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Il Foglio Rassegna Stampa
08.08.2013 I negoziati visti da Israele: territori in cambio di appoggio contro il nucleare iraniano
commento di Giulio Meotti, intervista ad Arieh Eldad di Susan Dabbous

Testata: Il Foglio
Data: 08 agosto 2013
Pagina: 3
Autore: Giulio Meotti - Susan Dabbous
Titolo: «'Terra in cambio dell’Iran'. Ecco il grande baratto di Bibi - Per i settler israeliani 'l’accordo di pace è uno spreco di carta'»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 08/08/2013, a pag. 3, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " 'Terra in cambio dell’Iran'. Ecco il grande baratto di Bibi", l'articolo di Susan Dabbous dal titolo " Per i settler israeliani “l’accordo di pace è uno spreco di carta” ".

A destra, Obama con una mappa per i negoziati : "Ora, non dobbiamo perdere di vista questo punto"
Ecco i pezzi:

Giulio Meotti - " 'Terra in cambio dell’Iran'. Ecco il grande baratto di Bibi"


Giulio Meotti


Una vignetta sui negoziati impossibili

Roma. Nel 1993 lo slogan dei negoziati fra israeliani e palestinesi fu “land for peace”. Terra in cambio di pace. Nell’establishment israeliano nessuno oggi lo evoca più. Nel 2013 lo slogan è “Yitzhar for Fordo”. Significa che Israele deve rinunciare ai territori in cambio dell’appoggio contro il programma nucleare iraniano (Yitzhar è la colonia più a est nei territori, sorge di fronte a Nablus ed è la casa dei settler più motivati e oltranzisti). E’ alla luce di questo scambio politico che si deve leggere la decisione del premier israeliano Benjamin Netanyahu di tornare ai negoziati con l’Autorità palestinese di Abu Mazen? Erano sette anni che le due parti non tornavano formalmente a discutere di accordi. “Anziché sedare le rivolte a Nablus, l’esercito potrebbe prepararsi al grande pericolo”, ha detto Tzachi Hanegbi riferendosi all’Iran. Hanegbi è una voce molto ascoltata da “Bibi”, già uomo fedele di Ariel Sharon e uno dei più falchi nel sostegno al raid contro il nucleare iraniano. Lontano resta il compromesso sui rifugiati, i palestinesi che abbandonarono la regione durante la guerra del 1948, alla nascita di Israele. Netanyahu sarebbe disposto ad accogliere una quota simbolica di 25 mila persone (è la stessa cifra pattuita nel vertice di Annapolis), ma Abu Mazen non è disposto a scendere sotto i 100 mila. Su Gerusalemme Bibi potrebbe accettare i “Clinton parameters”, quelli messi a punto durante i colloqui del 2000 a Camp David: i quartieri a maggioranza ebraica restano a Israele, quelli a dominio arabo ai palestinesi. Ma non c’è alcuna sintonia sulla città vecchia, che in teoria sorge oltre la linea armistiziale del 1967 e che ospita i luoghi santi dell’ebraismo. Oggi però sul tavolo negoziale Israele è tornato a mettere gran parte della Giudea e Samaria, la Cisgiordania.
Netanyahu sarebbe pronto a cedere il controllo sull’86 per cento di questi territori, mantenendo sotto sovranità ebraica il 14 per cento, i “blocchi di insediamenti” (già oggi l’Autorità palestinese autogoverna sul sessanta per cento dell’area). Haaretz, citando fonti anonime, parla addirittura di ipotesi di “ritiro dal 90 per cento” dei territori. Nel 1997, quando divenne per la prima volta primo ministro, Netanyahu parlò di “un 45-50 per cento della West Bank che deve rimanere sotto controllo israeliano”. Nel nuovo piano di Netanyahu, il confine sarà disegnato in modo tale “da includere il massimo numero di israeliani che vivono in Cisgiordania, e il minimo numero dei palestinesi”. Ideologia diluita a favore della sicurezza Alcuni giorni fa, parlando nel Centro Begin che porta il nome dello storico leader del Likud, Netanyahu non ha fatto parola della “biblica terra d’Israele” e del suo profondo significato per il popolo ebraico. Nel Netanyahu di oggi l’ideologia