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Il Foglio Rassegna Stampa
01.08.2007 La svolta in Iraq
David Petraeus ha la giusta strategia per vincere Al Qaeda, al Sistani la giusta teologia per la democrazia

Testata: Il Foglio
Data: 01 agosto 2007
Pagina: 1
Autore: la redazione - Giulio Moetti
Titolo: «Petraeus sta vincendo in Iraq - L'ayatollah del popolo»

Dalla prima pagina del FOGLIO del 1 agosto 2007, un articolo sui successi della strategia americana in Iraq:

E ora che grazie al comandante Petraeus il fronte in Iraq s’è rovesciato, come la mettiamo? Ora che persino il New York Times scrive che la provincia infernale di al Anbar, grande come mezz’Italia, dove negli anni scorsi sono stati ammazzati l’85 per cento dei caduti americani, è diventata per gli inviati newyorchesi “il secondo posto più sicuro dell’Iraq dopo le province curde”, che peraltro da quattro anni sono diventate un pezzo di paese normale (dove le studentesse universitarie vanno a passeggio senza velo e con il gelato) la politica e i giornali che faranno? Ora che i due editorialisti hanno camminato per le ex famigerate strade di Ramadi senza il giubbotto antiproiettile addosso, si potrebbe dover ammettere che la surge americana sta cominciando a ottenere risultati. Se lo chiede piuttosto allarmato il Nyt: “Ancora adesso i critici dell’Amministrazione sono piuttosto inconsapevoli dei cambiamenti significativi che stanno accadendo”. Perché “visto dall’Iraq, dove abbiamo passato otto giorni con i soldati americani e iracheni e con i civili, il dibattito politico a Washington è surreale”. Stessa domanda sul Washington Post: “Oggi il Congresso fronteggia una scelta cruciale sull’Iraq. Un giorno si racconterà che la situazione militare strategica stava cominciando a migliorare nel 2007 ma che il Congresso ha scelto di staccare la spina lo stesso – rafforzando gli estremisti islamici in tutta la regione e demoralizzando tutti i nostri alleati?”. Il capogruppo della maggioranza democratica al Senato, James Clyburn, ha messo in guardia i suoi compagni di partito. Meglio cominciare a essere cauti, ha detto, perché se il rapporto di Petraeus a settembre dovesse essere positivo potremmo dover cambiare idea. Una parte del problema sta nelle notizie irachene che non riescono ad arrivare fin sulle pagine dei giornali. Basta raccontare le ultime tre. Domenica quando gli iracheni se ne sono infischiati del coprifuoco per correre in strada a festeggiare la vittoria della finale di Coppa D’Asia non ci sono stati attentati, perché la polizia irachena, operando in autonomia, ha ucciso uno stragista di al Qaida prima che si facesse saltare e ha disinnescato un’altra autobomba. Una piccola, grande dimostrazione di efficienza. Le Brigate rivoluzionarie del 1920, feroci estremisti del partito Baath, braccio armato del Movimento per la resistenza islamica in Iraq – su Internet ci sono centinaia di video con i loro attacchi – domenica hanno annunciato la resa. Ammettono di aver rifiutato il governo legittimo di Baghdad in passato, ma di essersi riconciliato con esso e con la Coalizione “per lo scopo comune di eliminare al Qaida”. Non sono la prima forza antigovernativa che decide di cambiare lato del fronte, e non saranno l’ultima, considerato che la tribù degli “al Ameriki”, gli americani, hanno provato di essere lo schieramento più affidabile. E’ quella via della riappacificazione che i sunniti hanno intrapreso da poco e che invece gli sciiti sotto la saggia guida dell’ayatollah al Sistani, come è spiegato nell’inserto di oggi, hanno già portato a compimento. Terza notizia. L’operazione Phantom Thunder, la più grande dall’invasione del 2003, non ha una data prestabilita di conclusione e non sta lasciando tregua alle cellule degli uomini di al Qaida. A Babil, Diyala, Baquba, Fallujah, per la prima volta i terroristi non hanno più il tempo di riorganizzarsi. Non a caso, nonostante siano in combattimento molte più truppe del solito, il numero dei caduti è il più basso degli ultimi otto mesi e il numero delle vittime civili da maggio si è abbassato del 36 per cento. Restano ora da vedere i tempi di reazione del Congresso americano.

