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Il Foglio Rassegna Stampa
20.06.2008 Gigante petrolifero, nano politico
l'analisi di Carlo Panella sull'Arabia Saudita

Testata: Il Foglio
Data: 20 giugno 2008
Pagina: 3
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Così Riad usa la leva petrolifera per contare nella lotta all’Iran»

Da Il FOGLIO del 20 giugno 2008:

Per l’ennesima volta negli ultimi 35 anni, l’Arabia Saudita gioca oggi un ruolo risolutivo sulla scena del mercato petrolifero, ma, come sempre, non riesce tradurre questo suo essere grande potenza energetica sul terreno politico. Ryad è una grande potenza sul piano economico, ma è sempre e ancora incapace di conquistare e gestire una sua centralità politica decisiva fosse solo sul piano regionale. D’altronde, questa è una tradizione, sin dai tempi della “Opec regnante”: a fronte delle spinte rialziste di Libia, Iraq (sotto Saddam), Iran (sotto Khomeini) e Algeria, Ryad ha sempre sviluppato una politica ribassista, non certo per generosità nei confronti dell’Occidente, ma per la semplice ragione che alcune centinaia di miliardi di petrodollari sono investiti, nelle borse di New York e di Londra. Si è consolidata insomma una vera e propria partecipazione finanziaria dei paesi arabi del Golfo alle economie occidentali, che ha sempre consigliato loro una politica dei prezzi in equilibrio tra il massimo profitto e la necessità di non indurre elementi di crisi strutturale nell’economia occidentale.
Stride sempre di più, comunque, il contrasto tra questo ruolo determinante di Ryad sulla scena economica mondiale, e il forte affanno saudita sulla scena politica regionale sul quale ha infatti collezionato negli ultimi 30 anni una serie impressionante di sconfitte politiche. A fronte di una crescente presenza politica iraniana, che si è ormai saldamente impiantata a Gaza con Hamas e in Libano con Hezbollah, re Abdallah ha invece fallito tutte le iniziative che dovevano segnare la sua egemonia politica sulla scena mediorientale. Nelle ultime settimane, il “partito saudita” in Libano e in Siria, ha infatti subito rovesci disastrosi. Le confuse informazioni che filtrano da Damasco, convergono nell’indicare che Ashef Shawqat, capo dei servizi segreti e cognato di Beshar al Assad, è stato arrestato l’8 aprile scorso, proprio con l’accusa di avere tentato un golpe filo saudita. Questo, dopo che i suoi uomini, sempre di concerto con Ryad, avevano ucciso Ismail Mughniyeh, responsabile delle operazioni militari iraniane all’estero. Passate poche settimane, il tentativo del libanese Fouad Siniora di arrivare ad una resa dei conti con Hezbollah chiudendone la linea di telefonia militare –tentativo che non poteva non essere ispirato da Ryad- si è rivoltato contro il fronte antisiriano. Hezbollah è così riuscito a vincere la partita iniziata nel 2006 con l’assassinio di Rafik Hariri e detiene oggi la golden share nel governo di Beirut In Palestina, tra il 2006 e il 2007 la diplomazia saudita era riuscita –almeno- a ottenere un qualche risultato facendo finalmente approvare nel dalla Lega araba il cosiddetto “Piano Fahad”, che prevede il riconoscimento di Israele sub conditione. Ma poi lo stesso re Abdallah in persona ha fallito il suo tanto reclamizzato tentativo di imporre un accordo tra la Olp e Hamas sull’orlo della guerra civile. Convocati l’otto febbraio 2007 nella capitale saudita Ismail Hanyieh e Abu Mazen , i sauditi conclusero trionfalmente la trattativa, annunciando la firma di un “accordo storico” per un governo di unità nazionale palestinese. In realtà, fu un accordo burla, durato pochi mesi, giusto il tempo di dare agio ad Hamas di rafforzare la sua posizione nella Striscia e per sferrare poi il suo attacco decisivo, massacrando o esiliando in Cisgiordania tutta la dirigenza di al Fatah e ridicolizzando, anche, lo “storico accordo” imposto dai sauditi Stesso scenario di sconfitta politica saudita in Iraq, dove è fallito rapidamente il tentativo di fondare un “partito saudita”, iniziato sin dal 2004, quando il governatore Paul Bremer favorì la nomina di Ghazi al Yawhar –un ricco iracheno, intimo della corte saudita- quale primo presidente della Repubblica. Nonostante due anni di gestione dello Stato, quando si arrivò al voto politico nel 2005, al Yawhar riscosse un minimo seguito popolare e si ritirò dalla scena politica. Da quel momento, i movimenti sunniti iracheni sentono ben più le ragioni dei Fratelli Musulmani, egiziani, che le indicazioni che vengono da Ryad.
Questi recenti fallimenti sauditi nei tre paesi chiave del Medio Oriente, spiegano esaurientemente come, nel complesso, sia strategicamente debole quel “fronte sunnita”, di contrasto al fronte sciita imperniato sull’Iran, che Condoleeza Rice si sforza da anni di costruire con re Abdullah e il sostegno di Hosni Mubarak e del re Abdullah II° di Giordania. Un fallimento strisciante e ripetuto che in apparenza contrasta fortemente con il clamoroso, planetario successo che ebbe l’Arabia Saudita quando nell’ottobre del 1973, all’improvviso si impose alla scena del mondo con una mossa economica, di tale impatto politico che cambiò la storia economica del novecento. Fu a Ryad infatti che si concepì e si attuò l’uso della deterrenza petrolifera come strumento di guerra e di egemonia politica. Durante