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Il Foglio Rassegna Stampa
15.11.2008 Una riflessione sulla Shoà e Israele
di Alessandro Schwed

Testata: Il Foglio
Data: 15 novembre 2008
Pagina: 1
Autore: Alessandro Schwed
Titolo: «Il dubbio dei giusti sulla Shoà»

Sul FOGLIO di oggi, 15/11/2008, nella prima pagina dell'inserto del sabato, un lungo articolo di Alessandro Schwed, che per fortuna non è una recensione al libro di Avraham Burg, come temevamo dopo averlo visto citato nell'occhiello. Al contrario, è una lunga e intelligente riflessione sul tema della Shoà, forse un po' troppo intimista per reggere un giudizio storico, comunque estremamente interessante. Eccola:

Due libri. Guardano a che succede in Israele per aver fatto della Shoah il perno della realtà. Uno, fondato e al tempo stesso pericolosamente instabile, è il saggio “Sconfiggere Hitler” di Avraham Burg, da Neri Pozza, per la traduzione di Elena Loewenthal. L’altro è “Ebraismo virtuale”, di Ariel Toaff, da Rizzoli. Un libro di poche pagine di cui molte parlano di quello precedente. Che poi era il saggio di ebraismo pulp, “Pasque di sangue”. Secondo lo spunto autoreferenziale di Ariel Toaff, la società israeliana, ma anche quella ebraica mondiale, avrebbe respinto il suo lavoro antecedente nientemeno che a causa dell’offuscamento dell’ebraismo, il che in modo circolare consisterebbe nel non avere accolto il suo pensiero. “…Un ebraismo virtuale e oleografico, fatto di vittime invertebrate e di martiri innocenti, languido e molliccio”. Che dire. Se il professor Ariel Toaff va avanti così, i suoi libri rischiano di somigliare ai diari di un vampiro buongustaio. Tuttavia, quanto egli ci dice sulla Shoah, ovvero che è divenuta un mito edificante del mondo ebraico, ha il merito di affiancare un clima israeliano da cui sorge anche il libro di Avraham Burg, un protagonista di Israele che qui converrà definire. Burg è figlio del più volte ministro Josef Burg. Ha una carriera di deputato laburista; di presidente della Knesset; del Movimento sionista mondiale; di membro fondatore del movimento Shalom Achshav (Pace Subito). Il suo libro guarda in controluce l’assedio infinito di Auschwitz e il fallimento di una società che ha fatto della Shoah un monolito. Quasi, egli scrive, che il giudaismo sia diventato il culto dei morti, e lo stato ebraico il loro portavoce. Secondo il sondaggio riportato, in una quotata facoltà di Tel Aviv per il 90 per cento degli interpellati la Shoah è l’evento più importante della storia del popolo ebraico: “Più della creazione del mondo, dell’esodo dall’Egitto, più della rivelazione della Torah, della distruzione del Tempio. Della Diaspora, del messianesimo, della creatività culturale, della nascita del sionismo, della fondazione dello stato d’Israele o della guerra dei Sei giorni”. E’ come se la Shoah avesse divorato la storia ebraica, e del mondo, e fosse rimasto il vuoto, il quale vuoto è la Shoah – questa la percezione della sciagura nello stato ebraico, tre generazioni dopo Auschwitz. La quale percezione conferma l’immane densità della morte di Primo Levi, profetica come la sua opera. E’ qui, contro questa massa nuvolosa, aerea e sfuggente, che pure sbatte il pensiero di Burg, e senza rendersene conto. La pretesa di razionalizzare con categorie del visibile, come la Storia e la Politica, la continuazione invisibile di Auschwitz. C’era stato un inizio splendente, in Israele, ma si dileguò. “Da bambino vedevo Martin Buber passeggiare per strada, e pensavo che ogni via avesse il suo Martin Buber. Agnon frequentava casa nostra (Shemuel Agnon, maggior scrittore israeliano, modello della nuova lingua ebraica, premio Nobel 1966 per la letteratura, nda), e io ero convinto che frequentasse tutti (…) Solo molto più tardi mi resi conto che tutto quello che avevo visto da bambino era l’ultimo strascico di un lustro in via di estinzione”. E’ all’inizio degli anni Sessanta, in coincidenza con lo storico