Da pagina 2 dell'inserto, un articolo di Giulio Meotti sull'ayatollah iracheno Ali al Sistani:

Ai soldati americani che in una notte della primavera di quattro anni fa penetrarono nel cuore di una silenziosa Karbala, si rivelò il volto quieto, rigoroso e scintillante di un islam sconosciuto. Quei giovani americani dei suburb furono accolti dal riverbero luminescente della cupola dorata del santuario dell’imam Hussein. Sino al 2003, Najaf era una città fantasma. Laddove c’erano sterminate file di caseggiati abbandonati da abitanti massacrati nelle galere del regime, costretti all’esilio e al silenzio dal Baath, dopo l’invasione americana fiorì il centro mondiale dello sciismo. Ogni giorno migliaia di persone fanno la spola nei vicoli da una all’altra di queste case, bussando alle porte, agitando foglietti di carta per farsi passare dalle guardie, presentando petizioni o chiarimenti teologici. Nella primavera di quell’anno, l’ayatollah sciita Ali al Sistani, che a Najaf ha vissuto prima da ulema perseguitato da Saddam Hussein e poi da maestro venerato, ordinò agli sciiti di non opporsi all’avanzata americana. Dopo la presa di Baghdad, decine di migliaia di iraniani, soprattutto donne anziane velate di nero e con piccole offerte di cibo, varcarono il confine attraverso i campi minati, per visitare a Karbala e Najaf i santuari di Hussein, “Signore dei Martiri”, e di Alì, “Leone di Dio”. Saddam aveva bandito quello straordinario oceano di pellegrini che venerano i parenti di Maometto martirizzati opponendosi alla tirannia. Se Karbala è la luna dello sciismo, ne definisce l’impegno a ricercare “la luce della giustizia contro la notte della tirannia”, Najaf è il suo sole. E’ la celebre metafora a cui ricorre lo storico iraniano Vali Nasr per spiegare la rivoluzione di Sistani. “Mentre il mondo non coglieva in tutta la sua portata l’importanza dell’innovazione – ci dice Nasr – Sistani aveva tacitamente portato nel medio oriente un nuovo approccio alla politica che rappresentava la più convincente e credibile sfida che il fondamentalismo o altre forme di autoritarismo avessero mai avuto modo di affrontare”. Un anno dopo la liberazione, Sayed Montazeri, il figlio del grande ayatollah iraniano Hossein Ali Montazeri, annunciò che “Najaf diventerà un ambiente libero nel quale emigreranno i chierici dissidenti, e dal quale criticheranno la teocrazia clericale in vigore in Iran”. A giudicare dal sangue dei collaboratori di Sistani che al Qaida ha fatto scorrere nell’ultimo mese, pegno della presenza “persiana” nella terra dei califfi antisciiti, Sistani è ancora decisivo per le sorti della democrazia in Iraq. Soprattutto nella partita con l’Iran. Due giorni fa Sistani ha chiesto al governo Maliki di intensificare l’alleanza con gli sceicchi sunniti avviata dal generale David Petraeus. “Dobbiamo dare a queste operazioni una dimensione nazionale per combattere al Qaida in nome dell’Iraq” ha detto un suo rappresentante a Karbala, Abdul Mahdi al Karbalai. Molti pellegrini iraniani sostano davanti alla casa in mattoni crudi dell’anziano ayatollah, che come Khomeini, è un “sayyd”, colui che vanta una discendenza dagli imam. “A Najaf sono state decise negli ultimi dodici secoli tutte le più importanti questioni dello sciismo” ha detto Mahmud Tabatabi, uno dei tanti ayatollah fuggiti da Teheran. Sono oltre un migliaio i grandi ulema ritornati in questi quattro anni a Najaf. Ogni sciita sogna di essere sepolto nel cimitero in città, il più grande del mondo islamico. L’immenso sacrario che circonda il santuario di Alì, il Wadi as Salaam (Valle di Pace), si estende per chilometri, punteggiato di lapidi e mausolei. Lì abita lo sceicco Humam Hamoudi, uno dei tanti ayatollah fieri di essere “un arabo”, che dice di conoscere l’inglese meglio del farsi, “sebbene abbia trascorso vent’anni in Iran”, e che spiega come “la via di Najaf” è diversa da quella di Teheran. Al vertice