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Il Foglio Rassegna Stampa
16.05.2009 Perché il Corano ha fondato una teologia opposta a quella della Bibbia
L'anticipazione del libro 'Non è lo stesso Dio, non è lo stesso uomo ' di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 16 maggio 2009
Pagina: 9
Autore: Carlo Panella - Nicoletta Tiliacos
Titolo: «Il Corano immobile - Non facciamoci incantare dalle Mille e una notte e nemmeno da Tariq Ramadan»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 16/05/2009, a pag. IX, l'anticipazione del libro "Non è lo stesso Dio, non è lo stesso uomo " (Cantagalli, 200 pagine, 13.80€ ) di Carlo Panella seguito dalla recensione di Nicoletta Tiliacos. Ecco gli articoli:

Carlo Panella : " Il Corano immobile "

Fronte a fronte, Bibbia e Corano parlano, spiegano, fanno capire che i “popoli del Libro” non hanno affatto lo stesso libro, come tanti cristiani ripetono senza averlo letto. Non solo Allah non si traduce con Dio, ma pure l’Adamo della Bibbia non è neanche lontano parente dell’Adamo del Corano: due uomini che non hanno nulla in comune. Non è necessario essere teologi per comprenderlo leggendo i due libri fronte a fronte, anzi, è meglio non essere teologi. I teologi, infatti, hanno l’ottima abitudine di guardare a Dio, ma spesso, alzando troppo lo sguardo, si dimenticano dell’uomo, scordano che ad una concezione diversa dell’uomo corrisponde una diversa concezione di Dio. E questo è, appunto, il caso di Islam, ebraismo e cristianesimo. Se si leggono il Corano e la Bibbia parola per parola, con occhi semplici, di verità, se li si accosta là dove parlano di Dio e dell’uomo, balza agli occhi una differenza radicale, assoluta: innanzitutto, l’uomo di cui ci parla Maometto non è creato a immagine e somiglianza di Dio – come si sa, o si dovrebbe sapere – è quindi tutt’altro rispetto a quello di cui ci parla la Bibbia. Questa prima, radicale differenza, questa negazione di un Adamo a “immagine e somiglianza di Dio” sviluppa infatti in tutta la grande costruzione teologica musulmana, così come nell’intera civilizzazione islamica, una divaricazione totale con la tradizione greco- romana, con l’ebraismo e con il cristianesimo, perfettamente esposta dal teologo post-conciliare Josef van Ess: “La teologia islamica non conosce il concetto di persona”. L’uomo islamico non ha infatti la totalità di dimensioni del giudaismo e del cristianesimo che gli deriva dalla sua filiazione divina e non è persona proprio perché – per questo – non può stringere alcun Patto con Dio, può solo sottomettersi, non ha libera scelta. In questa fondamentale differenza sta tutto il senso di lontananza e di diversità non solo delle tre religioni monoteistiche, ma anche di tre civiltà e civilizzazioni. La piena assunzione nella cultura cristiana della concezione della persona anche dal punto di vista giuridico, l’incorporazione dei principi del diritto romano nella civiltà cristiana, la netta distinzione dei diritti dello stato e di quelli del cittadino e la loro definizione e regolazione segnano infatti tutta la civiltà occidentale e tutte le evoluzioni del diritto, anche nei sistemi a Common Law. Nulla di tutto questo accade nel fiqh, nel diritto islamico e quindi nella sharia, là dove ogni cosa parte e ritorna al testo, al Libro, al Profeta e ai suoi detti e alle sue imprese contraddistinti dall’infallibilità; dove la persona, l’individuo, non esiste se non nella funzione di fedele, tanto che deve essere cancellata, uccisa, condannata a morte nel momento in cui esce dalla fede, commette apostasia o si converte ad altra fede con pubblico scandalo. La superiorità degli interessi della pòlis, che teme le conseguenze del suo “tradimento”, è dovuta proprio al suo non essere “immagine e somiglianza di Dio”, persona dalla vita sacra, ma dall’essere invece “individuo”, numero, parte di un tutto: la umma, che lo sovrasta e lo può eliminare. Non esiste la persona, nella teologia – e quindi nel diritto islamico che le è intrinsecamente legato –, perché in tutte le scuole oggi esistenti (salvo poche, marginali eccezioni averroiste e in quel poco che resta della più alta tradizione sciita) si è affermato il dogma post maomettano del “Corano