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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio Rassegna Stampa
15.10.2009 Al Qaeda in Europa
Analisi di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 15 ottobre 2009
Pagina: 5
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Il nostro prossimo 11 settembre con i blue jeans»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 15/10/2009, a pag. II, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Il nostro prossimo 11 settembre con i blue jeans ".

Una cellula terroristica tedesca è stata appena smantellata mentre preparava un grande attentato ad Amburgo. I dieci fondamentalisti islamici arrestati, reduci dai campi nell’Hindu Kush, da dove Osama bin Laden ha guidato il jihad contro “il più grande paese ateo della terra”, frequentavano la stessa moschea Taiba da cui era passato l’egiziano Mohammed Atta, il capo degli attentatori dell’11 settembre. La moschea sorge in un quartiere degradato a est della stazione ferroviaria. Situato in via Steindamm, l’edificio è incuneato tra una palestra di body building e un caffè turco. La strada è piuttosto nota per i suoi sexy shop e per lo smercio di droga. E’ uno dei simboli dell’Europa multiculturale. Dalla Germania arriva soltanto l’ultima notizia in serie sul nostro continente come fabbrica di jihadisti. Dopo l’11 settembre si sono registrati 14mila attacchi terroristici in tutto il mondo e l’arma dell’attentato suicida ha registrato un incremento spaventoso. Da evento, l’attentato kamikaze è diventato routine. Ma dopo le bombe di Londra del 7 luglio 2005, l’Europa sembra essere rimasta al riparo dalla recrudescenza jihadista che molti analisti si aspettavano. Lo spettro della morte a grappoli di “infedeli” nelle metropolitane e nelle stazioni dei treni sembra un ricordo lontano. Gli attentati di New York, Madrid e Londra ci avevano preannunciato la convivenza con il terrorismo islamico. Da tempo però gli attentati non fanno più notizia e un kamikaze in Iraq e in Afghanistan deve uccidere almeno cinquanta civili perché i quotidiani europei ne diano notizia, relegando il tutto in un trafiletto. I “kamikaze made in Europe” sembrano aver lasciato il passo a un progetto totalitario di islamizzazione lenta, graduale e non violenta. A Londra, quest’anno, si è avuto ad esempio il più alto picco di attacchi antisemiti di matrice islamica negli ultimi trent’anni. A Parigi tre anni fa un ebreo è stato torturato per tre settimane e poi bruciato vivo. Gli esperti di antiterrorismo europeo non minimizzano la minaccia islamista. Il celebre domino dell’intelligence britannica, Jonathan Evans, non lascia intravedere nulla di buono, tanto per il suo paese quanto per l’Europa. Il pericolo targato al Qaida, secondo l’MI5, è “il più immediato e acuto che l’intelligence si sia trovata ad affrontare (in tempo di pace) nei suoi 98 anni di storia”. Come Evans la pensa Nigel Inkster, il direttore del centro di analisi su “Rischi e Minacce Transnazionali” presso l’International Institute for Strategic Studies: “Il 2005 è stato l’ultimo successo di al Qaida in Inghilterra e in Europa”, ci spiega Inkster, già vice direttore dei servizi segreti esterni britannici. “Questo non significa che non stiano tentando di colpire o che non ci siano gruppi terroristici attivi nel nostro continente. Non è difficile per al Qaida orchestrare operazioni contro obiettivi occidentali. Per ogni terrorista il semplice fatto di sopravvivere rappresenta una vittoria. L’attrazione poi per il jihadismo resta”. Alla pianificazione omicida dei gruppi jihadisti è subentrato un terrorismo anarchico e freelance, solitario e maldestro, seppur molto pericoloso. Una settimana fa un fisico di un laboratorio per la ricerca nucleare del Cern a Ginevra è stato arrestato perché sospettato di terrorismo e contatti con al Qaida. Tre giorni fa a Milano un libico è arrivato davanti alla porta carraia di una caserma dell’esercito con un ordigno rudimentale di bassa potenza, nascosto in una cassetta degli attrezzi. Quella di al Qaida è un’organizzazione piramidale solo nella