processo di Eichmann, che in Israele la luce viene meno: e come non potrebbe. Ed è un fatto peculiare e sconvolgente della storia umana che proprio usando le categorie del nostro mondo visibile, un processo, i verbali, l’interrogatorio al criminale nazista, inizi il deterioramento interiore. Divenga opaca la forza motrice del sionismo. Si faccia strada una sempre più ampia implosione di malemalessere. Come dire che l’ebraismo si gira a guardare e diviene di sale come la moglie di Loth. Lo sguardo fisso sulla morte, uccide. E se non sarebbe stato possibile non girarsi mai, come si può solo pensare che Israele non avrebbe dovuto lasciarsi deformare, e in ogni caso come si fa a non dire con chiarezza che questa è, sarà, una lunga peste? Lo spirito non cessa di chinarsi sulle proprie tumefazioni; grida che sente male; piange che tutti ce l’hanno con lui – le quali cose sono sia psicogene che confermate dalla realtà storica. Oggi a Tel Aviv gli uomini non si inceneriscono, ma la volontà iraniana di incenerire Israele, esiste. Dice Burg che le influenze della Shoah, l’ossessione mentale del nemico che vuole annientare, hanno finito con l’allestire una rappresentazione visionaria e alla fine menzognera della realtà. E qui la Shoah si abbatte sul libro e lo deforma. Trasferisce su Israele l’analisi di Hannah Arendt sulla Germania nazista. “La menzogna è diventata parte integrante del carattere nazionale tedesco. Durante la guerra, la menzogna che risultò più efficace sull’insieme del popolo tedesco, è lo slogan della ‘battaglia del destino per il popolo tedesco’, lanciato da Hitler o Goebbels: in primo luogo suggeriva l’idea che questa guerra non fosse propriamente una guerra; poi, che si trattava del destino e non della Germania che l’aveva iniziata; in terzo luogo, che si trattava di una questione di vita o di morte per i tedeschi, perciò dovevano annientare i nemici, altrimenti sarebbero stati loro stessi annientati”. Ciò, per far intendere che il difensivismo israeliano, il dire costante che Israele è aggredita, il percorrere questa strada scivolosa, portano a una sorta di totalitarismo del pensiero ebraico. Invece la condotta di Israele non nasce da un progetto manipolatorio, ma da una condizione di allerta continuo. Da una società mai vissuta nella pace. E a volte, certo, da immani errori di prospettiva. Nel 1967, dopo la guerra dei Sei Giorni che pure egli stesso combatté, Yeshayahu Leibowitz, insigne filosofo del Novecento ebraico, e redattore tra l’altro dell’enciclopedia ebraica, disse che l’accoglienza di un milione e mezzo di arabi sotto tutela ebraica “… significa una messa a repentaglio dell’essenza umana ed ebraica dello stato. (…) Gli arabi saranno il popolo lavoratore, noi diventeremmo il popolo degli amministratori”. Vero, che errore, ma poi come fa quel verso, tutto è vanità, e a dire adesso che allora fu errore, è ancor più un dire vanità di vanità. Del resto, quando si parla di ebraismo è giocoforza veder qualcosa che scompagina il presente senza essereessere visto: invisibile. Un quid che non sappiamo. Testardamente chiamiamo storia questo qualcosa, ma dovremmo almeno chiamarlo destino. In ogni caso, la storia ebraica degli ultimi cento anni è una sintesi di quella che la precede. Un ripetersi dell’antico e invisibile scompaginare. In “Black book”, film di Paul Verhoeven del 2006, una giovane ebrea della resistenza olandese si infiltra tra i nazisti. Nella serpentina della storia, la vediamo avversata dall’intero fronte bellico: gli amici di famiglia la vendono ai tedeschi; le SS la braccano; i partigiani mal digeriscono la presenza di un’ebrea tra loro; per festeggiare la fine dell’occupazione nazista, un gruppo di olandesi le rovescia addosso un paiolo pieno di feci umane; gli Alleati la processano sulla base della testimonianza di un ex ufficiale delle SS. In coda al film, la ritroviamo ancor giovane, in un kibbuz dalle parti del lago di Nazareth. E’ lì che ha