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Il Foglio Rassegna Stampa
27.01.2011 Egitto, se cade Mubarak ci sono i Fratelli Musulmani
Non c'è spazio per la democrazia nei Paesi arabi. Commenti di Carlo Panella, Daniele Raineri, Amy Rosenthal

Testata: Il Foglio
Data: 27 gennaio 2011
Pagina: 5
Autore: Carlo Panella - Daniele Raineri - Amy Rosenthal
Titolo: «Da Tunisi al Cairo sfuma il mito della piazza araba antioccidentale - Il gigante con l'uniforme»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/01/2011, a pag. I, gli articoli di Carlo Panella, Daniele Raineri, Amy Rosenthal titolati " Da Tunisi al Cairo sfuma il mito della piazza araba antioccidentale", " Il gigante con l'uniforme ", " Il 2011 è l’anno decisivo per 'il sarcofago che ". Ecco i pezzi:

Carlo Panella : " Da Tunisi al Cairo sfuma il mito della piazza araba antioccidentale "


Carlo Panella

Roma. La rivoluzione tunisina ha spazzato via una delle immagini più tetre che distinguono il medio oriente da più di cinquant’anni: quella della “piazza araba” eccitata dall’antisemitismo e dall’odio per gli Stati Uniti, ma incapace di abbattere i suoi rais. Una “piazza” che osanna leader, ma si mobilita soltanto dopo che i carri armati dei militari avevano già fatto piazza pulita del dittatore di turno; che è stata revanscista e guerrafondaia; che ha rappresentato un luogo comune piuttosto trito nella retorica politica e giornalistica di al Jazeera. Quella piazza era affascinata dagli appelli truculenti, come quello lanciato il 23 maggio 1967, alla vigilia della guerra dei Sei giorni, da Radio Damasco (“Piazza araba, questo è il giorno! Arabi, accorrete al campo di battaglia. Fate loro sapere che impiccheremo l’ultimo soldato imperialista con le budella dell’ultimo soldato sionista!”), e aveva per mentore Gamal Abdel Nasser. Che la capiva, la blandiva, ne solleticava i peggiori istinti, convocandola fin nei più sperduti paesi d’Egitto per urlare discorsi roboanti sulla guerra per “spazzare Israele dalla faccia della terra”. Quel veleno spinse milioni di egiziani a organizzarsi come non mai quando Nasser, persa la guerra dei Sei giorni, diede le dimissioni ottenendone poi la revoca. Ma è stata una piazza capace di infiammarsi anche nelle rivolte per il pane, così come dopo partite di calcio, e ha prodotto giornate tanto violente quanto inconcludenti sotto il profilo politico. La piazza araba ha dato il peggio di sé ad Amman nel 1970, quando era colma di palestinesi che ubbidivano al dissennato disegno del loro leader, Yasser Arafat, di impadronirsi della Giordania con un golpe. Ma questa creatura non è mai riuscita, prima della rivolta tunisina, ad abbattere un regime. Non ha mai dato prova della capacità di mobilitarsi in una prospettiva complessiva, come hanno saputo fare, sin dall’inizio del Novecento, la piazza indiana del Mahatma Gandhi e quella iraniana. E’ la riprova indiscutibile di una tesi: l’arretratezza e la grettezza della scena politica araba non può essere annoverata fra le colpe del colonialismo. E’ prodotta, invece, da una storica, drammatica, debolezza delle élite locali e possiede dinamiche del tutto interne. Al mito fantasmico del discorso politico arabo – evocato da Yasser Arafat – si è ribellato soltanto il re di Giordania Abdullah, che tre anni fa ha liquidato così la retorica guerresca arabopalestinese: “Il problema con i palestinesi è che spendono il loro tempo a rimproverare i leader e la piazza araba. Smettete di fare il coro con al Jazeera sulle colpe della piazza e dei leader che non vi aiutano, e aiutatevi voi per primi. Ogni volta che ho chiesto ad Arafat qual era la sua strategia, ho ottenuto il silenzio per risposta”. Dopotutto, la storia stessa di questo fenomeno dimostra le sue pessime caratteristiche. Assolutamente silente sotto il domino ottomano – nonostante gli arabi fossero costretti dai turchi all’umiliante status di cittadini di seconda classe – la piazza araba non rispose all’appello di Hussein al Hashemi, che chiedeva di partecipare alla rivolta contro i turchi assieme a Lawrence d’Arabia. Uscì allo scoperto per la prima volta il 4 aprile 1920, sotto la guida del Gran Muftì Amin al Husseini, andando all’assalto del quartiere ebraico di Gerusalemme per un pogrom di tre giorni in cui furono trucidati cinque ebrei e 211 furono feriti. La piazza araba antisemita diede un’altra prova a Baghdad, all’inizio di giugno del 1941, con un nuovo pogrom (175 morti e oltre mille feriti) coinciso con il putsch ordito dal Baath e dal Gran Muftì per consegnare il petrolio iracheno ad Hitler. Nel dopoguerra il movimento arabo anticoloniale privilegiò il terrorismo e il maquis nelle campagne alla rivolta urbana. Con poche eccezioni, come la Tunisia di Bourguiba e la manifestazione del Cairo del 26 gennaio 1952, che fecero soltanto da sfondo al putsch di Naguib e Nasser – patrocinato dagli Stati Uniti – del luglio successivo. Recentemente, la logica di sopraffazione, di ignoranza e di violenza della piazza araba si è replicata con le manifestazioni contro Benedetto XVI per il discorso di Ratisbona e contro le vignette danesi su Maometto. Quello era lo specchio fedele del fanatismo religioso e di una straordinaria arretratezza politica e culturale. Nulla a che vedere con la rapida capacità di conseguire una vittoria politica della rivolta tunisina. Che ora contagia, si vedrà con quale esito, tutti i paesi arabi.

