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Il Foglio Rassegna Stampa
10.03.2006 La campagna elettorale in Israele, la lotta al terrorismo, la disinformazione sui quotidiani italiani
cronache , analisi, recensioni

Testata: Il Foglio
Data: 10 marzo 2006
Pagina: 1
Autore: Kenneth Stein - la redazione - Daniel Doneson - Marina Valensise
Titolo: «Perché Olmert ha sempre accanto a sé una sedia vuota - Ehud corre, Bibi gioca a scacchi,Amir mostra le ferite. Gli altri sbadigliano -»

Il FOGLIO di venerdì 10 marzo 2006 pubblica articoli sulle imminenti lezioni israeliane. Quello di Kenneth Stein, direttore  per gli studi su Israele all'Emory University di Atlanta riguarda  la figura e la strategia di Ehud Olmert:

Com’è possibile immaginare che un partito politico che fino a poco più di cento giorni fa non esisteva, il cui leader fondatore, Ariel Sharon, è in coma in un ospedale di Gerusalemme, vinca un terzo dei seggi parlamentari alle elezioni israeliane del 28 marzo? Da inizio dicembre, i sondaggi – ora un po’ meno favorevoli rispetto all’inizio – prevedono che Kadima, partito fondato da Sharon, otterrà tra i 37 e i 43 seggi alla Knesset. Nella storia politica israeliana, nessun partito ha mai ottenuto più di una dozzina di seggi alle prime elezioni successive alla sua costituzione. Ma con tutta probabilità il leader di Kadima, il pupillo di Sharon Ehud Olmert, attuale premier ad interim, sarà il dodicesimo capo di governo di Israele. La popolarità di Kadima – che significa “avanti” o “progresso” – come pure quella di altri partiti politici centristi riflette il desiderio degli israeliani di riacquistare il controllo del proprio destino. Secondo i sondaggi, almeno due terzi dei votanti non sono più disposti ad accettare che, a causa di indugi e tentennamenti, sia ritardata l’adozione di provvedimenti di protezione del destino della maggioranza ebraica dello stato d’Israele. Kadima deve la sua popolarità soprattutto al concetto più ampio racchiuso nel sionismo ed espresso dalle parole dell’inno nazionale israeliano – “lehiyot am hofshi beartzaynu”, essere un popolo libero nella nostra terra – in cui l’aggettivo “libero” significa svincolarsi dalle restrizioni del passato, non restare ad aspettare in un clima politico stagnante e assumere decisioni conformi all’interesse nazionale. Questa nozione riflette un’approvazione retroattiva del ritiro unilaterale di Sharon dalla striscia di Gaza ed è in linea con periodi della storia sionista in cui gli ebrei usavano il potere e la forza per proteggersi: immigrando illegalmente in Palestina per sfuggire alla persecuzione nazista negli anni Quaranta, attaccando preventivamente l’Egitto e la Siria dopo le ripetute minacce sull’annientamento di Israele in maggio-giugno 1967 e distruggendo il reattore nucleare iracheno nel 1981. Potrebbe anche andare di pari passo con una disponibilità degli israeliani a ritirarsi ancora unilateralmente da aree della Cisgiordania, a tracciare i loro futuri confini e, se necessario, a impegnarsi in un processo diplomatico che garantisca la sicurezza dello stato. Il successo riportato da Hamas nelle elezioni palestinesi offre nuovi stimoli ai sostenitori di Kadima. Poiché Hamas non fa mistero del suo obiettivo di distruggere lo stato ebraico, la decisione di Olmert di bloccare il trasferimento di entrate fiscali mensili israeliane all’Anp è una spia della tendenza ad adottare decisioni unilaterali nell’interesse nazionale. La costante oscillazione o incertezza nella politica palestinese catalizza il supporto israeliano per Kadima. Israele vede Hamas corteggiato da pretendenti innamorati – come l’Iran, l’Arabia Saudita, la Turchia e alcuni rappresentanti dell’Unione