sua componente verticistica, mentre il corpo è costituito da un insieme multiforme di cellule, gruppi e sottogruppi affiliati le cui diramazioni si perdono in un vasto ventaglio di paesi. In alcuni casi, come l’Hofstad Group olandese, le cellule sono state distrutte negli ultimi due anni. “Il jihad europeo non è esploso”, ci spiega l’analista italoamericano della Harvard University Lorenzo Vidino, autore del celebre saggio “Al Qaida in Europe” e che sta per pubblicare un grande studio sui Fratelli Musulmani in occidente. “C’è stata una parabola che ha raggiunto il suo massimo nel 2004 e nel 2005. Vi era una grande paura che ci fosse una progressione, ma non è successo dopo l’apice di Londra. Polizia, servizi segreti e intelligence sono stati bravissimi nel recuperare terreno. C’è stato un miglioramento delle leggi e della conoscenza del fenomeno islam, assieme a una mancanza di controllo centralizzato da parte di al Qaida, con le sue sedi in Pakistan e in Afghanistan. Ma ricordiamoci sempre che se dobbiamo gettare le bottigliette di acqua nei cestini degli aeroporti è perché nel 2006 in Inghilterra ci fu una cellula guidata dai capi di al Qaida pronta a farsi saltare in aria. Poi c’è stata Barcellona nel 2008, con un gruppo sempre diretto dal Pakistan e che avrebbe dovuto farsi esplodere colpendo anche Parigi e Londra”. In tutti i casi sventati vi sono state intercettazioni americane. “Oggi c’è una maggior cooperazione fra i paesi. Il jihadismo in Europa sembra un fenomeno più o meno controllabile, anche se ogni tanto un folle, come a Milano, tenta di farla grossa. Nulla è pienamente gestibile in questo campo. Quelli dell’11 settembre all’inizio volevano andare in Cecenia a combattere i russi. La Somalia per gli europei oggi è un fronte decisivo, più dell’Afghanistan e del Pakistan o dell’Iraq, la cellula Shahab in Somalia è diretta da un musulmano nato in Alabama”. Venti americani di origine somala hanno lasciato le proprie case nella freddissima Minneapolis per andare a combattere nel deserto somalo. Esiste tutta una corrente salafita in Europa che sembra aver abbandonato per il momento il ricorso alla violenza. “Stanno lavorando all’islamizzazione delle comunità”, dice Vidino. “In Olanda dopo l’omicidio di Theo van Gogh tanti network che prima andavano all’estero oggi sono ‘in sonno’. Ci sono numerose correnti che agiscono a seconda della convenienza, dell’opportunità e dell’ideologia. In Inghilterra si parla di due-tremila persone pronte a morire in nome del jihad. Oggi la Germania, con la comunità turca sempre più radicale, è in grande ascesa. Due anni fa è stato sventato un attentato contro una base americana, da tedeschi convertiti e da turchi”. Il Telegraph ha appena rivelato l’esistenza di un “villaggio tedesco” nel Waziristan controllato dai Talebani. Una colonia di musulmani e convertiti all’islam tutti di nazionalità tedesca. In un video di propaganda il presentatore mostra in tedesco un bel villaggio pulito e ordinato, con scuole, ospedale, farmacie, case ridenti, e invita i tedeschi ad arruolarsi e addestrarsi a “una morte gloriosa”. Secondo Khalid Khawaja, un ex agente segreto pachistano, fra i terroristi di al Qaida alleati con i talebani i più fanatici sono proprio gli europei. Alcune cellule islamiste stanno cercando di costruire un “ambiente islamicamente puro” nel cuore dell’Europa. Come quella scoperta ad Artigat, un villaggio bucolico sui Pirenei francesi. Isolati dal resto del mondo, le famiglie vivevano come i guerrieri maomettani in Arabia Saudita. Il capo della comune islamica intanto inviava volontari a morire all’estero, soprattutto Baghdad e Kabul. Ogni anno 30mila pachistani con passaporto inglese fra i 18 e i 35 anni volano in Pakistan. Molti non fanno più ritorno. Lo scorso marzo i giornali inglesi e il Foglio avevano parlato di una “miniguerra civile surreale” in Afghanistan fra soldati britannici e cittadini inglesi di religione musulmana che hanno raggiunto le zone degli scontri per unirsi ai talebani. Secondo i servizi segreti, i volontari dalla Gran Bretagna sono circa quattromila. A