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Il Foglio Rassegna Stampa
04.06.2008 Dissenso e repressione in Iran
le tesi di Ramin Jahanbegloo e Mohsen Kadivar

Testata: Il Foglio
Data: 04 giugno 2008
Pagina: 2
Autore: la redazione - Giulio Meotti
Titolo: «Perché a Teheran la repressione staliniana contro gli intellettuali non funziona - L’altro volto dell’Iran»

Dal FOGLIO del 4 giugno 2008, un articolo sulla condizione degli intellettuali in Iran:

Il trattamento degli intellettuali in Iran oggi si ispira alle repubbliche filosovietiche nell’Europa dell’est prima della caduta del muro. Per lavorare su questa tesi uno dei più famosi pensatori di Teheran, Ramin Jahanbegloo, nel 1999 è andato prima in Canada e poi all’università americana di Harvard. Ma il regime iraniano, appena ha potuto, ha interrotto le sue ricerche. Quattro mesi di carcere, accusa di collusione con il nemico, intervista riparatoria con l’agenzia di stampa di stato e video confessione: non trasmessa dalla tv controllata, ma conservata in archivio, per il futuro. Il periodo di reclusione è servito a strappare a Jahanbegloo un’autosmentita preventiva: se prosegue con il suo lavoro sgradito al regime, il confronto con la repressione come era nei paesi parasovietici, l’intellettuale sarà messo alla berlina con il suo stesso video. Puri metodi parasovietici. Il governo canadese, che per primo aveva accolto l’intellettuale in viaggio, ha potuto fare soltanto proteste molto timide: ricorda fin troppo bene il fallimento con Zhara Kazemi. Kazemi, una bella fotografa freelance con nazionalità mista canadese e iraniana di 54 anni, nel 2003 è andata davanti al carcere politico di Evin per fotografare la protesta studentesca antiregime. Le guardie l’hanno trascinata dentro. Il governo di Ottawa non è riuscito a fare nulla. Diciannove giorni dopo è uscita la notizia della sua morte “in ospedale, dopo un infarto durante gli interrogatori”. In realtà il medico della prigione, che è riuscito a scappare in occidente nel 2004, racconta che in autopsia il corpo della donna aveva tutti i segni di uno stupro e di torture: cranio fratturato, naso rotto, unghie mancanti, piante dei piedi sfondate. Poi la versione ufficiale è cambiata: Kazemi – hanno detto – è caduta dalle scale e si è rotta la testa. Ma il corpo non è mai stato restituito. Per placare le critiche dall’esterno, Teheran ha processato i due agenti dell’intelligence responsabili dell’interrogatorio. Entrambi sono stati scagionati nel giro di un anno. Teheran arriva al ricatto e all’eliminazione di due persone con contatti in occidente, accettando gli inevitabili contraccolpi diplomatici, perché teme sopra ogni cosa la rivoluzione morbida, dall’interno: contro le minacce armate può organizzare risposte armate, ma può fare poco contro lo svuotamento progressivo di senso che anno dopo anno succhia le forze della rivoluzione khomeinista e ne avvicina la crisi. Per questo la repressione è così dura con le categorie a rischio deviazionismo, le donne, gli studenti, i gay, gli intellettuali (anche quelli stranieri, come nel caso della fatwa a morte sul romanziere Salman Rushdie). Il problema per il regime di Teheran – proprio come nel paradosso di Jahanbegloo (punire come dissidente uno studioso di dissidenze) – è che più tenta di frenare il lavoro di scavo dei suoi oppositori iraniani, più ne ingrossa l’opera. Akbar Ganji, l’uomo simbolo della lotta libertaria contro il governo, aveva appena pubblicato una serie di articoli sugli assassinii di accademici e di professori da parte del regime quando è stato arrestato (condanna a sei anni di reclusione, senza cure mediche nonostante le malattie, nel carcere di Evin). La persecuzione l’ha reso conosciuto nel mondo. Nasser Zafarshan, romanziere famoso in tutto il paese, è stato imprigionato per la stessa indagine: ha provato a fare l’avvocato per conto di due famiglie delle vittime. Portato davanti alla corte marziale dei pasdaran, lui, un civile, è stato condannato a cinque anni. Quando l’anno scorso è uscito ha chinato il capo: “Non lo farò più”. Reza Alijani era il direttore di uno dei giornali preferiti dagli studenti, il libertario Iran e Farda. Dopo il suo arresto da parte dei servizi segreti nel febbraio 2001, mentre scontava duecento giorni di isolamento, Iran e Farda è stato messo all’indice. Poi Alijani è stato trasferito in una cella normale. Un altro giornalista, Taghi Rahmani, è stato arrestato a partire dal 1981 per i suoi articoli. Nel 2003 è stato condannato ad altri undici anni di prigionia, ma l’accusa del tribunale di Teheran non ha spiegato le motivazioni. Efficacia della repressione anti intellettuali? Quasi nulla. Un nipote di Khomeini, Hassan, scende in piazza con gli studenti. Un altro, Hossein, prete islamico, ha chiesto agli Stati Uniti di rovesciare il regime come in Iraq.