 Daniele Raineri : " Il gigante con l'uniforme "


Hosni Mubarak

Nessuno può dire nulla, mai. C’è la Legge 313. E’ in vigore da 54 anni, proibisce a chiunque di parlare dei militari e copre l’esercito intero sotto un manto di segretezza da cattivo romanzo di fantascienza. “Se domani il ministro della Difesa egiziano va alla Cnn a dire ‘Abbiamo cambiato colore alle uniformi’ e tu lo scrivi su un giornale in Egitto, ti aprono contro un procedimento penale. Puoi protestare ‘Ma è andato alla Cnn a dirlo’, e la risposta sarà ‘Lo sappiamo, ma tu non puoi scriverlo senza autorizzazione’”, spiega una fonte giornalistica dal Cairo. Dire che l’establishment militare è il convitato di pietra che da un angolo della tavola osserva i fatti della politica del Cairo è un eufemismo che fa ridere anche i piccoli egiziani, assuefatti a cambiare discorso in automatico se si parla di uniformi. L’establishment militare è piuttosto il gigante di pietra, muto, inamovibile, indecifrabile, che incombe sulla vita del paese e proietta in questi giorni la sua ombra sulle rivolte di piazza e in generale sulla questione imminente della successione al presidente Hosni Mubarak – soprattutto da quando la consegna di poteri sembra matura per il figlio banchiere Gamal. Sarebbe il primo presidente civile da cinquant’anni (due giorni fa, con sprezzo del pericolo poco marziale, ha fatto riempire cento valigie ed è volato a Londra). I militari hanno rapporti soltanto e direttamente con il presidente, non con il primo ministro né con il governo, e ignorano con sufficienza tutti gli appelli del Parlamento che regolarmente provano a chiedere: “Quanto ci costate?”. I nomi dei generali. Il numero dei soldati. Quanto ricevono di paga. Le proprietà immense dell’esercito, terre, edifici e fabbriche. Il budget. Nessuna di queste informazioni è considerata pubblicabile ed è stata mai pubblicata, è tutto segreto di stato – anche se gli osservatori stimano che gli uomini in divisa siano tra i 300 mila e i 400 mila. La Legge 313 è una bella mano a conservare lo status quo, ma l’esercito di un paese arabo da ottanta milioni di persone non andrebbe molto lontano se avesse soltanto il vuoto potere legale di cacciare i curiosi e zittire gli scocciatori. La realtà è che i militari sono semplicemente la parte più grossa dell’economia. Anche qui come è ovvio non ci sono informazioni ufficiali, ma Joshua Stacher, un professore della Kansas University che studia e si è specializzato sulle Forze armate egiziane, stima che di quella economia nazionale i militari controllino tra il 33 e il 45 per cento. Sono ubiqui e hanno dato a “imprese militari” un nuovo senso, decisamente redditizio. Dall’olio di oliva all’acqua in bottiglia al cemento armato, dalla fabbricazione ed esportazione di lavatrici, televisioni, frigoriferi, tubature e acciaio alla costruzione di strade e ponti, dalla produzione di massa di armi all’amministrazione di hotel e resort turistici, spesso in condizioni di monopolio forzato – chi si mette a competere contro di loro? – e senza dovere pagare alcuna tassa. E possono coprire qualsiasi richiesta di trasparenza finanziaria invocando “ragioni di sicurezza” e segreto di stato. Tanto potere economico induce rispetto. I soldati hanno costruito l’autostrada che dalla capitale porta al Mar rosso. Durante le rivolte del pane nel marzo 2008, sono intervenuti distribuendo pane cotto dai propri forni, guadagnandosi ancora una volta la fama di istituzione statale meno corrotta e più efficiente. Quattro mesi fa, Salah Eissa, direttore del settimanale progovernativo al Qahira, ha ammesso in un’intervista che “in tempi di crisi, puoi contare su di loro. Per questo oggi c’è gente che dice addirittura di volere un governo militare”. Due giorni fa al Ahram, una delle più importanti produttrici di bevande dell’Egitto e monopolista della birra, ha annunciato festosa l’accordo con l’acqua minerale Safi, controllata dai militari. “Loro conserveranno il controllo dell’acqua Safi, che, però, sarà distribuita con la nostra flotta di camion”, ha detto gongolante il presidente di al