maggio un ostaggio britannico, Edwin Dyer, è stato ucciso da un gruppo qaidista a Mali dopo che Londra si era rifiutata di rilasciare l’imam giordano Abu Qatada. Ma gli esperti parlano di gruppi inglesi non più affiliati ad al Qaida e tuttavia pronti a far scorrere il sangue Il “complotto dei medici” del 2007 a Londra non aveva contatti con la rete pachistana. Il dottor Bilal Abdullah, a capo del commando, è nato e cresciuto in Gran Bretagna ed era la figura chiave della cellula terroristica che oltre a sfondare un vetro dell’aeroporto di Glasgow con un veicolo fuoristrada carico di esplosivo il 30 giugno 2007 tentò, fallendo, di far esplodere davanti a un’affollata discoteca di Londra due autobombe, parcheggiate a pochi metri di distanza l’una dall’altra per creare un effetto devastante. Un perfetto cittadino inglese con origini irachene, venuto al mondo in una delle famiglie più liberali di Baghdad e che aveva fatto carriera in medicina a Londra. Il numero due di al Qaida in Iraq, Mohammed Moumou, noto con il nom de guerre di Abu Qaswarah, ucciso dagli americani, era anche noto come “al Skani”, in arabo “lo svedese”. Era proprietario di una azienda di import-export, sposato a una svedese doc convertita all’islam e leader del centro musulmano di Brandbergen, il più grande di Stoccolma. I complotti più micidiali dopo Londra 2005 sono stati orditi quasi sempre da europei convertiti all’islam (un fenomeno in grande crescita nonostante il sonno delle bombe in Europa). Come Abu Izzadeen, figlio di cristiani di origine giamaicana che un anno fa aveva tentato di organizzare un gruppo di Birmingham per rapire, torturare e filmare la decapitazione di un soldato inglese di fede islamica. Sconta l’ergastolo in Marocco il convertito Pierre Richard Robert, “l’emiro dagli occhi blu” che nel 2003 ha organizzato gli attentati di Casablanca che uccisero 45 persone. “I governi occidentali hanno fatto un lavoro eccellente nel controterrorismo”, ci dice Daniel Pipes, islamologo di fama e già consulente della Casa Bianca durante i mandati di George W. Bush. “Ma anche nella distruzione delle cellule, nell’intercettare i fondi o nell’espellere i sospetti. Stanno dando grande attenzione al problema in modo molto più serio di dieci anni fa”. Secondo Pipes al controterrorismo pragmatico non è seguita una vera politica di lotta al jihadismo. “Sfortunatamente il controterrorismo ha reso i governi ciechi alla parallela ma più sottile minaccia degli islamisti che usano i media, l’educazione, la politica e il diritto. Sono questi mezzi alternativi alla violenza per raggiungere gli stessi fini. Stiamo avendo successo da un lato e un grande fallimento dall’altro”. Secondo Pipes, l’obiettivo più ambizioso dell’islamismo si chiama Eurabia. “Tre scuole di pensiero fanno a gara per predire il futuro dell’Europa: quella di ‘Eurabia’, della ‘espulsione’ e della ‘simbiosi’. Le prime due dibattono a oltranza plausibili argomenti inerenti a un’antica civiltà scomparsa o che ancora si difende, ma queste pessimistiche aspettative restano dei punti di vista di minoranza. Nei circoli elitari europei un ampio consenso ritiene che simbiosi, assimilazione, buoni sentimenti, compromesso e cavarsela in qualche modo prevarranno”. Sempre secondo Pipes, i convertiti europei sono oggi una minaccia gravissima. “Ciò è stato clamorosamente chiarito quando Muriel Degauque, 38 anni, una cittadina belga convertitasi all’islam, si è fatta esplodere nei pressi di Baghdad in un attacco suicida perpetrato contro le truppe americane, diventando la prima donna occidentale, un tempo cristiana, a uccidere se stessa per conseguire dei fini islamisti. E metà delle quattordici persone arrestate per legami con la Degauque erano convertite all’islam. Nella vicina Olanda, un rapporto governativo fresco di stampa espone in modo specifico delle preoccupazioni riguardo ai convertiti radicalizzati. Le organizzazioni terroristiche islamiste apprezzano in particolar modo i convertiti. Costoro conoscono la cultura autoctona e ne fanno parte integrante. Essi non possono essere espulsi. Possono mascherare