raccontato l’intera storia a un’amica olandese, in viaggio turistico in Israele. Le due donne si separano. L’amica la saluta dal finestrino di un bus turistico con il quale ritorna in Olanda, a quella vita che ora è normale. La protagonista si avvia tra gli alberi del kibbuz con i figli e il marito. Inquel momento suona l’allarme. Soldati corrono con i fucili, intorno al kibbuz si sentono colpi di cannone. Non ricordiamo se apparisse la scritta “Fine”, ma sarebbe stato un errore. In Israele non c’è stata una fine dell’assedio al popolo ebraico. I grovigli lasciati dalla Shoah galleggiano nell’inconscio, come pezzi di un immenso naufragio. Abba Eban chiamava i confini precedenti alla guerra dei Sei Giorni i “confini di Auschwitz”. Dopo un’operazione contro il comando militare di Arafat, Begin confidò a Reagan che ciò gli aveva dato la sensazione di avere attaccato Hitler nel suo bunker. A Begin rispose Amos Oz in un articolo sullo Yediot Aharonot: “Hitler è morto, signor presidente”. Oz scrisse: “Questa pulsione di resuscitare ed eliminare Hitler è il frutto di un’angoscia che sono i poeti a dover esprimere, ma negli uomini di stato ciò diventa un pericolo che potrebbe condurli su una via rischiosa”. Ma se questa è la penetrazione della Shoah nella prima generazione, il fatto che le sue conseguenze nella psiche – il difensivismo, la mistificazione delle parole di guerra e di pace, il culto della Shoah – siano crude colpe da assumere, lascia intravedere l’inconsciol’inconscio ebraico come una superficie martoriata, timbrata dai giudizi del mondo. Viene alla mente la scritta lungamente presente sui muri di Roma: Eb Rei. Accuse che sono sigilli. Pure, riempiono d’orgoglio, quando si pensi che la rivolta del ghetto di Varsavia ebbe tra i protagonisti un pugno di gangster. Fantastici, mirabolanti, gangster ebrei: dunque, doppiamente rei. Rei. Eb Rei. Basterebbe poco a capire che non li indusse a combattere la potenza del nazismo, ma la forza del riscatto ebraico. Proprio l’aspetto che d’un tratto Burg rivede nella sua valenza di insurrezione fino alla morte, se quell’eroismo luminoso ha potuto deformare l’idea di sionismo. “Ci si è dunque persuasi che ci fosse da una parte la Shoah, quella dei poveri ebrei dello Shtetl, e dall’altra la resistenza eroica di cui noi, maccabei dei tempi moderni, figli di Bar Kokhba e degli asmonei, saremmo la naturale prosecuzione”. Questione enorme. E’ vero che la consuetudine alle armi è a una distanza stellare dalla spiritualità del Talmud, e alla fine l’assenza di spirituale e il trionfo del pragmatismo hanno deformato lo spirito ebraico. Ci sono israeliani che non vogliono sentir dire niente che non abbia origine nella Tragedia, divenuta un nuovo Genesi, testo sacro per cui Israele nasce dal sangue di sei milioni di persone, e come si può negarlo? E quale acrobazie si devono compiere per interrompere il rituale certamente cupo, e infinito, della Shoah? “Sei contro la Shoah”, dicono. Se per fondare Israele sono stati necessari sei milioni di morti, grida appunto Burg, sarebbe stato preferibile che non ci fosse Israele. Qui, il nostro dissenso più netto. Se non ci fosse stata la Shoah, poi ci sarebbe stata la Shoah senza Israele. Forse l’esigenza di separare il sionismo dalla cultura delle armi, o Israele dalla cultura delle armi attribuita al sionismo, nasce dalla necessità di rompere l’isolamento morale; di spezzare il vero, solo apartheid permanente, quello di chi continua a non accogliere l’esistenza dello stato chiamato Israele. D’altra parte, il rischio di contrapporre all’integralismo della Shoah l’idea che la colpa di tale integralismo è da attribuire al fallimento sionista, comporta tentazioni. Potremmo apprendere che Hitler era un ebreo askenazita che voleva riportare in auge la tradizione medioevale dei sacrifici di sangue. Il libro spiega bene il silenzio che in Israele avvolse la Shoah fino agli anni Sessanta. “Da noi non si parlava di