Ahram, spiegando che il lato vantaggioso dell’accordo era essersi finalmente “infilati nello stesso letto con i militari. Nessuno disturberà più i nostri trasporti, anche alcolici”. L’acqua Safi prende il nome dalla figlia maggiore del ministro per la Produzione militare, Sayed Meshal, ovviamente un ex generale. Passa tutto per il suo ministero, il cui sfarzoso quartier generale – lucidi corrimano dorati e ricercati gadget ministeriali con l’emblema – spicca sugli edifici tracagnotti che lo circondano nel centro del Cairo. Ogni anno il ministero in divisa – che però impiega anche quarantamila civili – ottiene dal suo settore “privato” circa due miliardi di sterline egiziane, 345 milioni di dollari. I generali egiziani sono anche i destinatari privilegiati degli aiuti militari da parte di Washington, e anche per questo il presidente Obama avrebbe pronunciato il suo discorso all’islam dal Cairo, per fare breccia dove la barriera è più morbida. Vale la regola del “don’t ask, don’t tell”, ma negli ultimi trent’anni sarebbero arrivati circa 40 miliardi di dollari, di più riceve soltanto Israele. Anche se, secondo Wikileaks, l’anno scorso i generali si sono lamentati che l’Amministrazione non segue più la vecchia norma del 2 a 3 stabilita a Camp David nel ’79 (per esempio due miliardi al Cairo e 3 a Gerusalemme), ma sarebbe passata a un più svantaggioso 2 a 5. Da quando nel 1952 il colonnello Gamal Abdel Nasser rovesciò la monarchia, la traiettoria politica dell’Egitto è sempre stata decisa dalle Forze armate – Mubarak stesso è un generale dell’aviazione succeduto a un altro generale. I moti di piazza di questi giorni sono una rivolta contro la stagnazione e contro il regime civile. Ma non se la prendono direttamente con il ruolo dei militari, pur sempre capaci – secondo un raro dato del 1985 – di provvedere a un quinto del fabbisogno alimentare del paese, e c’è poco da contestare le divise in un periodo di crisi da povertà che tocca il 29 per cento della popolazione. Per ora l’establishment egiziano è una sfinge silenziosa, ma sa bene che tutto dipende da come deciderà di schierarsi. A Tunisi la cacciata di Ben Ali è stata precipitata dai generali, che hanno scelto di non intervenire contro i rivoltosi e oggi sono ancora al loro posto. Al Cairo si sta svolgendo un calcolo simile, ma ancora più calibrato. “I generali hanno un enorme interesse a che l’Egitto continui ad andare avanti come è andato avanti fino a oggi – dice un diplomatico occidentale a Sarah Topol, di Slate – c’è questa convinzione nell’aria che il prossimo presidente debba essere un militare. Non so se sia vero. Ma è l’interesse che loro vogliono proteggere”. Un indizio opposto arriva da un cablo riservato dell’ambasciatrice Margaret Scobey del settembre 2008. Mubarak potrebbe tentare di neutralizzare l’ultima parola da kingmaker dei generali, assicurando loro il più ampio interesse possibile. Durante l’ineluttabile transizione in arrivo, scrive l’ambasciatrice a Washington, i militari – “che sono un’impresa d’affari” – saranno tutti concentrati a capire se il prossimo presidente proteggerà il loro impero economico piuttosto che a guardare se indossa una divisa. “Il regime tenterà sicuramente di cooptarli e di comprare il loro assenso all’arrivo di Gamal alla presidenza”. In attesa di fare una mossa, di intervenire o di lasciare correre, i generali guardano anche ai patroni munifici di Washington. Per ora l’Amministrazione Obama, già alle prese con una geopolitica intricata e a cui ora nel segreto della Sala Ovale gli egiziani in piazza devono sembrare simpatici come i Tea Party, tace sulle richieste precise dei manifestanti, che vogliono da Mubarak la revoca della legge di emergenza che per anni è stata usata per imprigionare e torturare gli oppositori politici e che è stata da poco rinnovata. Il segretario di stato, Hillary Clinton, ha invece detto due giorni fa che “il governo egiziano è stabile e saprà rispondere ai bisogni legittimi del popolo”. Messaggio a chi ha le stellette: non abbiamo bisogno di altri guai, chi vuole ancora i nostri aiuti ne tenga conto.