europea – molto simili ai cavalieri alla corte di Arafat. Israele non sta aspettando di vedere se l’accondiscendenza finanziaria nei confronti di Hamas indurrà quest’ultimo a cambiare idea sui suoi obiettivi di distruzione. Questo significa anche non aspettare che la popolazione palestinese superi la maggioranza ebraica grazie al suo elevato tasso di natalità. Può voler dire agire contro le minacce del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, di “cancellare Israele dalla mappa”. Significa allontanare Israele da rischi demografici e demagogici, e non permettere che una potenziale guerra civile palestinese varchi i confini di Israele. La filosofia di Kadima ha attirato politici capaci, che hanno guardato al di là del carisma di Sharon, del suo curriculum zeppo di aspetti controversi: scandali per corruzione, metodi politici dispotici e un passato militare segnato da momenti imbarazzanti e al contempo spettacolari. I candidati di Kadima sono tecnocrati dotati di enorme esperienza. Provengono dalla sinistra, dalla destra e da ambienti esterni alla politica, e, sotto la guida del sessantenne Olmert, l’ex vice premier e braccio destro di Sharon negli ultimi quattro anni, vogliono portare un cambiamento positivo nella società israeliana. Tre fratelli, grande appassionato di calcio, Olmert ha studiato da avvocato. Con Sharon è entrato in Parlamento dopo la guerra dell’ottobre 1973. Come Sharon, il suo orientamento politico lo ha visto militare inizialmente nell’estrema destra per poi passare al centro pragmatico. Da politico maturo, Olmert è un esperto costruttore di coalizioni livello municipale e nazionale: per farlo bisogna avere la scorza dura. Ha una lingua tagliente, acute abilità di marketing tipiche di un uomo politico. Un punto a vantaggio di Olmert è anche che molti politici prominenti, che avrebbero potuto ostacolare la sua candidatura, sono usciti di scena. Durante la sua esperienza governativa, Olmert si è occupato di questioni relative vari ambiti – comunicazione, difesa, istruzione, ambiente, affari esteri, minoranze, legge, giustizia, commercio, industria, salute – e di recente è stato ministro delle Finanze. Come gli altri due candidati premier – Amir Peretz (laburista) e Bibi Netanyahu (Likud) – Olmert non ha esperienza militare, ma tra gli undici precedenti primi ministri israeliani, soltanto tre (Sharon, Barak e Rabin) hanno assunto la carica vantando nel proprio curriculum una carriera militare. Ognuno dei tre principali candidati ha una concezione diversa del modo di gestire la questione palestinese: Netanyahu è per l’impiego di più forza, Peretz propone più trattative compromessi, Olmert punta sull’unilateralismo. Per quasi dieci anni, è stato sindaco di Gerusalemme, con tutte le questioni delicate relative alla suscettibilità araba e religiosa. Dal 2001 è diventato uno dei più stretti collaboratori di Sharon nelle questioni di politica estera. Ha giocato un ruolo importante nel convincere l’Amministrazione americana, e specialmente i cristiani americani e i sostenitori ebrei di Israele, ad accettare l’idea del ritiro da Gaza. Solitamente le campagne elettorali israeliane sono caratterizzate da astio e insulti. Le decisioni prese o non prese da Olmert nel corso dei suoi incarichi governativi precedenti saranno riesaminate al microscopio. Un attentato terroristico e una reazione sbagliata potrebbero intaccare il sostegno per Kadima. Finora Olmert si è adagiato lentamente sulla sedia di Sharon; non ha fatto le corse per occuparla. Olmert non è Sharon. Come un commentatore israeliano ha affermato di recente, è “sicuro di sé ma non arrogante, serio ma non borioso”. Molti israeliani si considerano così.