la guerra del Kippur, la linea fortificata israeliana Bar Lev sul Canale fu travolta dalle armate egiziane di Anwar al Sadat. Ma il 14 ottobre del 1973, Ariel Sharon, con una manovra militare geniale attuò una controffensiva tale che la stessa conquista del Cairo parve nelle sue immediate possibilità. Dopo avere sconfitto nel Sinai con i suoi 600 carri armati i 1.000 carri egiziani, Sharon aveva infatti passato il Canale di Suez e si era accampato a soli 110 chilometri dal Cairo. La guerra che Sadat aveva scatenato contro Israele, rischiava ancora una volta di trasformarsi in un disastro per l’Egitto e i paesi arabi. Fu allora che Ryad fece deflagarere la nuova “bomba”. Il 17 ottobre i paesi arabi annunciarono un aumento del 70% dei prezzi del petrolio e una diminuzione del 5% della produzione che sarebbe poi decrementata del 5% ogni mese, fino a quando Israele non avesse liberato i Territori; il 22 ottobre, i paesi arabi decretarono l’embargo totale delle esportazioni negli Usa. Il mondo, letteralmente, si fermò. Allibito. Per la prima volta nella storia, in così poche ore, una manovra economica risultò decisiva sul piano politico e militare, ben più dell’impiego di enormi eserciti sul campo di battaglia. Al di là dello straordinario impatto psicologico e dell’eccellente risultato bellico (Israele dovette precipitosamente bloccare ogni sua velleità), quella mossa pareva preludere ad uno straordinario protagonismo politico di Ryad. Anche perché, l’Arabia Saudita, da quel giorno, divenne una piccola “grande potenza” economica, anche perché le sue entrate petrolifere lievitarono tra il 1973 e il 1980, da 4,3 sino a 102,2 miliardi di dollari. Ma mai Ryad riuscì a replicare una mossa, sia pure in scala minore, come quella, magistrale, portata segno il 17 ottobre del 1973. Anzi. Nel 1979, il secondo stato petrolifero del Golfo, l’Iran (che peraltro, con lo scià era stato sempre ribassista), fu conquistato dalla rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini. I sauditi si dovettero confrontare con un movimento rivoluzionario musulmano dalla straordinaria forza di contagio che minava tutti i regimi dell’area. Rivolte sciite scoppiarono in Bahrein ,Kuwait e nella stessa Arabia Saudita, i pellegrinaggi alla Mecca divennero occasione di scontri con i khomeinismi, con centinaia di vittime ed infine la stessa moschea delle Mecca fu teatro di un tentativo insurrezionale di sunniti che costò duecento morti. La risposta saudita a questa sfida fu semplice, ma assolutamente fallimentare. Ryad infatti programmò, aizzò e finanziò l’invasione irachena dell’Iran del 1980. Saddam Hussein venne infatti scatenato, in un contesto di “fronte sunnita” controrivoluzionario, per arginare l’espansione rivoluzionaria irano-sciita. Ryad finanziò l’impresa con 30 miliardi di dollari complessivi. L’investimento parve inizialmente redditizio. L’espansione irano-sciita fu infatti bloccata per ben 25 anni, sino alla elezione di Ahmadinejad nel 2005, ma il clamoroso errore strategico insito nell’intera operazione, esplose ben prima. Persa la guerra contro Khomeini, Saddam si trovò infatti quasi nell’obbligo di dirigere su un obbiettivo alternativo le sue mire espansioniste. Nel 1990 invase così il Kuwait e minacciò la stessa Arabia Saudita. Ryad diede vita allora alla alleanza internazionale che portò a Desert Storm, e ridusse a ragione Saddam Hussein. Ma, come fosse una infernale matrioska beduina, Desert Storm stessa lacerò la società saudita e fece emergere le ragioni di tanta fragilità politica degli al Saud: la loro stessa religione wahabita, l’ideologia jihadista del regime, giudicava infatti “blasfema” l’alleanza con eserciti cristiani. Da quel trauma nacque al Qaida, su quel trauma si radicò la popolarità di al Qaida, a evidenziare la natura ibrida di un regime nato all’insegna del jihad e poi cresciuto nelle mollezze di una realplitik corrotta e corruttrice. Questo binomio fondante il regime -ideologia del jihad e corruzione realpolitiker- fu subito dopo causa di altri disastri planetari siglati da Ryad: il finanziamento di al Qaida e dei Talebani in Afghanistan (in joint venture con i pakistani), salvo poi accorgersi l’11 settembre di avere nutrito un avversario mortale. Non basta: per anni Ryad ha finanziato i kamikaze palestinesi di Hamas e di al Fatah, salvo poi accorgersi che così finanziava gli stessi kamikaze che dal 2004 in poi hanno seminato morte in tutta l’Arabia Saudita.
Oggi, passati 28 anni dal 1980, l’orologio è tornato a zero e Ryad si trova nella stessa, identica situazione in cui era l’indomani della vittoria di Khomeini. Fallite tutte le sue strategie e rivelatesi disastrose tutte le sue tattiche, a difesa dall’espansionismo iraniano le resta solo la costante dell’indispensabile copertura militare americana, sua estrema salvezza nel 1990. Per questo non può permettersi di indebolire l’occidente e calmiera il prezzo del petrolio. Per questo, è addirittura obbligata a rivedere al ribasso il suo antagonismo con Israele. Non è detto infatti che la bomba atomica iraniana non sia diretta prima su Ryad che su Tel Aviv. Non è detto che infine Ryad non debba un giorno addirittura sperare che Tel Aviv le risolva il problema Iran, che non sa né affrontare, né risolvere

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