della gerarchia sciita siedono gli ulema più eminenti, i marja’, che per tradizione abitano a Najaf e Qom. Najaf è la capitale della corrente “akhbari”, di cui Sistani è la massima espressione assieme all’ayatollah Abdel Majid al Khoei, il figlio del maestro di Sistani ucciso a Najaf al rientro dall’esilio nel 2003. Questa scuola sostiene la separazione tra “hilafa”, la direzione politica riservata al califfo, e la “hilama”, la guida spirituale degli ulema. A questa dottrina si oppone quella “usciuli” di Qom, in nome della quale Khomeini impose all’Iran una Costituzione in cui il potere divino è gestito da un giureconsulto. Sistani ha benedetto le urne, la Costituzione più liberale del mondo arabo, il nuovo esercito iracheno, la “collaborazione” civile con l’armata occupante e il reclutamento nella martoriata polizia. A tre mesi dall’invasione, Sistani scelse rappresentanti in settanta città iraniane, dopo aver precisato che “non ci saranno turbanti al governo in Iraq”. Definì “terroriste” le fatwe di Yusuf al Qaradawi, lo sceicco che ha invitato i giovani arabi a cercare il martirio nei mercati sciiti. Al Qaida rispose bollando Sistani come “il più grande collaboratore dei crociati”. Quando uscirono le prime notizie di infiltrazioni iraniane in Iraq, Sistani emise una fatwa in cui stabiliva l’obbligo del musulmano di passare solo dai posti di frontiera legali. Secondo l’esule iraniano Amir Taheri, da questa guerra politico-teologica fra Qom e Najaf dipende il destino della democrazia in medio oriente. Taheri, che ha avuto il privilegio di incontrare Sistani a Londra, ci spiega che per la prima volta il clero iraniano è diviso. “E’ solo grazie a Sistani. Quattro anni fa parlai di uno ‘scisma sciita’. Oggi se ne vedono i frutti. Tre questioni dividono i due centri sciiti: la relazione fra fede e religione, la concorrenza fra ulema e il sistema di fatwa creato da Teheran”. L’esito di questo scontro dipende da chi vincerà in Iraq. “Se saranno i fanatici sunniti, Najaf eclisserà. Se avrà successo il legittimo governo di Baghdad, Najaf sarà il centro del mondo sciita. Per Sistani il potere appartiene al dodicesimo imam. Visto che è scomparso, passa al popolo. Sistani è un ‘primus inter pares’”. Sistani è stato allievo di Abol Qassem Khoi, il più eminente teologo sciita del ’900. “Khoi sviluppò una visione dell’islam come pietà personale opposta alla pubblica militanza” prosegue Taheri. “Per Sistani la decisione ultima spetta all’individuo sulla base della ragione, il dono più grande di Dio. La visione di Sistani è aristotelica, una società di cittadini pii. Esiste un libero mercato delle idee, il fedele può scegliere chi consultare e se accettare o no le opinioni del clero. Il khomeinismo invece è totalitario, il clero ha il monopolio del potere”. Sistani ha riconsegnato agli sciiti la possibilità di vivere la fede come facevano prima di Khomeini. “E’ la sfida più grave posta ai mullah iraniani. I marine americani che entrarono a Najaf non lo sapevano, ma stavano aprendo un nuovo capitolo nela storia dello sciismo”. L’iraniano Mehdi Khalaji, studente a Qom ingaggiato dal Washington Institute, dice che Sistani fonda il carisma sull’invisibilità. “Quando accettò di andare a Londra a farsi curare, pose tre condizioni: nessun incontro con i politici, nessun giornalista e le forze di sicurezza distanti. Creare una distanza è un meccanismo tipico della tradizione islamica. La distanza indica il potere”. Lo sciita iracheno Kanan Makiya, autore di un epocale atto d’accusa contro Saddam (“Republic of fear”) e oggi guardiano del lutto nazionale, è entusiasta di Sistani. “Il futuro dello sciismo dipende dallo scontro fra queste due tendenze all’interno del pensiero sciita contemporaneo”, ci dice Makiya. “Sistani non è politico e grazie a Dio, non aspira a diventarlo. Raramente esprime opinioni, lo non ha vissuto da esseri umani’”. Per Ajami, l’America è stata