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Il Foglio Rassegna Stampa
27.10.2009 La Siria dietro gli attacchi in Iraq
Analisi di Carlo Panella, redazione del Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 27 ottobre 2009
Pagina: 1
Autore: Carlo Panella - La redazione del Foglio
Titolo: «Obama prende tempo e rischia di perdere il filo delle guerre - Maliki ha visto in foto i campi di addestramento nemici in Siria»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/10/2009, a pag. 1-3, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " L’asse Iran-Siria sincronizza le strategie in Iraq, Libano e Gaza " e l'articolo titolato " Maliki ha visto in foto i campi di addestramento nemici in Siria ". Ecco gli articoli:

Carlo Panella : " L’asse Iran-Siria sincronizza le strategie in Iraq, Libano e Gaza "

 Bashar al Assad, dittatore siriano

Roma. Il sanguinoso attentato di Baghdad con le sue 155 vittime ha chiuso una settimana in cui, uno dopo l’altro, molti capisaldi della nuova strategia mediorientale dell’Amministrazione Obama si sono rilevati fallaci. La dinamica dell’attentato e i raffinati materiali impiegati confermano le parole del presidente Jalal Talabani, che, come già nell’agosto scorso, indicano a chiare lettere nella Siria il “santuario” sicuro che ospita mandanti ed esecutori degli attacchi al cuore politico dell’Iraq, in vista di elezioni politiche decisive. Dal 20 agosto scorso, all’indomani di uno spaventoso attentato nella zona verde, l’Iraq ha rotto le relazioni diplomatiche con la Siria e – nonostante le mediazioni turche – non li ha ancora ripresi. La Siria, dunque, invece di essere il perno su cui fare ruotare la nuova dinamica di relazioni in medio oriente, invece di essere l’anello debole della politica delle alleanze degli oltranzisti iraniani, come sostenuto autorevolmente da Nancy Pelosi (che due anni fa uscì entusiasta da un incontro a Damasco con Bashar el Assad), Joe Biden e Robert Gates, è tuttora accusata formalmente dal governo dell’alleato iracheno di favorire il più spietato terrorismo. Le circostanziate accuse alla Siria non vengono soltanto dall’Iraq. Nei giorni scorsi, l’accordo pazientemente mediato da Hosni Mubarak tra l’Anp e Hamas, accettato dal governo a Gaza, è stato fatto saltare, definitivamente, proprio dalla direzione estera di Hamas, dal suo leader Khaled Meshaal che non a caso risiede a Damasco, perfettamente integrato nelle strategie mediorientali siriane. La decisione di Abu Mazen di convocare elezioni politiche e presidenziali “unilaterali”, senza accordo con Hamas, per il 24 gennaio è stata una risposta obbligata a un oltranzismo della “Internazionale sciita” che ha in Damasco un fedele presidio. Questo oltranzismo impone il suo gioco anche sulla scena libanese, là dove Saad Hariri, vincitore delle ultime elezioni, a quattro mesi dal voto non riesce a comporre un esecutivo di unità nazionale proprio perché il blocco filosiriano, minoritario, di Hezbollah e del generale Aoun pretende il diritto di veto sull’esecutivo, mentre ogni mese salta per aria nel sud del Libano un qualche deposito di Hezbollah e si scopre che ospitava raffinati sistemi d’armi importati attraverso la Siria. Le accuse del “blocco del 14 giugno” di Hariri e di Walid Jumblatt nei confronti delle ingerenze siriane sono armai una costante, ma l’Amministrazione Obama ignora il quadro interno libanese, e si limita a pronunciare – tramite l’inviato nella regione George Mitchell – valutazioni sconsolate sullo scenario regionale. Il quadro diventa completo, infine, se si guarda a Vienna e si è costretti a constatare che il “dialogo” diretto con Teheran, che dà frutti avvelenati in Iraq, Libano e Palestina, ha esiti fallimentari in cui l’unica cosa certa è che l’Iran di Mahmoud Ahmadinejad riesce ormai a imporre un’agenda di rinvii continui, che gli permette di attuare tutti i progetti nucleari e missilistici che vuole. Ma il vero pericolo è che gli elementi di questa catena di aree di crisi – in cui l’asse tra Siria e Iran continua a marciare in piena sintonia, verso esiti pericolosissimi, senza alcun passo verso la distensione – restino isolati, non vengano presi in esame da Washington nel loro insieme. L’iniziativa americana continua a procedere come se, dal discorso del Cairo del 4 giugno, Obama avesse riscosso eccellenti successi, invece che una serie di smentite. Il dato più preoccupante non è soltanto il fallimento della strategia del dialogo, che Obama doveva comunque tentare, per dimostrarsi fedele a se stesso e alla sua campagna elettorale, ma il fatto che non abbia un “piano B”, mentre l’asse Iran-Siria, come è sempre più evidente, rifiuta sprezzantemente la sua mano tesa.