Un altro articolo presenta gli spot elettorali delle diverse forze politiche israeliane: 

Gerusalemme. La campagna elettorale israeliana è ufficialmente incominciata. Tutti i giorni, a orari diversi, le tv trasmettono gli spot pubblicitari dei partiti per un’ora intera. I leader politici hanno la possibilità di mostrarsi e, soprattutto, di attaccare gli avversari. Benjamin (Bibi) Netanyahu, capo del Likud, nel suo filmato si mostra al pubblico senza giacca e cravatta mentre sorridente si reca a fare visita al padre Ben Zion, noto storico, per una partita a scacchi. Bibi ricorda poi la memoria nel fratello Yoni, eroe di guerra morto nella battaglia di Entebbe nel 1976, per sottolineare che lui e la sua famiglia hanno un passato militare, cosa che Ehud Olmert, leader di Kadima e attuale premier, non può vantare. Gli slogan del Likud sono tutti contro il primo ministro: “Olmert ha paura” e “Smolmert”, un gioco di parole con “smol”, che in ebraico vuol dire “di sinistra”, e il nome del premier. Tanta durezza scatena la risposta degli altri partiti, che accusano Bibi di aver mandato in rovina intere famiglie con la sua politica economica quando era ministro delle Finanze. Poi viene ridicolizzata la sua “ossessione” per Hamas e il motto: “Duri con Hamas, soltanto Netanyahu!”. Olmert però non risponde alle aggressioni del Likud. Per la stampa israeliana, il premier si sente già vincitore ed è talmente occupato con la definizione dei confini di Israele che non ha neppure il tempo di occuparsi di Bibi. Preferisce farsi vedere nella sua corsa giornaliera di dieci chilometri, con lo sguardo sicuro e i modi romantici. Amir Peretz, leader laburista, parla invece delle sue ferite di guerra ai tempi dell’esperienza nell’esercito, mostra Tony Blair, premier britannico, e Bill Clinton, ex presidente americano, mentre parlano di alzare il salario minimo, uno dei punti principali del suo programma. Il pubblico israeliano però non è troppo interessato alla campagna elettorale: il picco di ascolto è stato del 21,4 per cento e molti quotidiani hanno definito l’ora di propaganda “pihukon”, sbadiglio. Yari Vezeid, esperto di linguaggio del corpo, ha detto che riconosce a malapena i leader politici negli spot, che esagerano i loro comportamenti per avvicinarsi al proprio elettorato. Dror Shternshous, esperto mediatico, prende in giro le visitine di Bibi al babbo e dice che l’unico spot divertente è quello del sinistrorso Meretz. L’unica cosa strana è che non viene mai mostrato il leader Yossi Beilin: forse – commenta Shternshous – i membri del partito hanno paura che la sua presenza faccia perdere ulteriori voti. Meretz ha scelto un’altra strategia mediatica. Per avvicinarsi ai religiosi e allargare il suo elettorato durante il suo filmato ha inquadrato un pezzo del Muro del pianto. Peccato che poi la tv israeliana abbia scoperto che si trattava di una parete della periferia di Ramat Gan. Avigdor Liberman, leader di destra di Israel Beytenu, invece, convince sul sociale e sulla sicurezza. Ma – commentano i quotidiani – gli israeliani si vergognano ad ammetterlo. C’è un po’ di stanchezza tra gli elettori, i toni sono aspri, l’ora di pubblicità politica è stereotipata, la situazione palestinese fa paura. Vezeid sottolinea che Olmert con il jogging vuole dimostrare di poter portare Israele lontano. Peretz con le sue ferite di guerra segnala di poter superare anche i sondaggi che lo danno in calo. Bibi con gli scacchi ostenta le sue “grandi capacità di riflessione”. Il quotidiano Haaretz scrive che Israele non ha bisogno di “stupidi e costosi spot”. I leader politici hanno recitato le parti assegnate dai vari esperti mediatici – commenta Haaretz – ma non sarà un “film” a convicere l’elettorato, se riesce a smettere di sbadigliare.