Increato”. Da strumento di Rivelazione, da testo da interpretare e su cui scarnificare la propria coscienza e il proprio intelletto, il Corano, dal IX secolo in poi, è diventato “Increato”. Il Verbo, dunque il “Libro”, è eterno, non riguarda l’uomo, la persona, prescinde totalmente addirittura dalla storia dell’umanità che precede e che seguirà, dopo il Giudizio. L’uomo non è a “immagine e somiglianza” di Dio, ma il Libro sì. Da qui la sua distruttiva autorità sulla società umana, perché si può interpretare non il Corano, il quale è “Parola di Dio” che va obbedita, ma la sharia, solo la sharia, ossia la Norma che ne discende. Questo Dio, il Dio inintelleggibile, nei cui confronti non si deve mai usare la ragione, cuore del momento più alto della filosofia arabo-islamica con al Ghazali, questo Dio del Corano Increato, trova d’altronde una sua possibile piena corrispondenza nel testo maomettano, là dove, dal primo all’ultimo versetto, mai Allah parla all’uomo, se non per dirgli: obbediscimi. Non c’è Alleanza, infatti, nel Corano, come ricorda François Jourdan: “Nell’Islam la Rivelazione non concerne Dio, che resta “impenetrabile” (sura CXII, versetto 2), quanto è rivelato sono i suoi ‘decreti’ per ‘discesa discontinua dello stesso messaggio divino senza progressione né modifica del contenuto: quanto sarebbe rimasto orale con Adamo, è sostanzialmente identico a quanto vi è nel Corano di Maometto. Per questo il Corano indica sovente il termine Richiamo (sura II, versetto 58). […] Non vi è nell’Islam un disegno, una progressione, un progetto che si concluda con un futuro della storia umana prima della fine del tempo. Tutto è già stato consegnato al primo uomo, Adamo, e tutti gli uomini nascono, come Adamo, nello stato di Islam “naturale”, fitrat. […] Un adith molto conosciuto di al Bukari riporta questa frase attribuita a Maometto: ‘Ogni bambino, alla sua nascita, nasce secondo il piano di Dio fitrat. Sono i genitori che ne fanno un ebreo o un cristiano’. […] Non vi è Alleanza, né popolo eletto nell’Islam. La storia non apporta nulla, non conta nulla. Per l’Islam, la trascendenza ombrosa di Dio tutore, comporta il fatto che la rivelazione è concepita come esterna all’uomo. Dio è assolutamente separato dall’uomo, non solamente distinto, ma distante sul terreno relazionale, anche se conosce tutto, nell’intimo degli esseri”. L’uomo islamico, così come esce dai versetti del Corano, è senza mito e mitologia. Circondato da creature fantastiche – i jinn, misteriche presenze del deserto, né uomini, né angeli – è un uomo senza storia. Nell’eterno presente delle sure, l’uomo coranico è totalmente avulso dal profondo senso del legame intimo, finalistico, che lega l’uno all’altro gli infiniti avvenimenti in divenire, quel percorso dentro il concreto della storia che è la straordinaria novità del racconto biblico, della ricostruzione, passo a passo, genealogia per genealogia, dell’intera vicenda dell’umanità. Storia, anche e innanzitutto, delle diverse alleanze tra uomo e Dio. Lo straordinario sentimento concreto, lo scopo divino incarnato nei fatti umani, il senso profondo dell’evoluzione delle umane vicissitudini, costituiscono la spina dorsale, l’ossatura di tutto il racconto biblico. Non più il Fato capriccioso dell’ellenismo e la memoria temporis actis, l’età dell’oro della sensibilità romana, il cammino ora casuale, ora addirittura a ritroso delle fortune umane dentro la storia. Tutto questo, semplicemente non esiste nel Corano. Nell’uomo definito dal Corano esiste, eccome, la coscienza, quindi la responsabilità individuale nella scelta tra rettitudine, cioè sottomissione alla legge di Allah, e peccato, ma non esiste per nulla l’anima, intesa nel senso greco di psyché, di complessità di attività spirituale e intellettuale, di tormento interiore, di riferimento archetipo a una conoscenza innata nell’uomo, se non quella rigidamente limitata all’Islam, sua “religione naturale”. Il termine arabo usato nel Corano per definire quel che la tradizione ellenistica, ebraica e cristiana chiama anima, è nafs, “con esso si intende molte volte ‘impulso’ e talvolta ‘spirito’”. Solo secoli dopo la composizione del Corano, sotto il pesantissimo, determinante influsso della