" Maliki ha visto in foto i campi di addestramento nemici in Siria "

 Nouri al Maliki, premier iracheno

Roma. La Siria è l’indiziata numero uno della strage che domenica ha sconvolto Baghdad. Secondo i leader iracheni, il premier Nouri al Maliki e il presidente Jalal Talabani, la Siria ospita i campi di addestramento da cui partono i terroristi, cresciuti tra gli ex fedeli del partito Baath di Saddam Hussein e al Qaida in Mesopotamia. L’obiettivo dei jihadisti è sempre il solito – boicottare il processo di stabilizzazione e di democratizzazione dell’Iraq, con le elezioni del gennaio prossimo – ma la sfida tra Baghdad e Damasco è doppiamente pericolosa. Da un lato dimostra che uno degli elementi di successo della dottrina Petraeus – coinvolgere i paesi confinanti per controllare le frontiere – non è più in essere e dall’altro conferma che la strategia diplomatica americana è, in questa parte di mondo, molto carente. Lo scontro tra Iraq e Siria era già emerso dopo l’attentato del 19 agosto, quando furono attaccati il ministero degli Esteri e delle Finanze, un centinaio di morti. Stesso schema di quanto successo domenica: due camion bomba vicino ai centri del potere, salta prima uno e poi l’altro, uccidendo così i primi soccorritori, 155 vittime in tutto, di cui una trentina di bambini. Ad agosto le autorità di Baghdad avevano intimato alla Siria l’estradizione di due ex membri del Baath nascosti a Damasco, Mohammed Younis al Ahmed e Sattam Farhan. La Siria non ha risposto e anzi, grazie ai documenti falsi forniti dai servizi, i due ricercati sono scappati in Libano. Non è un caso che ieri Talabani abbia rilasciato un secco comunicato in cui intima “a paesi vicini e lontani di smetterla subito e per sempre di ospitare, finanziare e facilitare le forze che proclamano la loro ostilità all’Iraq”. I rapporti fra Damasco e Baghdad nel dopo Saddam non sono mai stati idilliaci. Nel 2007, all’apice della violenza, si infiltravano ogni mese dalla Siria in Iraq circa 120 volontari stranieri della guerra santa internazionale. Il 75 per cento finiva per immolarsi come attentatore suicida. Il generale David Petraeus era riuscito a spezzare il ciclo del terrore, controllando i confini con la Siria. Negli ultimi mesi l’esercito di Baghdad ha lanciato l’operazione “muro iracheno” per controllare migliaia di chilometri di frontiere, in gran parte desertiche, con i suoi vicini. Ma le infiltrazioni continuano, anche se a ritmo più lento. Un mese fa il governo iracheno ha ottenuto alcune immagini satellitari dalla Turchia, ma scattate dagli americani, di campi di addestramento degli ex baathisti in Siria. Il 30 agosto Baghdad ha mandato in onda la confessione di Mohammed Hassan al Shemari, il capo di al Qaida nella provincia di Diyala, al confine con l’Iran, un’altra frontiera a rischio continuo. Di origine saudita, al Shemari ha ammesso di essere entrato in Iraq dopo un periodo di indottrinamento in Siria. Il suo contatto era Abu al Qaqaa, un predicatore che girava in territorio siriano con una scorta armata: è stato ucciso nell’autunno del 2007 ad Aleppo. Il suo posto è stato preso da personaggi ancora più pericolosi, come Sheik Issa l’egiziano, uno degli ideologi di al Qaida, che ha radicalizzato i talebani nelle aree tribali fra Pakistan e Afghanistan. In giugno è comparso in Siria. Per una nuova spallata di terrore in Iraq può contare su un operativo di al Qaida, Abu Khalaf, che lo scorso maggio il Tesoro americano ha inserito nella lista nera dei terroristi globali. Secondo un comunicato delle Forze multinazionali in Iraq è lui ad aver organizzato “la principale via di rifornimento di terroristi suicidi, soldi e armi dalla Siria”. Khalaf recluta kamikaze nei paesi arabi nell’Africa del nord e li fa arrivare a Damasco con la compiacenza dei servizi siriani. All’attivismo militare della Siria corrisponde una lentezza diplomatica rischiosa da parte degli Stati Uniti. Lo scorso marzo, il dipartimento di stato ha inviato due alti funzionari in Siria per migliorare i rapporti. L’inviato per il medio oriente, George Mitchell, durante una recente visita a Damasco ha sostenuto che la Siria “ha un ruolo integrale” per pacificare la regione. Il 23 giugno Washington ha annunciato che nominerà un nuovo ambasciatore, ma sono passati quattro mesi e non è ancora arrivato.

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