momento della condanna e crocifissione di Cristo, i Vangeli avevano evocato l’urlo con cui gli ebrei con oltraggiosa superbia avevano accondisceso che il sangue del Messia nei secoli discendesse su di loro, quel sangue poteva essere eletto a loro perenne maledizione, una maledizione che sovrastava ogni successiva benedizione, ogni conversione e battesimo. Con notevole faccia tosta gli spagnoli decretarono che non c’era acqua battesimale in grado di lavare il sangue di Cristo versato dai deicidi, e ordinarono a tutti i sudditi di presentare il proprio sangue alle autorità, a loro volta costrette a questo rituale. Il sangue era legato al nome, al nome del padre, ma anche della madre, e i cittadini presentarono le genealogie che li assolvessero da quello che divenne il vero peccato originale, imperdonabile fino alla fine dei tempi. Bastava che un parente lontano fosse in odore di ebraismo, il tristemente famoso “faetor ebraicus”, perché tutta la sua discendenza fosse incriminata. E ci furono non poche sorprese: nobili spagnoli che presentarono la documentazione per accedere a cariche, magari cariche d’inquisitori, si trovarono improvvisamente dall’altra parte, nelle vesti dei reprobi, per via di una prozia coniugata con un ebreo o presunto tale. Chi promosse la persecuzione? I governanti spagnoli. Toledo fu la prima città a varare gli statuti della “limpieza de sangre” nel 1449, che poi si estesero a tutta la Spagna. I “conversos” erano impuri, hanno sangue impuro, per via della loro origine ebraica che non si cancella. Potevano accedere solo ai mestieri più degradanti, mestieri che si confacevano alla loro natura. Ci fu un’opposizione iniziale da parte del clero, ma l’avanzata degli Statuti fu comunque inarrestabile. I “conversos” sono “maculados” “macchiati” hanno una “macchia”, “macula”, nel sangue. Sono “impuri”, “impuros”. Un illustre portoghese, Vicente da Costa Mattos, disse: “Pouco sangue Iudeo he bastante a destruyr o mundo”. E il nobile cristiano Don Lope de Vera, della città di San Clemente nella Mancha, fu arso al rogo quando si scoprì che la balia che lo aveva allattato era una vecchia conversa “de sangre infecta”. E nella biografia dell’imperatore Carlo V troviamo: “Uno è il Signore di tutti, (…) tuttavia chi può negare che nei discendenti degli ebrei rimanga e persista l’inclinazione malvagia della loro antica ingratitudine proprio come fra negri persiste l’inseparabile negritudine? (…) Parimenti non è sufficiente per l’ebreo essere tre quarti aristocratico o vecchio cristiano, perché una sola linea famigliare (sola una raza) lo contamina e lo corrompe”. Il nuovo vangelo che riscatta il sangue di Cristo è stato redatto. Il male nell’ebreo non si estingue con la conversione, è nel suo sangue, fa parte della sua natura. Essi sono malvagi e per tale ragione uccisero Cristo. Tutto è spiegato ora, per gli ebrei non c’è redenzione, il cerchio della paranoia si chiude. Cosa degli ebrei non si tollera? Cosa sta all’origine dell’antisemitismo? L’erranza, la grande invenzione ebraica. La Torah, che l’ebreo porta sempre con sé “come patria portabile”, fonda l’erranza, non quella realistica dei nomadi, ma l’inafferrabilità dell’essere. Non potendo radicarsi in alcun luogo, l’ebreo oltrepassa ogni confine, irritando gli autoctoni. Niente riesce a farsi definitivo per lui, nonostante tutti i suoi sforzi. La terra rimane sempre una promessa che, anche se conquistata, non assume mai lo statuto di terraferma. L’ebreo è sempre in movimento, attraversa le nazioni perseguendo un oltre che non è rappresentabile. Non azzarda un’interpretazione unica e definitiva del testo biblico, lascia che ciascuno scelga la sua via, formi una propria visione utile al suo cammino. Porre l’accento sul sangue, nella sua concretezza genetica e nella sua limpidezza, comporta la negazione di ogni trascendenza. Il sangue così stabilisce tutto, se quello ebreo è impuro, deve essere eliminato, che non porti germi. Lo si eliminò, evitando che fosse versato, ché una volta versato poteva infettare la terra ariana; si preferì gasare e bruciare gli ebrei in modo che il sangue non fuoriuscisse. Fu una disinfestazione più che un massacro. Le donne ebree raramente furono toccate. Viceversa i soldati russi che conquistarono la Germania nel 1945 violentarono senza problemi tutte le tedesche che incontravano. Spagnoli e tedeschi, inquisitori e SS,quale nodo scorsoio unisce questi due popoli? In entrambi i casi, quando l’ebreo tentò di integrarsi, divenne una minaccia incontrollabile e fu necessario isolarlo, schedarlo. Complicati, tormentati, invasati di religiosa carnalità gli spagnoli tentarono di esorcizzare i loro fantasmi. Convertirono a forza gli ebrei per poi inchiodarli alla loro origine. Oscillavano tra condanna e perdono. Ci furono roghi, espulsioni, assoluzioni, ma in modo discontinuo e alla fine si placarono. Viceversa per i nazisti l’esistenza stessa di questo popolo costituiva un crimine e perseguirono con scrupolo la sua totale eliminazione, in un sadismo che si poneva come nuova religione universale. Non si uccisero degli uomini in quanto uomini, non contava cosa facessero o a cosa credessero, è il loro essere che si voleva annientare. A poco servì, presso alcuni ebrei tedeschi, il tacito comandamento: sii tedesco quando esci di casa, ma dentro casa e nel tuo cuore sii ebreo. Non c’era maschera che potessero indossare per nascondersi, era il sangue a fare testo, ne bastava una goccia tramandata da un antico avo per decidere la sorte di un individuo. Non dal disprezzo le persecuzioni insorgono, ma dall’odio, dall’intolleranza di veder incarnato in altri il proprio ideale. I tedeschi aspiravano al dominio del mondo, e si scagliarono contro coloro “per i quali una frontiera contava poco”. Anche i tedeschi si volevano eletti, ma sentivano che “nulla li predestinava a questo stato” e per questo, in vari momenti, forzarono la storia. Ma non servì, temevano di essere derisi proprio da quel popolo che, non radicandosi in alcun luogo, aveva piantato le sue radici in cielo, eletto per consacrare un piccolo lembo di terra che in tempo lontano gli fu promessa e a cui prima o poi avrebbe fatto ritorno.

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