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Il Foglio Rassegna Stampa
07.07.2011 Yale chiude il suo prestigioso centro di studi sull'antisemitismo
'grazie' a boicottaggio iraniano e pressione dagli ambasciatori palestinesi in Usa. Commento di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 07 luglio 2011
Pagina: 5
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Mullah nei campus d'America»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 07/07/2011, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Mullah nei campus d'America ".


Yale                        Giulio Meotti

Cinque anni fa l’Università di Yale, gioiello della Ivy League americana, aveva dato vita allo Yale Initiative for Interdisciplinary Study of Anti-Semitism, il primo centro accademico al mondo completamente dedicato allo studio dell’antisemitismo.
Un laboratorio universitario che doveva essere, nelle parole del direttore Charles Small, “uno spazio per la ricerca delle cause contemporanee dell’antisemitismo e dei modi per combatterlo”. Un pensatoio che avrebbe sviscerato le forme moderne dell’odio antiebraico, dall’antisionismo politico ai “blood libels” che circolano nell’islam contemporaneo. Il dipartimento chiuderà a luglio per ordine dell’università, fra mille polemiche e dolorose accuse di antisemitismo che stanno mettendo in grave imbarazzo la prestigiosa facoltà, un pilastro del protestantesimo americano che sorge dal 1701 a New Haven, nel Connecticut, e che si contende da molti anni il titolo di più importante università d’America assieme ad Harvard e Princeton. Un ordine della presidenza dell’ateneo ha dato al centro un mese per smantellare ogni attività e sgombrare gli uffici.
Le cause della chiusura sono state il boicottaggio dell’Iran, l’accusa di “servilismo a Israele”, la pressione degli ambasciatori palestinesi negli Stati Uniti, il politicamente corretto e le laute donazioni dei paesi arabi. Di “scandalo” sulla chiusura del centro parla apertamente Ruth Wisse, accademica di Harvard e fra le massime autorità mondiali in letteratura ebraica: “Il centro di Yale era il primo istituto fondato in una università americana che stava studiando l’antisemitismo contemporaneo”. Anche Ron Rosenbaum, il giornalista autore del monumentale e straordinario “Il mistero Hitler”, sul liberal Slate ha scandito così il proprio oltraggio contro Yale: “E’ una specie di omicidio accademico”.
Rosenbaum accusa l’ateneo di antisemitismo, ricordando che fino al 1960 aveva una “quota ebraica” di studenti ammessi ogni anno. “Yale sta essenzialmente inventando un nuovo tipo di quota ebraica: una quota sulla rabbia che gli ebrei possono esprimere nei confronti di coloro che desiderano il loro sterminio. Una discussione sull’antisemitismo diventa ‘verboten’ nei campus americani” (in tedesco verboten significa proibito). Rosenbaum spiega che la decisione di chiudere il centro ha a che fare con le linee accademiche perseguite dal dipartimento: lo studio dell’antisemitismo in chiave antisionista e l’odio antiebraico che promana dall’islam e in particolare da Teheran. A difesa del centro studi si schiera anche la rivista liberal The New Republic, mentre il celebre sociologo Amitai Etzioni sulla Cnn ha paragonato le pressioni subite da Yale a chiudere il centro al caso dell’autore dei “Versetti satanici”: “Immaginate cosa avremmo detto se la Gran Bretagna avesse espulso Salman Rushdie perché non aveva un permesso di lavoro”.
Mobilitate le maggiori organizzazioni ebraiche americane. Abraham Foxman, a capo dell’Antidefamation League, dice: “La decisione di chiudere il centro è deleteria perché lascia intendere che le forze antiebraiche nel mondo abbiano raggiunto una vittoria significativa”. Di decisione “politica” parla Ken Marcus, direttore della Initiative to Combat Anti-Semitism. Abby Wisse Schachter, che sul New York Post ha rivelato per prima la vicenda, ha così denunciato la chiusura della scuola: “L’antisemitismo cristiano va bene; sull’odio politico antiebraico, sia esso comunista o fascista, nessun problema. Ma quando si parla di antisemitismo islamico e mediorientale, come ha fatto l’istituto, beh allora hai oltrepassato il limite”.