nulla, ma tutto era detto e capito, Mamma ci ha tirati su in un contesto ricco di ossimori. Il più rilevante dei quali era: nessuno è mai morto di paparole”. La scoperta dell’esistenza del virus avvenne nell’infanzia di Burg. Ma il silenzio non fu incrinato tutto insieme. Quando fui la prima volta in Israele, c’era già stato da qualche anno il processo a Eichmann. Israele si rigenerava, e nell’aria si poteva sentire delle volte la parola Gestapo mescolata alla folla delle parole ordinarie. Se ne parlava, del Fatto, ma il Fatto appariva concluso. Era troppo forte la realtà. Ferveva la costruzione dello stato, il flusso degli immigrati, il loro inserimento. I giornali alle edicole di Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa sventolavano in ebraico, e poi in inglese, rumeno, portoghese, tedesco, yiddish, e gli antichi negozi rinascevano. Il mondo degli orologiai – gli orologi sono una passione ebraica – i ciabattini e gli arrotini. Agli occhi di noi ebrei italiani era l’apparizione di un mondo sconosciuto. Nelle pasticcerie ungheresi le donne sorridevano: un’altra fetta di torta? come se fosse un regalo. Andavi per la città e c’era un’Israele affollata e povera, una ordinariamente moderna delle case a schiera, una araba, ordinariamente allegra e separata, al porto, nella pioggia dei vicoli di Gerusalemme vecchia, dove comprare lo zafferano e la pitta con lo humus. Poi c’era il paese da difendere. Quell’esercito permanente assiepato sotto le tettoie di plastica, ad aspettare gli autobus scalcinati della cooperativa Hegged. I riservisti, la gente comune che tornava a casa, metteva il moschetto nell’armadio e andava a insegnare al liceo. Ovunque, l’inebriante novità di non essere più vittime designate, ma persone. Gente che poteva entrare in qualsiasi negozio senza essere mandata via. Ma è anche vero che in Israele era stato celebrato il processo ad Eichmann. Una meteora che invece di una coda di luce aveva una lunghissima coda di buio. Nelle mie estati israeliane, a casa nostra arrivava un invitato per la cena dello Shabbat, e spesso c’era silenzio. “Mentre il mondo occidentale andava verso il futuro, travolto da Elvis, dai Beatles, Woodstock e Twiggy, noi israeliani sprofondavamo nel passato più osceno e violento”, dice Burg. Il punto è che furono i nostri padri a ricevere i colpi, e sentiamo male noi – adesso. Quando loro erano vivi, sembrava tutto normale. Forse solo i demoni nazisti sapevano che la loro peste si sarebbe dilatata nel futuro, e la Shoah scorazza dentro le generazioni ebraiche con la libertà del vento in mezzo al bosco. A Haifa, al piano di sotto della casa dei miei genitori abitava un vecchio ebreo tedesco. Non usciva di casa. Se usciva, non parlava, non sorrideva. Non faceva. Tirava dritto come dovesse trapassare l’aria. D’estate le sue braccia erano nude, e portava il timbro del numero nazista come se fosse un normale orologio da polso. Sul pianerottolo, l’accesso al suo appartamento era costituito da due porte consecutive. La più interna, una normale porta, e l’esterna, un cancelletto come modellato su quello di Auschwitz. Mancava solo la scritta “Arbeit macht frei”. Quando il nostro vicino usciva, sentivamo sferragliare. Era come se evadesse. L’anno dopo tornai a trovare la mia famiglia. In Italia avevo raccontato ai miei amici di quell’incredibile cancello a Haifa, ormai il cancello era un personaggio. Salii le scale con la valigia. Il cancello era lì sul pianerottolo, che mi aspettava. Non era affatto uguale a quello di Auschwitz. Non sapevo spiegarmelo: era un normale cancello. Gli ebrei del XXI secolo sono i primi veri mutanti della storia. Sappiamo come tutto è stato. La Cosa è in noi. E quello che nella giovinezza era possibile mandar giù con una risata, ora è un corridoio così stretto. Le energie migliori le possiamo attingere dal sorriso grandioso dei figli. Proteggiamo quel sorriso. Lechaim.

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