fortunata che Sistani si trovasse a Najaf. “La transizione storica e psicologica non sarebbe stata semplice. Non ci sarebbero state più squadre della morte nei seminari sciiti, nessuna figura venerata sarebbe stata giustiziata dai dominatori, come accadde al grande giurista Muhammad Baqir al Sadr sotto la tirannia di Tikrit. Gli studiosi sarebbero stati liberi di leggere e scrivere. La vita di Najaf sarebbe stata revitalizzata e la ‘talaba’, gli studenti religiosi proveniente dal mondo sciita, sarebbero arrivati fin qui. Un vecchio uomo religioso, isolato in una piccola stanza, che si rifiuta di incontrare chiunque non siano i suoi assistenti, dice di non voler interferire con la vita politica, fino ad accettare che le elezioni si svolgano sotto la protezione di un occupante straniero. La strada per le elezioni e la democrazia passa da Najaf e dalle istituzioni religiose sciite”. Ajami concorda con quanto ha detto Khalaji. “Nell’ottobre 2003, Sistani si è autosegregato ‘in protesta contro l’anarchia’. E’ una pratica religiosa detta i’- tikaf, un periodo di solitudine lontano dallo sguardo pubblico. Poi emise un editto per dire che ‘è permesso vendere beni ai soldati della coalizione’ e che ‘i traduttori possono tendere loro una mano’. L’affermazione secondo la quale la guerra in Iraq avrebbe sviluppato una teocrazia sciita è una calunnia. Nella città santa di Najaf, ai suoi vertici, vi è il timore di ire politiche e un attaccamento alla sobrietà. Il nuovo ordine darà ai giuristi di Najaf ciò che vogliono: un luogo nell’ordine morale dell’Iraq e un’adeguata separazione tra religione e i compromessi politici”. E’ pessimista lo storico militare Victor Davis Hanson. “Avevamo dimenticato che il 65 per cento degli iracheni non aveva voce in capitolo in Iraq. L’idea di Sistani è quella di un anti Khomeini. Lo abbiamo sperimentato dal 2003 al 2005. Ma per la sua età, la sua moderazione e la sua incapacità di controllare gli sciiti, è diventato sempre meno rilevante”. D’accordo l’intellettuale siriano Sami Moubayed, che scrive per il Washington Post. “In tempo di guerra, il popolo non ascolta i saggi. Sistani è un simbolo di speranza, non un leader di guerra”. Ane quando lo fa, è sempre per creare precedenti. A 74 anni ha detto che solo un governo eletto poteva redigere la Costituzione. Il processo democratico in Iraq esiste grazie a due uomini: Sistani e Bush. L’Iraq ha bisogno di una figura per bloccare l’impulso settario e proteggere la rivoluzione democratica. Sistani è il solo in grado di farlo”. Anche lo studioso americano Daniel Pipes pensa che nel lungo periodo si imporrà Najaf. “Il modello khomeinista non può durare, ha alienato milioni di musulmani, collasserà”. E’ anche l’opinione dell’esperto di Iraq Michael Rubin: “Najaf prevarrà perché l’Iran ha bisogno di sponsorizzare con la forza delle pistole quel tipo di teocrazia che gli iracheni sciiti non hanno mai coltivato nei loro cuori”. L’arabo sciita Fouad Ajami, docente alla Johns Hopkins University e autore di “The dream palace of arabs”, è uno dei pochi americani ad aver incontrato Sistani. “E’ la più grande risorsa dell’islam non politico. Per tredici anni non era stato visto in pubblico. Sono stato ricevuto come uomo di fede, come sciita, la mia nazionalità americana era secondaria. Quando Sistani parla, la voce è salda, l’arabo rigoroso, le parole scelte con cura. Ho avvertito intonazioni persiane. Parlò con reverenza della democrazia. ‘Il popolo ha votato per voi, è andato nei seggi sotto i colpi di mortaio. Sono qui da trentacinque anni, il popoche Afshin Ellian, fuggito da Khomeini per farsi una fama di giurista in Olanda, esprime dubbi. “Sistani vuole la sharia senza ‘walayat al Faqih’, il dominio dei mullah. La sharia deve essere rispettata. Da quale autorità?”