Mohsen Kadivar denuncia la natura "eretica" del khomeinismo. Un articolo di Giulio Meotti:

Roma. In “The new face of islam”, il reportage di Newsweek sui chierici musulmani che si stanno rivoltando contro l’islamismo, il volto di Mohsen Kadivar assume i tratti dell’anti Khomeini. La polizia del pensiero in Iran annulla i suoi sermoni perché Kadivar sostiene da anni che gli ayatollah promuovono una “interpretazione centralizzata dell’islam non democratica”. Per le sue idee e per l’appoggio alla dissidenza, Kadivar si è fatto un anno e mezzo di carcere ad Evin, dove, negli anni Ottanta, migliaia di prigionieri politici furono giustiziati e dove la dissidente Zahra Kazemi è stata torturata a morte nel 2003. Da lì sono passati, e spesso mai usciti, molti accademici, giornalisti e dissidenti del calibro di Iraj Jamshid, Akbar Ganji, Hassan Yussefi Eshkevari, Hossein Ghazian, Abbas Abdi, Alireza Labari, Siamak Pourzand, Taghi Rahmani, Honda Saber e Alireza Armadi. “Kadivar ha messo le mani nel fuoco, ha rotto dei tabù”, dice il riformista Mostafa Tajzadeh. Kadivar ha studiato nel seminario sciita di Qom, il più famoso al mondo. Da lì ha appreso i rudimenti del khomeinismo, che poi avrebbe definito “eresia” dello sciismo, per sostenere la scuola “akhbari” che dal XVII secolo riunisce gli sciiti che sostengono la separazione tra “hilafa”, la direzione politica riservata al califfo, e “hilama”, la direzione spirituale riservata agli ulema. Egemone in Iran fino al 1963, quando morì l’ayatollah Bourouerdj, questa fazione sciita è quietista e non aspira alla gestione diretta del potere. A questa tendenza si oppone la scuola teologica vincente “usciuli”, che assegna agli ulema la gestione politica della comunità e viene a sua volta forzata dall’ayatollah Khomeini, che nel 1979 impone all’Iran un Costituzione che certifica che il potere è solo di Allah e viene gestito da un giureconsulto in sua vece. Della prima scuola fa parte l’ayatollah Mahmud Tabatabi, uno dei tanti fuggiti a Najaf, in Iraq, per liberarsi dell’“atmosfera soffocante” di Teheran. E anche un nipote dell’ayatollah Khomeini, l’hojatoleslam Hassan Musavi Khomeini, che col nonno aveva trascorso 14 dei suoi 17 anni di esilio, ma oggi dichiara: “Allah lo perdoni, si sbagliava: lo sciismo non è i mullah che governano, è i mullah che offrono il più ampio numero di opinioni sulle diverse questioni, e aiutano la società a scegliere” Kadivar ha speso anni a formulare la critica devastante alla “velayat-e fadih”, il principio che assegna tutto il potere ai chierici islamici. “Poiché il principio fu concepito dai religiosi e non da Allah, non può essere considerato sacro e infallibile”. Kadivar spiega che il terrorismo è “antislamico”, lamenta i privilegi del clero e l’inaccessibilità dei ruoli chiave ai non religiosi e ai non musulmani. Sostiene che il regime ha fallito in quella che doveva essere la sua missione, allontanarsi da una concezione elitaria del potere. Nella Repubblica islamica il giureconsulto sostituisce lo shah. Dopo 24 anni di attesa, “sarebbe auspicabile che i leader della Jomhuri Eslami facessero un passo indietro”. E Kadivar ammette che, nonostante la fiducia nelle potenzialità della democrazia islamica, forse per l’Iran è troppo tardi. Sintetizza così l’aberrazione totalitaria dello sciismo: “Non vi è spazio per la democrazia perché il sovrano e il giureconsulto, rispettivamente nel califfato e nel governo del clero, ritengono di fare gli interessi del popolo meglio del popolo stesso. Non c’è alcun bisogno della libertà d’espressione e di religione. E la violenza può essere usata, a discrezione, dal sovrano e dal giureconsulto per applicare la legge e diffondere la fede. Il consenso non serve: coloro che hanno accettato l’islam o vivono in una società islamica sono obbligati a osservarne i principi religiosi e non possono fare un passo indietro. Gli integralisti fanno della forza e della violenza gli strumenti per applicare i principi religiosi nella società, introducendo un aspetto spaventoso dell’islam”. Alla morte del Profeta nel 632, scoppiò la guerra civile tra i seguaci del califfo assassinato Othman (sunniti) e i partigiani di Ali (sciiti). Un gruppo, i Muraigiti, predicava tolleranza. Un secondo, i Mutaziliti, si appellava alla ragione: produsse al Farabi, Avicenna e Averroè. Un terzo, i Kharigiti, si erse a nemico degli uni e degli altri, predicando l’assassinio degli “apostati”. Furono loro a uccidere Ali. Kadivar propugna un revival del “razionalismo mutazilita”, perché “come scriveva Alexis de Tocqueville, nella religione è necessaria la democrazia”.

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