appare molto diluita, quello che resta predominante, sono piuttosto le necessità di sicurezza. Netanyahu così ha in mente un “piano Allon plus”, che ricalchi i principi di quello presentato dopo la Guerra dei sei giorni dall’ex leader laburista Yigal Allon. Sono le “zone di difesa irrinunciabili”, come la strada di collegamento tra la zona costiera e il Giordano, con il suo snodo all’incrocio di Tapuah e la colonia di Ariel; Gerusalemme, che per assicurarsi il destino di capitale d’Israele, deve inglobare le città satelliti che pareggino la forza degli arabi dentro e nei dintorni, e i “Green line settlements”, ovvero gli insediamenti a ridosso della linea del 1967 e a pochi minuti di auto da Tel Aviv, comunità pianificate dai governi laburisti di sinistra negli anni Settanta e considerate la cintura di sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion, l’unico scalo internazionale d’Israele.
Nella logica di Netanyahu il punto di non ritorno è stata la costruzione della barriera difensiva. Se è vero che soltanto 48 dei 122 insediamenti sorgono a ovest della barriera, quindi sul lato israeliano, questi contengono il 76 per cento di tutti i settler. 65 mila coloni vivono fuori dal tracciato di sicurezza. Bibi non rinuncia al Gush Etzion, il blocco a sud di Gerusalemme, dove vivono 20 mila israeliani, a protezione della capitale. Nessun compromesso neppure sul blocco di Maale Adumim, con i suoi 40 mila abitanti. Resterà sotto dominio israeliano anche Modin Illit, con i 50 mila ebrei ultraortodossi che ci vivono. Il problema è Ariel, che ha sì 20 mila residenti, ma che con i suoi villaggi a nord (Karnei Shomron, Emanuel, Yakir, Nofim e Kedumim) rende impraticabile la conservazione di tutto il blocco perché taglia in due i territori. L’85 per cento degli israeliani che vivono oltre la Linea verde e che il mondo chiama “coloni” risiedono infatti nei blocchi di insediamenti a cui Israele per nessuna ragione è pronto a rinunciare. Questi blocchi sorgono su appena il sei per cento della Cisgiordania. Il problema sono gli insediamenti che sorgono attorno alla strada numero 60, che taglia da nord a sud i territori. Ci vivono i coloni ideologicamente più motivati e la battaglia sarà non solo sulla loro visione del mondo, ma sulle loro case. Anche la grande area di Hebron resterebbe fuori, isolata a sud dei territori.
David Makovsky, analista del Washington Institute for Near East Policy, ha dettagliato le ipotesi a cui stanno lavorando israeliani e americani. Lo scenario migliore per Israele sarebbe rinunciare a 77 comunità e 59.872 residenti, ma i palestinesi non sono disposti a scendere sotto le 101 comunità e 132.599 residenti (le linee di Ginevra). Israele manterrà a tutti i costi una presenza militare nella Valle del Giordano (Netanyahu ha già evocato la rinuncia alla presenza civile). Questo sarà un capitolo decisivo dei negoziati, specie perché la presenza a est di Israele non mai è stata accettata dai palestinesi, che pur hanno ceduto sulla demilitarizzazione e lo spazio aereo che resterebbe sotto controllo israeliano. Un funzionario della sicurezza ci dice che “non ci sarà nessun esercito straniero a occidente del Giordano” e che “nessuna minaccia potrà venire a Israele da est senza prima scontrarsi su questa linea con la potenza del nostro esercito”. Allora abitare la valle di Shilo, dove sorge uno dei più cospicui e ideologici blocchi di insediamenti, è per Israele l’unico modo di restare in contatto con la Valle del Giordano. Perché non c’è solo la Giordania laggiù. Dietro c’è l’Iraq, la Siria, e poi l’Iran. Per adesso, cedendo, almeno retoricamente, sul piano della sovranità territoriale, storico tabù della destra israeliana, Netanyahu spera di ottenere quello che ai suoi occhi è il suo vero, grande lascito: il disarmo dell’atomica iraniana.