filosofia greca – e con la forte mediazione dei sapienti ebrei, soprattutto in Andalusia – la grande filosofia islamica si appropriò della dimensione speculativa sull’anima, ma sempre intesa come nous, come intelligenza del creato, sede della conoscenza spirituale, che informa quindi tutta la gnoseologia islamica dal IX al XII secolo. Ma fu una parentesi, come vedremo, che si chiuse (…) con la sconfitta radicale dell’averroismo e con l’imporsi della scuola puramente giuridica. (…) Mancò ab initio e mancherà sempre alla cultura islamica, anche dopo l’ampia contaminazione con l’ellenismo, in specie con l’aristotelismo, la concezione stessa della psyché. L’assenza totale del mito antropologico nel Corano, l’estraneità totale della componente mitologica dell’anima, resero impermeabile anche parte della grande letteratura araba del Medioevo al “lavoro” su quello che nella modernità intendiamo come “inconscio”. Nessun mistero della “grotta” intriga la creatività, così come la scienza della conoscenza musulmana. Come vedremo, nulla fu l’influenza dei Dialoghi platonici sulla cultura araba, soprattutto di quelle parti del Dialogo con Trasimaco che scavano nel mistero dei “piaceri e appetiti superflui”, si interrogano sullo “sfrenarsi” nel dormiveglia di un elemento “ferino e selvaggio della psiche”, che si impasta di incesto, pulsione di morte, sfrenatezza di piaceri. Di Platone si prese solo quel che di Platone non è, ma che è dei neoplatonici, l’ascesi, la gnosi, il cammino sufi, non la curiosità stupita per l’eros, non Fedone, non il Convivio. Nel discorso coranico, dunque, la storia e il suo formarsi sono totalmente assenti. Gli episodi biblici, che riaffiorano copiosi nei versetti coranici, sono tutti rinchiusi in se stessi, in genere tutti modificati, stravolti nel senso profondo, tanto che alcuni autorevoli studiosi sostengono che Maometto introdusse nel contesto apocalittico della lotta contro Gog e Magog addirittura Alessandro Magno, che sarebbe appunto “il bicorne” Dhul’Qarnein. Quasi sempre i riferimenti alla Bibbia vengono proposti da Maometto per fornire una nuova prova provata della non comprensione e del tradimento della volontà di Dio da parte degli ebrei. Volontà di Dio finalmente afferrata e disvelata nella sua totalità solo e unicamente dalla versione coranica. Nella sostanza, l’uomo delineato da Maometto sin dalla prima totale sottomissione di Adamo ad Allah è un uomo semplice, dai gesti quasi meccanici. Un uomo che non vive il travaglio del conflitto tra bene e male, tra giusto e ingiusto, non sfiorato dalla straordinaria avventura del mito, del simbolo (…). Tutto questo, nel Corano, semplicemente non c’è. Come non c’è la storia del popolo ebraico, così non c’è neanche la storia del popolo arabo, assente alla memoria di Maometto, tutto teso solo ad impadronirsi di una continuità con quell’Abramo che nega essere stato “né ebreo, né cristiano”, ma un hanif, il primo musulmano, addirittura ricostruttore di quella Kaaba che aveva fondato Adamo e che il diluvio aveva nascosto, e persino iniziatore della liturgia del pellegrinaggio. L’uomo che viene descritto da Maometto è un essere senza storia fattuale, senza racconto delle gesta degli avi, senza miti, senza mitologia e quindi senza psicologia, si potrebbe dire con un termine moderno. La sua fede non è attraversata dal dubbio, dal conflitto interno, dalla dinamica del peccato, dalla tentazione, dal suo lato oscuro e terribile. E’ un uomo “fedele”, sottomesso a Dio. Sin dall’inizio, sin dal suo Libro, l’uomo musulmano non viaggia in continuazione tra le sponde diverse, affascinanti e misteriose che uniscono con un filo impercettibile il navigare tra mythos e logos. L’uomo musulmano – l’uomo, non il Dio – non ha nulla a che fare con la tradizione ellenistico-cristiana, ma neanche con quella manichea o zoroastriana, tantomeno con la mitologia induista dei Mubharhata. E’ un lontano parente d’Asia, vissuto in città isolate da immensi deserti e dalle steppe, che ripete gesta di eroi biblici dei quali non afferra mai il tormento, le contraddizioni, i dubbi, gli errori. Un uomo che non conosce la grandezza e la bassezza della condizione umana. E’, lo ripetiamo, solo e unicamente un fedele.