Schachter scrive che subito dopo la conferenza del 2010 dal titolo “Global Antisemitism: A Crisis of Modernity”, che aggregò da tutto il mondo un centinaio di studiosi, “rappresentanti dell’Olp palestinesi hanno contattato il presidente dell’ateneo, Richard Lewin, lamentandosi dell’attenzione rivolta all’antisemitismo fra i musulmani”. In particolare l’ambasciatore dell’Olp in America, Maen Rashid Areikat, in una lettera a Lewin ha scritto che “è scioccante che una rispettata istituzione come Yale abbia dato una piattaforma a estremisti di destra e alle loro idee odiose. La invito a dissociarsi”. Areikat in particolare ha attaccato Yale per la presenza di Itamar Marcus, il capo del Palestinian Media Watch e forse il massimo esperto mondiale di antisemitismo nei media del mondo arabo-islamico. Il rappresentante dell’Olp ha definito Marcus “razzista mascherato da ricercatore”. Medesima furia è stata riversata per l’invito rivolto dal centro di Yale ai ricercatori del Memri, il celebre e discusso istituto, unico al mondo, che traduce da molti anni dall’arabo, dal farsi e dall’urdu una valanga di materiale inerente al mondo islamico, all’occidente e agli ebrei. Prima di questo centro in nessuna grande università occidentale si erano udite lezioni su “The Central Role of Palestinian Antisemitism in Creating the Palestinian Identity”, “Lawfare, Human Rights Organizations and the Demonization of Israel” e “Self Hatred and Contemporary Antisemitism”. Sullo Yale Daily News, il bollettino dell’università, sono apparsi ripetuti attacchi al centro studi, accusato di “fomentare l’islamofobia e il risentimento antiarabo”. Commentando su New Republic la decisione di Yale di chiudere il centro, lo storico Jeffrey Herf scrive che la giustificazione dell’ateneo (la presunta scarsa qualità dei ricercatori invitati alle conferenze) è “ridicola”.
Il centro vantava studiosi di fama mondiale: Benny Morris, Alan Dershowitz, Alvin Rosenfeld, Martha Nussbaum, Michael Oren, Robert Wistrich, Michael Walzer, Richard Landes e Dina Porat.
Tanti sono stati gli studiosi invitati dal dipartimento nei cinque anni di lezioni, dall’ex ministro della Giustizia canadese Irwin Cotler al professore inglese David Hirsh, fino al ricercatore islamico Bassam Tibi e alla storica Deborah Lipstadt.
Nel gennaio 2010, il regime di Teheran annunciò il boicottaggio di Yale a causa proprio della presenza del piccolo centro studi sull’antisemitismo. Il governo iraniano etichettò Yale come “sovversiva”, dichiarando che qualsiasi contatto tra la celebre facoltà e i cittadini iraniani era “illegale e proibito”. A causa del boicottaggio, professori di Yale coinvolti in ricerche sulla cultura persiana sono stati costretti a porre fine alle proprie attività accademiche in Iran. Ma anziché attaccare il regime dei mullah per la violenta iniziativa, gli accademici si sono scagliati contro l’istituto sull’antisemitismo all’interno del campus, facendo pressioni perché venisse chiuso. Nel 2008 il centro di Yale aveva ospitato una grande conferenza dal titolo “Understanding the Challenge of Iran”. Erano stati invitati fra i maggiori esperti d’Iran riparati all’estero, dissidenti come il fondatore dell’American Iranian Council Hooshang Amirahmadi, Roya Boroumand dell’omonimo centro per i diritti umani in Iran, l’israeliana Liora Hendelman-Baavur e la francese Saeed Paivandi. Alex Joffe in un articolo dal titolo “Antisemitism and Man at Yale” (che riprende un celebre saggio di William F. Buckley sull’ateismo militante della facoltà negli anni Sessanta) scrive che “Yale ha cercato il sostegno di ricchi benefattori del mondo arabo. In particolare ha corteggiato il principe saudita Alwaleed ibn Talal”.
Due anni fa Yale era finita nelle polemiche per la decisione dell’edizione universitaria di autocensurarsi sulla questione delle vignette danesi. E anche allora si parlò apertamente di interferenze arabe. La casa editrice del famoso ateneo americano aveva pubblicato un libro sui famosi “Cartoon che hanno scosso il mondo”, ma senza le immagini che nel 2005 provocarono sommosse con oltre duecento morti in medio oriente e in Asia. Per paura di “offendere l’islam”.
Reza Aslan, celebre esperto di religioni, criticò Yale per essersi autocensurata e aver violato la libertà accademica. “Codardi, vergogna”, ha tuonato sul New York Post l’Associazione americana dei professori universitari. Il professor Walter Reich, che insegna alla George Washington University e ha diretto il museo sull’Olocausto di Washington, sul Washington Post giorni fa ha scritto che “Yale ha ucciso il miglior istituto americano per lo studio dell’antisemitismo” perché “critico dell’antisemitismo arabo e iraniano”. Sul settimanale The Forward, Ben Cohen aggiunge che “la triste verità è che gli ebrei morti – vittime di crociate, pogrom e Shoah – sono terreno fertile per l’accademia, ma non quelli vivi”.
