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Il Foglio Rassegna Stampa
16.05.2007 La visita di Bush in Italia diventa il pretesto per lo scatenarsi dell'antiamericanismo
l'analisi degli storici Andrei Markovits e Paul Hollander

Testata: Il Foglio
Data: 16 maggio 2007
Pagina: 2
Autore: la redazione
Titolo: «Una nuova primavera antiamericana contro l’arrivo di Bush»

Dal FOGLIO del 16 maggio 2007:

Un presidente privo di legittimità popolare, forte del consenso delle “lobbies militari, petrolifere e dell’industria delle armi”, espressione di una “volontà di egemonia mondiale”, sterminatrice, ingorda. E’ il messaggio del Manifesto lanciato dall’omonimo giornale contro la visita del presidente americano George W. Bush, in Italia dal 9 giugno prossimo. “Il grido universale dell’antiamericanismo”, per usare l’espressione di Alexander Pope, si incarna in una poetica della disperazione, “per i torturati di Guantanamo, per i bruciati vivi di Falluja, per i deportati”, ma anche per l’“altra Italia”. Quella che combatte le riserve nucleari di Ghedi e Aviano, che si oppone all’ampliamento delle basi americane nel nord est, che vuole “il ritiro delle truppe italiane da tutti i fronti di guerra”. All’insegna di un gigantesco “pretendiamo”: la fine delle guerre, la liberazione di Hanefi, il ritorno di Emergency. Chiedono al governo italiano di dichiarare Bush “ospite non gradito” e di uscire dall’alleanza militare con gli Stati Uniti. La carovana di yabasta, circoli, reti, treni, movimenti, spazi, insurgencie, capannoni e nuclei sta preparando una grande manifestazione con la partecipazione di associazioni, sindacati di base, centri sociali, settori della Cgil come Giorgio Cremaschi, parlamentari tra cui i senatori Franco Turigliatto, Fernando Rossi e Mauro Bulgarelli e il deputato Salvatore Cannavò. L’appello alla manifestazione boccia non solo “la guerra globale permanente di Bush”, ma anche “l’interventismo militare del governo Prodi”. In questo clima giungono le parole di Mario Lozano, il marine accusato di aver ucciso Nicola Calipari: “Non vengo in Italia, temo per la mia vita”. E’ incessante la produzione saggistica sull’antiamericanismo, pari a quella della primavera della liberazione di Baghdad dalla tirannia saddamita. Si va dal libro di Andrew Kohut e Bruce Stokes, “America against the world” a “Hating America” di Barry Rubin. Ma soprattutto c’è quello di Andrei Markovits, “La nazione più odiata” (Einaudi), che ha il merito di illustrare come l’antiamericanismo sia diventato discorso pubblico, cifra linguistica. Prima di Markovits a sostenerlo era stato “L’ennemi américain”, gran libro di Philippe Roger. L’antiamericanismo non come mito e passione, ma tassonomia che segue la logica dell’accumulazione. “L’antiamericanismo è una tradizione contro l’America intesa come modernità, progresso, capitalismo, libertà, globalizzazione” ci dice Markovits impegnato in un tour editoriale in California. Markovits è un ebreo rumeno di formazione liberal. “L’America ha una cultura antiaristocratica, è gioia di vivere, è diritto alla felicità. Per questo non esiste antiamericanismo italiano, francese, spagnolo o tedesco, si tratta di un fenomeno globale. La libertà della persona in America è nemica delle ideologie collettivistiche e del mito delle classi sociali ancora in voga in Europa. Tutti qui vogliono diventare milionari. In Europa ti guardano con sospetto. Siamo la società più mobile del mondo, la nazione più anarchica. L’odio non dipende da Bush, l’antiamericanismo accomuna destra e sinistra, ci sarà anche con Barack Obama o Hillary Clinton alla Casa Bianca”. “E’ uno dei più grandi paradossi: mai prima d’ora una società così esecrata era al tempo stesso oggetto di tale attrazione per milioni di persone da ogni angolo della terra” ci dice Paul Hollander, autore di numerosi libri sul tema oltre che di un’inchiesta che pubblicammo nel 2002. “L’antiamericanismo è stabile dall’11 settembre, è uno standard culturale egemone nel discorso pubblico europeo”. E’ d’accordo con Hollander il canadese Mark Steyn, autore del best seller “America alone”. “Ricordo che alla fine di settembre 2001, il jihadista Maulana Inyadullah stava aspettando di combattere contro il Grande Satana quando si confidò al Daily Telegraph: ‘Gli americani amano la Pepsi Cola, noi amiamo la morte’. Poi ci fu la scrittrice inglese Margaret Drabble, all’inizio della guerra in Iraq: , ‘Detesto la Coca Cola, gli hamburger, i film di Hollywood, l’imperialismo e il trionfalismo americano’. L’America è l’egemonia più benigna della storia, la prima superpotenza non imperiale. Tutte le superpotenze, da Roma alla Gran Bretagna, sono state odiate per giusti motivi. L’America è odiata per qualunque motivo. I musulmani fanatici la odiano per il porno, i laici europei per gli evangelici, gli antisemiti perché sarebbe controllata dagli ebrei. Non è un caso che le peggiori espressioni di antiamericanismo dopo l’11 settembre provengano da gente dello spettacolo. Penso a John Lahr, Harold Pinter e Dario Fo, tipi perversi, paranoidi, trogloditi”. Anche Hollander parla di una forma di paranoia: “Gli esseri umani preferiscono trovare le cause della propria sfortuna al di fuori di se stessi. L’antiamericanismo è espressione di quest’impulso. Dal momento che gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza che abbia prodotto una cultura popolare. La debolezza è stimolante per l’antiamericanismo. Tra gli esponenti della cultura antagonista figurano accademici postmodernisti, femministe radicali, neri di impostazione afrocentrica, ambientalisti radicali, animalisti, pacifisti, maoisti, trotzkisti e giuristi militanti. Hanno abbracciato postmodernismo e decostruzionismo, inclinazioni relativistiche combinate con una condanna della società americana in nome di appassionati valori passatisti”. Markovits ricorda lo storico legame fra America ed ebraismo. “Gli ebrei, come gli Stati Uniti, sono il popolo più mobile del mondo, agenti del progresso. L’America è l’unico paese al mondo in cui un ebreo non è mai stato ucciso in quanto tale. Questo non va giù all’Europa, la terra dell’Olocausto”

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