. Vali Nasr è l’autore del best seller “The shia revival”, che ha acceso il dibattito sugli sciiti iracheni. Cresciuto a Teheran in una famiglia legata allo shah, Nasr ha lasciato l’Iran nel 1979. “Se l’Iraq avrà successo, Najaf diventerà il modello del mondo sciita. E avrà un impatto sull’Iran”. L’avversione per Khomeini ha spinto migliaia di iraniani a tornare allo sciismo prerivoluzionario. “Questa aspirazione a una fede più antica e meno politicizzata ci aiuta a capire come mai una figura modesta, coltissima e semplice nello stile di vita come Sistani abbia acquisito tanta popolarità in Iran. Gli sciiti vanno fieri del pluralismo di cui godono in fatto di autorità religiose”. Tra i colleghi di Khomeini nessuno fu più esplicito nell’esprimere la sua critica di Khoi, mentore di Sistani. “Dopo che Khomeini assunse il potere in Iran, Khoi ne attaccò la teoria come una deviazione dallo sciismo. Il modello costituzionale iracheno può ora diventare una realistica alternativa all’Iran. Sistani vede gli ulema come maestri di fede. E’ in grado di dire la sua su questioni come la teoria costituzionale laica. Sistani propose un modello di governo su cui tutti potevano trovarsi d’accordo. Ma è più debole del 2003, ha un grande soft power, ma privo di milizie e partiti. Non è un aspirante teocrate in stile Khomeini o un fondamentalista che sogna il ‘Corano come Costituzione’, come sono portati a fare gli estremisti sunniti. Per lui il ruolo dell’islam si limita a fornire valori e linee di condotta per l’ordine sociale. Sistani ha invitato i giovani sciiti ad arruolarsi, cosa che questi continuano a fare nonostante il dilagare della violenza. Il successo di Sistani promette di degradare Khomeini allo status di aberrazione nella storia dello sciismo”. Dopo l’attacco alla moschea di Samarra, Sistani parlò della trappola della guerra settaria. “Dopo ogni attacco, le moschee sciite associate a Sistani dicevano alle congregazioni che non erano i vicini sunniti quelli che li stavano uccidendo, ma wahabiti stranieri”. Sistani diramò una fatwa che imponeva agli sciiti di andare a votare: “Spingendosi a ricordare alle donne che era loro obbligo religioso di votare, un obbligo più vincolante dell’eventuale proibizione dei mariti. ‘Le donne che il giorno delle elezioni si recano ai seggi sono come Zaynab quando andò fino a Karbala sul campo di battaglia’. Non sorprende che un terzo dei candidati presenti nella lista degli sciiti, la lista che Sistani aveva contribuito a creare, fosse costituito da donne”. La sorella di Hussein, Zaynab, accompagnò a Damasco la testa del fratello. Difese la vita dell’unico maschio sopravvissuto della famiglia, il figlio di Hussein Alì, succeduto al padre come quarto imam sciita, assicurando la continuità dello sciismo. Nel corso della sua ultima visita in Iraq, Ajami ha visto gli effetti di questo scisma sciita. “Di fronte alla moschea di Kadhimiyyah, che ospita le tombe del settimo e del nono imam sciita, un uomo mi ha detto: ‘Il sole non splendeva qui da trentacinque anni’. Era una notte di primavera. Si sentiva l’eco della battaglia al di là del fiume. In quel luogo bagnato dalla luce c’erano tappeti persiani ovunque, doni dei benefattori attirati dal mondo dello sciismo. Il sorvegliante della tomba di Alì, Sayyid Muhammad al Ghurayfi, mi disse: ‘Siamo arabi, non vogliamo che l’Iran ci comandi. Najaf è il sole, trascende tutto, gli altri centri dello sciismo vivono della sua luce’”. Le parole di Ghurayfi, di cui l’ayatollah Sistani è stato mentore, comunicarono ad Ajami il significato della presenza in città del venerato sayyed. “Sistani ha abbracciato l’avversione storica dello sciismo al redenzionismo politico. Rappresenta la speranza che la storia possa essere cambiata senza violenza su larga scala, senza millenarismo. Sistani ha favorito la pace sociale sopra comunità differenti. La sua gravitas, la cura con cui misura le parole, è il dono a una popolazione snervata dall’anarchia e dal caos”.

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