Nicoletta Tiliacos : " Non facciamoci incantare dalle Mille e una notte e nemmeno da Tariq Ramadan "

Roma. “E’ più facile che un personaggio delle Notti muoia come martire dell’amore piuttosto che in nome di un attentato suicida commesso in nome di una qualche ideologia”. Lo scrive Robert Irwin, a lungo docente di Storia araba e del medio oriente a Oxford e a Cambridge, nella sua “Favolosa storia delle Mille e una notte” (pubblicata in Italia da Donzelli), per sostenere che “quella varietà di islam ideologico che richiede al credente una fedeltà cieca è un fenomeno tipicamente moderno, che deve molto, tra l’altro, alle ideologie occidentali come il cattolicesimo ultramontano, l’evangelicismo, il marxismo e il fascismo”. Carlo Panella, giornalista e saggista esperto di medio oriente, pensa invece che già le favole nella favola di Shahrazad – che le racconta instancabile al re Shahriyar per salvarsi la vita – recano l’impronta della radicale diversità tra l’uomo della Bibbia, il figlio della tradizione ellenistico-giudaico-cristiana, e quello del Corano. Nel suo ultimo libro (“Non è lo stesso Dio, non è lo stesso uomo”, edito da Cantagalli, di cui pubblichiamo alcuni brani in questa pagina) per spiegare la natura di quella diversità, Panella usa anche le Mille e una notte: “Proviamo a paragonarle – dice al Foglio – a un’opera coeva, come il Decameron. Tutto quanto c’è in Boccaccio di mitologico, di rapporto tra eros e thanatos, nelle Mille e una notte si immiserisce in una gabbia in cui è permanente l’ossessione del possesso della donna, fino all’uccisione, in una concezione dell’eros priva di qualsiasi afflato mitico. E anche Irwin, come tanti altri, commette l’errore di pensare che tutto quello che di male avviene nell’islam sia il portato dell’occupazione coloniale. E’ vero il contrario: l’unico islam oggi capace di vivere un’esperienza democratica è quello delle élite musulmane rimaste in India”. Il senso di colpa legato al colonialismo ha contribuito a penalizzare la lettura critica dei testi e a creare la vulgata dei “Popoli del libro”: “Una finzione, se non altro perché nel Corano si accusano con veemenza ebrei e cristiani di aver falsificato la Bibbia e di aver alterato il messaggio dei profeti. Adamo, Abramo, lo stesso Gesù, sono collocati dal Corano in episodi simili a quelli biblici ma del tutto modificati”, spiega Panella, che nel suo saggio mette continuamente a confronto i brani dei due libri sacri. E indica l’inizio della fine della grande civiltà islamica medievale, di una età dell’oro che vide nel grande filosofo Al Ghazali il suo esponente più importante, “nell’affermazione, tra Undicesimo e Dodicesimo secolo, del dogma del Corano increato, con cui si pretende che le parole del Corano siano la rappresentazione di Dio per gli uomini. Ad aver imposto questo dogma somo stati gli stessi autori della sharia più restrittiva, retroterra culturale del fondamentalismo odierno”. Panella spiega perché la componente fondamentalista stia diventando sempre più maggioritaria nell’islam, al contrario di quanto avviene per i movimenti fondamentalisti cristiani, ebrei, induisti e sikh, contrastati da “un forte, egemonico e assolutamente maggioritario contesto antifondamentalista che li tiene ai margini, li combatte”. L’integralismo musulmano oggi fiorente “era rimasto silente per molto tempo, tanto che per tutto l’Ottocento e per metà del Novecento studi poderosi di islamistica non lo prendevano nemmeno in considerazione. E’ riemerso con il doppio trionfo wahabita in Arabia saudita e sciita in Iran. E’, in sostanza, lo stesso integralismo che nel Tredicesimo secolo ha distrutto la grande civiltà islamica, diventata grande proprio perché ibridata con la grande tradizione ellenistica, ebraica e cristiana. La teorizzazione di una totale separazione tra fede e ragione si consoliderà e porterà all’azzeramento dell’apporto di Averroè. Da quel momento la norma, intesa come sharia e come divieto di interpretare il Corano, diventerà assoluta, non sarà più discutibile e interpretabile. Non accompagnerà più la storia dell’uomo islamico”. A dare forti radici al fondamentalismo, con la proibizione dell’interpretazione del testo, “arriverà il divieto di stampa dei libri, pena la morte. E’ così che finisce la civiltà islamica. Per quattro secoli non si sono potuti stampare libri nell’islam, perché il Corano non poteva essere banalizzato con una stampa meccanica”. Oggi, conclude Carlo Panella, un personaggio come Tariq Ramadan (“La riforma radicale” è il titolo del suo libro appena pubblicato da Rizzoli, nel quale propone la sua versione di islam “modernizzato”), “rappresenta ancora una volta la piena incarnazione del divieto assoluto a interpretare il testo coranico. L’abbaglio che su Ramadan prende l’occidente risiede proprio nel trucco, che lui ampiamente maestreggia, di limitarsi a interpretare la sharia, la norma, mai il testo. E sempre rivendicando non a strutture democratiche ma unicamente al consenso dei sapienti, alla casta degli ulema, il diritto all’interpretazione e alla modifica della norma”

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