Susan Dabbous - " Per i settler israeliani “l’accordo di pace è uno spreco di carta” ".


Susan Dabbous                  Arieh Eldad

Gerusalemme. Premesso che i territori palestinesi non sono altro che “un’invenzione della comunità internazionale”, Arieh Eldad, nato a Tel Aviv 63 anni fa, ex deputato della Knesset nell’Unione nazionale, non si fa nessun problema a chiamare gli insediamenti “settlement”, così come vengono definiti in inglese nella loro accezione “illegale”. A meno di dieci giorni dalla ripresa dei negoziati di pace, l’ex parlamentare, oggi a capo di un nuovo partito laico di destra, Otzma LeYisrael (Forza di Israele), spiega al Foglio perché anche questo processo appena partito è destinato a fallire. Ci accoglie nella sua grande villa in quello che si potrebbe definire un settlement di lusso, Kfar Adumim, a una decina di chilometri a est di Gerusalemme. Eldad abita di fronte a un altro noto colono, l’attuale ministro dell’Edilizia Uri Ariel. “Abu Mazen e Netanyahu possono anche firmare un pezzo di carta con una sottospecie di accordo – dice – ma è un peccato per lo spreco della carta, il costo dell’abbattimento degli alberi”.
Il suo sarcasmo poggia su una realtà poco discutibile: il fallimento di tutti i negoziati precedenti da Oslo a Camp David, passando per il più recente tentativo di Annapolis.
E allora perché questo nuovo sprint? “Gli Stati Uniti vengono da un decennio di fallimenti nel mondo arabo-musulmano, ora vogliono rifarsi l’immagine, ma non andranno da nessuna parte. Prendiamo l’esempio degli insediamenti – prosegue – ci sono quasi mezzo milione di persone che vivono nei cosiddetti territori palestinesi, tra questi almeno 60 mila sono lì per ragioni ideologiche e non certo perché le case costano meno, seppure il governo li obbligasse ad andarsene sono pronti a iniziare una guerra civile”. Il riferimento è agli ultraortodossi, e in particolare al mancato rinnovo, domenica scorsa, del regime di agevolazione fiscale che aveva goduto finora la nutrita comunità di haredi nel settlement di Betar Illit. Escluse dalla lista dei destinatari di aiuti statali anche Efrat (vicino all’insediamento di Gush Etzion), e Kedar nei pressi del grande settlement di Maale Adumim. Nel piano di sovvenzioni del governo Netanyahu rientrano invece molti insediamenti finora ritenuti illegali (i cosiddetti outpost) tra questi figurano Rehalim e Bruchin in Samaria, e Sansana e Negohot nelle colline di Hebron nonché Hebron stessa, Nofim, Geva Binyamin, Maale Micmas, e Eshkolot. Difficile non leggere l’assegnazione delle agevolazioni fiscali in chiave politica, da quando gli ultraortodossi non fanno più parte della maggioranza sono tante le sconfitte subite, compresa l’estensione della leva obbligatoria ai giovani studenti della Torah.
Ma al di là delle sfumature fiscali, la politica abitativa degli israeliani vede più di 300 mila cittadini vivere in Cisgiordania per tre motivi: economici (le case costano meno), politici (rivendicazioni nazionaliste) e religiosi (santità di alcuni luoghi tra cui Hebron). Ad andare nella direzione opposta a quella indicata da Washington, c’è poi l’approvazione di un nuovo quartiere israeliano nella parte meridionale di Gerusalemme est a Jabal Mukaber. Niente di gigantesco, solo 63 unità abitative, ma dall’alto valore strategico “visto l’avvicinarsi delle elezioni municipali, che si terranno tra due mesi”, ricorda Eldad. L’ex parlamentare ha cinque figli e quando non fa politica svolge la professione medica. Nel paese è noto per la sua versione rivisitata del “due popoli due stati”: Israele e Giordania, perché la Palestina formalmente (come entità statale) non esiste. Il fiume Giordano ne sarebbe il confine naturale, “spero che la monarchia ascemita venga rovesciata come è successo in altri paesi arabi, e che venga costituito un nuovo stato che dia cittadinanza a tutti i palestinesi”.

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