 Amy Rosenthal : " Il 2011 è l’anno decisivo per 'il sarcofago che cammina' "


 Amy Rosenthal

New York. Hosni Mubarak sembra “un sarcofago che cammina”, ottantadue anni e una successione da gestire, e ora il contagio tunisino che scatena proteste mai viste, migliaia di persone in piazza, morti, arresti, divieti alle manifestazioni che, imperterrite, continuano. La definizione è stata utilizzata da Jonathan Schanzer, vicepresidente per le ricerche alla Foundation for the defense of democracies, un commentatore che conosce bene l’Egitto, ci ha lavorato per anni, ha studiato all’Università americana al Cairo, ha lavorato come analista sui finanziamenti al terrorismo al dipartimento del Tesoro americano e ha scritto alcuni saggi sul medio oriente. Parlando con il Foglio, dice che quello che è accaduto in Tunisia “è senza precedenti” e che l’effetto domino potrebbe portare conseguenze inedite anche in Egitto, pure se qualche perplessità resta. Perché il regime di Mubarak è di tutt’altra natura rispetto a quello di Ben Ali. La successione è il tema importante, tutti la guardano con preoccupazione dato che la stabilità dell’Egitto è strategica per la questione palestinese e per l’egemonia iraniana (e sciita) nell’area mediorientale. “Ci possono essere scontri terribili tra Gamal, il delfino di Mubarak, l’ex capo dell’Agenzia atomica dell’Onu Mohammed El- Baradei, figure militari e anche i Fratelli musulmani – spiega Schanzer – Le tensioni che continuano a crescere tra i copti e gli islamisti rappresentano un’ulteriore sfida per il regime, come dimostra l’attentato di Capodanno”. Se si voterà a settembre, il 2011 sarà un anno molto problematico per il “sarcofago che cammina”. Anche l’opposizione potrebbe riorganizzarsi ora che vede che la piazza, spontaneamente, riesce a mettere in discussione la tenuta del regime. Kifaya, il movimento che pareva rivoluzionario nel 2005, ma che poi è stato silenziato, “potrebbe sentirsi di nuovo forte, e gestire la piazza per strattonare il faraone”. Ogni movimento, tuttavia, è tenuto sotto controllo dall’apparato di governo e dalla comunità internazionale. Soprattutto gli Stati Uniti. Il segretario di stato, Hillary Clinton, ha detto che il regime è “stabile” ma che deve ascoltare le istanze dei manifestanti, “a dimostrazione che Washington non è in una posizione facile”, dice Schanzer. Da un lato ci sono gli aiuti – poco più di due miliardi di dollari l’anno – e dall’altro un regime poco sensibile alle minime forme di democrazia. “Clinton ha capito che un grande movimento è partito dalla Tunisia e che va tenuto in considerazione – spiega Schanzer – Ma non può non dare anche il suo sostegno al regime”. Come spesso succede agli Stati Uniti, il rapporto con la voglia di libertà dei popoli è un po’ contorto. Quel che preoccupa Schanzer, soprattutto, è che “la gente in questa regione del mondo non dimentica nulla. Sa che gli Stati Uniti hanno sostenuto regimi per tanto tempo. Sa che l’America ha fornito armi sofisticate all’Egitto, e questo rende ancora più rischiosa l’eventuale caduta del regime. Ecco perché bisognerebbe rivedere gli aiuti che da Washington arrivano copiosi al Cairo. Non credo che si possa parlare di un collasso immediato, ma certo questo 2011 sarà un anno decisivo per Mubarak. I miliardi di dollari americani dovrebbero avere una destinazione precisa”. Anche perché c’è il problema del vuoto di potere che, in un paese in cui la variabile islamista è molto forte come l’Egitto, potrebbe avere conseguenze disastrose. “Non bisogna mai sottovalutare il potenziale degli islamisti al Cairo – ricorda Schanzer – Dalla nascita dei Fratelli musulmani alla fine degli anni Trenta, passando per l’ascesa di Sayyid Qutb negli anni Cinquanta e Sessanta e al pericolo di al Jihad e al Gamaa al Islamiya negli anni Novanta, la minaccia dell’islam radicale è da sempre molto concreta. Il regime ha fatto un buon lavoro nel debilitare la Fratellanza in questi anni, ma la popolarità del movimento, pure se è ufficialmente bandito, è innegabile”. Per ora, i Fratelli musulmani sono cauti, ma basta poco per strumentalizzare la protesta. Soprattutto se al potere c’è “un sarcofago che cammina”.

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