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Il Foglio Rassegna Stampa
03.07.2008 Velayati e Ahmadinejad: stili diversi, ma la sostanza è la stessa
ed è tempo che l'Eni lasci Teheran

Testata: Il Foglio
Data: 03 luglio 2008
Pagina: 3
Autore: la redazione
Titolo: «Così la squadra di khamenei lavora al dopo Ahmadinejad - Risky business»
Dal FOGLIO del 3 luglio 2008:

Roma. Ali Akbar Velayati, consigliere per la politica estera della Guida della rivoluzione iraniana, Ali Khamenei, ha inviato ieri un lungo articolo al quotidiano francese Libération e all’italiano Repubblica. Col consueto e obliquo linguaggio del regime degli ayatollah, Velayati – ex ministro degli Esteri dal 1981 al 1997, un vecchio diplomatico che tiene tra le mani anche il delicato dossier dei negoziati con Mosca – gioca sulle parole e lancia un’affermazione apparentemente impegnativa: “Si potrà trovare un compromesso sulle preoccupazioni comuni all’Iran e agli altri stati”. Pare una mano tesa (così titola Libération) al pacchetto di incentivi offerto dal capo della diplomazia, Javier Solana, ma in realtà nelle sue parole non c’è nulla di nuovo, nulla che segnali una svolta rispetto alle dichiarazioni di Mahmoud Ahmadinejad sull’imminente distruzione di Israele e sulla determinazione iraniana a procedere con i progetti nucleari. Infatti non c’è nulla neppure sulla sospensione dell’arricchimento dell’uranio, condizione cardine dei negoziati. Si tende però sempre a interpretare come un’apertura ogni gesto del cosiddetto gruppo dei “realpolitiker”, pure se Velayati, dal 2006, è inseguito da un mandato di cattura internazionale del tribunale di Buenos Aires quale mandante della strage che sterminò 86 ebrei a Buenos Aires nel 1994. Pure se Velayati, quando sostiene che “tutti gli interventi di Khamenei sono basati sulla convinzione che il mantenimento della pace mondiale passi attraverso la sovranità degli stati e il rispetto delle frontiere internazionali”, esclude dagli stati legittimi e sovrani Israele. Khamenei in persona ha invitato i paesi arabi e musulmani a non partecipare alla Conferenza di Annapolis sul medio oriente, occasione per tendere la mano alla trattativa.L’obiettivo dell’articolo di Velayati è però un altro: far capire al mondo che il presidente Ahmadinejad è sempre più isolato dalla squadra dei fedeli di Khamenei. La squadra è composta, oltre che da Velayati, da Ali Larijani, da un mese presidente del Parlamento iraniano, e da Mohammad Baqer Qalibaf, potente sindaco di Teheran. Velayati lavora sul fronte della credibilità internazionale, Larijani è considerato l’interlocutore principale per la questione del nucleare (e dei rapporti con la Siria), Qalibaf si occupa di smantellare la politica economica di Ahmadinejad (i dati gli rendono semplice il compito). Sia Larijani sia Qalibaf sono considerati i principali candidati alle prossime elezioni presidenziali contro Ahmadinejad. Si narra che Larijani fosse chiamato dall’ayatollah Khomeini “mio figlio”: dalla rivoluzione ha avuto una carriera straordinaria. Nel suo discorso d’inaugurazione al Majlis pareva Ahmadinejad: il nucleare è un diritto dell’Iran, Hamas e Hezbollah hanno il sostegno di Teheran, Israele e l’America sono pericolosi. Anche Qalibaf è allineato sul nucleare e sulla distruzione di Israele: nel 1999 fu pure tra i firmatari di un pronunciamento di pasdaran che minacciavano un putsch se l’allora presidente Mohammad Khatami non avesse represso la rivolta degli studenti. Fu esaudito. I toni del gruppo di Khamenei sono suadenti, ma come ha scritto Asia Times “lo stile è diverso da quello di Ahmadinejad, la sostanza è la stessa”. E ieri il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha raffreddato gli entusiasmi europei: “Non sono molto ottimista sulla risposta all’offerta generosa di Solana sul nucleare, ma mi sono impegnato con gli altri colleghi europei ad aspettare prima di dare una valutazione. Non aspetteremo in eterno”.
Il governo italiano dovrebbe spingere Eni a lasciare l'Iran e a investire in Iraq.
Un importante editoriale:


Eni fa parte di un gruppo esclusivo. E’ una delle 35 compagnie energetiche internazionali scelte dal governo di Baghdad per partecipare all’asta sullo sviluppo di giacimenti petroliferi iracheni. In gioco ci sono 200 mila tonnellate di oro nero al giorno nel momento in cui il barile sfiora i 150 dollari americani. Ma il valore dell’affare non è scritto soltanto nelle note di profitto: l’Iraq del dopo Saddam, l’Iraq di al Maliki e delle rivolte popolari contro le stragi di al Qaida è un paese che ha scelto la democrazia e si muove verso la normalità. Investire a Baghdad significa contribuire a questo processo. Per aggiudicarsi uno dei contratti messi all’asta dal governo di Baghdad, Eni dovrà sfruttare la vision e le competenze che hanno già trasformato la società italiana in uno dei gruppi più importanti d’Europa. Per abbandonare gli investimenti in Iran, invece, serve ben altro. Secondo l’amministratore delegato della compagnia, Paolo Scaroni, lasciare il paese costerebbe a Eni due o tre miliardi di dollari. Partire è impossibile, a meno che il governo italiano o le Nazioni Unite non pongano una “causa di forza maggiore”. Gli Stati Uniti hanno messo le proprie aziende di fronte a una scelta dolorosa ma necessaria: investire a Teheran, dove le centrali nucleari potrebbero essere usate per costruire armi di distruzione di massa, o rimanere in America. A volte la politica è l’unico strumento in grado di spiegare all’economia quando i rischi del business sono troppo elevati.

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