la loro affiliazione, evitando di frequentare le moschee, standosene rintanati, bevendo perfino bevande alcoliche e assumendo delle droghe per mantenere la loro copertura. Una guida raccomanda ai sedicenti attentatori suicidi che si recano in Iraq di ‘indossare blue jeans, mangiare ciambelle fritte e portarsi sempre dietro il walkman’”. La sonnolenza di al Qaida in Europa è legata al suo indebolimento internazionale. Secondo uno studio di Global Brief, al Qaida nel 2001 contava dai tre a cinquemila membri, una struttura finanziaria e un intero paese come base operativa, l’Afghanistan. Oggi, nel 2009, l’International Centre for Political Violence and Terrorism Research stima un organico non superiore a trecento unità. Al Qaida nacque a Peshawar fra l’11 e il 20 agosto 1988, quando si svolse il grande incontro fra i capi del jihad organizzato dallo sceicco palestinese Abdallah Azzam e da Osama bin Laden. Lì apparve per la prima volta il nome “Al Qaida al Askariyya”, la base militare. Se il primo decennale di al Qaida fu segnato da un successo sensazionale, con le stragi in Kenya e Tanzania e la prospettiva di conquista di territori da cui lanciare attacchi all’America, il secondo anniversario è noto come quello della crisi. Di uomini, di idee, di terra, di anime. “Osama bin Laden è stato ampiamente sconfitto e tre quarti della prima generazione di leader di al Qaida è stata catturata o uccisa”, ci spiega l’esperto di terrorismo John L. Scherer. Fra i personaggi di spicco della cupola arrestati ci sono Khalid Sheikh Mohammed, Ramzi bin alShibh e Abu Zubaydah. Il comandante militare Mohammed Atef è stato ucciso in Afghanistan. Stessa sorte per Baitullah Mehsud, leader dei Talebani in Pakistan. Nel 2009 le Corti saudite hanno condannato 323 terroristi, fra cui 41 stranieri. Novecentonovantuno persone sono state incriminate per terrorismo in cinque anni. “Nessun attentato ha scosso il regno saudita dal febbraio 2006 e al Qaida non è mai riuscita a deporre la famiglia Saud, come si prefiggeva dalla nascita”, prosegue Scherer. Si calcola che in dieci anni, 40 mila persone siano morte per mano di al Qaida. E’ il loro bottino. L’Economist ha parlato di “gene autodistruttivo” di al Qaida, così come Peter Bergen, autore di volumi sull’argomento, dice che “l’autodistruzione è nel Dna di al Qaida”. Fawaz A. Gerges, autore di “The Far Enemy: Why Jihad Went Global”, parla di “grave crisi d’autorevolezza e di legittimazione” per l’organizzazione. E la causa principale del crollo di consensi sarebbe la violenza perpetrata a danno di altri musulmani. Pochi giorni fa su Usa Today è apparsa una lunga analisi dal titolo: “Al Qaida è stata sconfitta?”. Sembra aver ragione John Horgan, direttore dell’International Centre for the study of terrorism, quando dice che al Qaida ha cessato di essere organizzazione per diventare simbolo al quale affiliarsi. Lawrence Wright, autore del celebre saggio sull’11 settembre, ha riferito al Congresso sul futuro del movimento. “E’ capace di adattarsi, è flessibile, in evoluzione. Ma al Qaida non ha conquistato nulla di concreto per i suoi aderenti”. In vent’anni Bin Laden ha costruito una formidabile macchina terroristica che resta capace di uccidere e lanciare attacchi letali in tutto il mondo. “Ma allo stesso tempo ha scoperto che i suoi piani di conquista del potere e di uno stato islamico sono stati sconfitti”. Vent’anni fa alla nascita di al Qaida c’era Sayyid Imam al Sharif, alias Dr. Fadl. Oggi ne è uno dei principali accusatori. Mentre i kamikaze andavano altrove a recitare la loro verità eroica (“amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita”), l’Europa distoglieva lo sguardo dalla sterminata lista nera di giornalisti e scrittori minacciati di morte e dal boom di delitti d’onore e di corti islamiche nei nostri ghetti multiculturali come quello turco dove sorge la moschea di Mohammed Atta. Bombe ideologiche che trasformano il paesaggio europeo in modo persino più radicale dei cento chilogrammi di nitrato d’ammonio rinvenuti a Milano.

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