Sull’Huffington Post ha scritto anche Dershowitz, il principe del foro americano, professore di legge di Harvard, una delle figure più note del mondo liberal a stelle e strisce e una vita sul fronte dei diritti civili: “In Inghilterra un famoso musicista di jazz tuona contro il popolo ebraico, nega l’Olocausto e si scusa con i nazisti per aver una volta paragonato lo stato ebraico alla Germania nazista, dal momento che a suo avviso Israele è di gran lunga peggiore. In Norvegia un importante professore critica apertamente il popolo ebraico come gruppo e la cultura ebraica come deviazione collettiva. A Johannesburg, l’università recide i propri legami con una università israeliana, mentre a Città del Capo un titolo di giornale mi accoglie con le seguenti parole: ‘Dershowitz non è il benvenuto qui’. In tutte le mie visite nelle capitali europee, ho sentito preoccupazione da parte degli studenti ebrei che sono terrorizzati di parlare ebraico, indossare copricapi, stelle di Davide o qualsiasi altra cosa che li identifichi come ebrei. Negli Stati Uniti, e in particolare nelle università americane, le cose non sono così male”.
Fino a oggi. A Yale non c’erano state polemiche sull’invito rivolto a Tariq Ramadan, l’islamista ginevrino a lungo bandito negli Stati Uniti e considerato un alfiere del fondamentalismo politico legato ai Fratelli musulmani d’Egitto. Nessuna polemica sul fatto che gli studenti del Jackson Center for Global Affairs di Yale fossero stati portati dai loro docenti a incontrare il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad quando era in visita a New York all’Onu (in quell’occasione il leader iraniano negò nuovamente la Shoah). Secondo molti osservatori la pressione a chiudere l’istituto è arrivata dai donatori della Lega araba. A gennaio è stata registrata l’ultima donazione islamica a Yale da parte del Bahrain, per una entità di 500 mila dollari. La storia delle donazioni islamiste rientra nella più generale apprensione che negli Stati Uniti sta montando a proposito dei finanziamenti musulmani agli atenei americani. Una storia che inizia nel 1976, quando i sauditi trasferirono un milione di dollari alla University of Southern California. Tre anni dopo, vengono firmati assegni per 200 mila dollari alla Duke University, 750 mila dalla Libia alla Georgetown University e 250 mila dagli Emirati arabi sempre a Georgetown. Da allora a guidare la lista dei beneficiciari dei sauditi è Harvard, con trenta milioni; venti milioni all’Università dell’Arkansas; cinque milioni al Center for Middle East Studies di Berkeley; undici milioni alla Cornell University a Ithaca, New York; un milione a Princeton e cinque alla Rutgers University. Le donazioni sono arrivate da tempo anche all’Europa. Il mese scorso uno scandalo ha coinvolto l’Università St. Andrews in Scozia, culla di nobiltà e di cultura, che ha ricevuto un lauto finanziamento dal regime di Damasco per creare un “centro studi siriani”. A marzo era stata la London School of Economics a finire nell’imbarazzo con le donazioni di Gheddafi e la laurea al figlio Saif. Oxford ha un centro finanziato da Teheran. Otto università britanniche, inclusa Cambridge, hanno ricevuto 233 milioni di sterline dai regimi islamici.
La cifra è stata rivelata da Anthony Glees, direttore del Brunel University’s Centre for Intelligence and Security Studies. Le conseguenze del finanziamento sono tragiche: il settanta per cento dei corsi di medio oriente al St. Anthony College sono oggi “implacabilmente ostili” a Israele e all’occidente. A Georgetown, la più antica università cattolica d’America, i fondi arrivano tramite il Center for Muslim- Christian Understanding, che dopo la donazione saudita è stato ribattezzato Prince Alwaleed bin Talal Center for Muslim- Christian Understanding. Ci sono diciassette centri di studi mediorientali negli Stati Uniti e quasi tutti ospitano ricercatori antioccidentali e islamisti impenitenti. Una celebre inchiesta del settimanale neoconservatore Weekly Standard nel 2009 si chiedeva senza tanti mezzi termini: “Yale è stata messa in vendita?”. E’ notizia di pochi giorni fa che al posto della demonizzata Yale Initiative for Interdisciplinary Study of Anti-Semitism, l’università organizzerà un nuovo Yale Program for the Study of anti-Semitism.
Non si prevedono però conferenze ad hoc sul mondo islamico o critiche alle politiche negazioniste di Teheran. L’accademica della New York University Phyllis Chessler ha scritto: “La palestinizzazione e la stalinizzazione dell’accademia americana, assieme alla prospettiva di un finanziamento dal mondo arabo, ha reso questo risultato inevitabile a Yale”. Un po’ enfatico, forse, ma pregnante. Al momento non sono previste iniziative per modificare lo slogan dell’ateneo impresso a caratteri ebraici: Urim v’Tumim. Significa “luce e verità”.

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