Daniel Doneson, esperto di teoria politica e di relazioni internazionali analizza i piani israeliani nei confronti di Hamas e della Jihad islamica:

Gerusalemme. Recenti indiscrezioni circolano tra gli ufficiali delle forze di difesa israeliane (Idf) suggeriscono che, con tutta probabilità, Israele dovrà lanciare una massiccia operazione di terra nella Striscia di Gaza per sventare la minaccia delle incessanti raffiche di Qassam. Finora l’esercito ha risposto al lancio dei razzi con scariche di artiglieria pesante in aree disabitate della parte settentrionale di Gaza, nonché con uccisioni mirate di terroristi noti. Se l’esercito riconosce che, in una certa misura, questi metodi sono riusciti a contenere i lanci di missili, molti pensano che presto l’Idf dovrà rientrare a Gaza. La scelta del momento più opportuno dipende semplicemente dalla pazienza di Israele. Secondo fonti dell’esercito, Hamas – impegnato a consolidare governo, armi e denaro – non sta partecipando agli attacchi con i Qassam, che sono perpetrati dal Jihad islamico e da altri gruppi terroristici più piccoli. Sebbene per il momento non siano letali, i razzi sono regolarmente indirizzati contro l’area strategica della centrale elettrica di Rutenberg, alla periferia di Ashkelon, dove, se un missile dovesse centrare il bersaglio, le ripercussioni sarebbero devastanti. Il mese scorso, l’ex capo di stato maggiore, luogotenente generale (ora in pensione) Moshe Ya’alon, ha consigliato all’Idf di “potenziare l’azione militare contro i lanciatori di Qassam, anche se ciò significa entrare nella Striscia di Gaza”. Non è un segreto che i soldati di guardia lungo la frontiera sono impotenti quando si tratta di affrontare il lancio dei razzi: gli elicotteri non riescono a intervenire prima del lancio. Se nel doporitiro neanche un kamikaze è riuscito a penetrare da Gaza non è certo per mancanza di tentativi. Come ha detto il ministro della Difesa, Shaul Mofaz, sono stati registrati dieci allarmi di terroristi provenienti dalla Striscia. Il ministro ha anche detto alla radio dell’esercito che Israele non esisterà a colpire i leader di Hamas, se dovessero ricominciare gli attacchi: neppure il premier palestinese, Ismail Haniye, “è immune”. All’inizio della settimana tre passanti sono stati uccisi insieme con due terroristi del Jihad islamico durante un attacco missilistico dell’Idf nella Striscia di Gaza, nonostante quelli che il comandante in capo dell’aviazione israeliana, il generale maggiore Eliezer Shkedy, ha definito gli “sforzi sovrumani” di Israele per impedire la perdita di vite innocenti. Hamas, proprio nel mezzo delle attività di formazione del nuovo governo, ha definito l’attacco aereo di lunedì un “massacro”. Il presidente palestinese, Abu Mazen, ha affermato che si è verificata una “pericolosa escalation”. Soltanto qualche giorno prima il comandante più anziano del gruppo a Gaza era stato ucciso in un’esplosione che aveva squarciato la sua auto. Israele ha negato ogni coinvolgimento. In una conferenza internazionale sulla potenza aerea all’Università di Tel Aviv, Shkedy ha affermato in modo inflessibile: “Stiamo facendo tutto quanto è nelle nostre possibilità per impedire che sia fatto del male alle persone innocenti, ma questa è una guerra, e dunque nulla è sicuro”. In risposta ai raid aerei israeliani, il Jihad islamico ha dichiarato guerra alla leadership israeliana in un proclama inviato per fax alla Reuters di Gaza, nel quale si afferma che “i capi del nemico devono sapere di essere personalmente dei bersagli”. Secondo il proclama, il gruppo ha dato ordine a tutte le proprie cellule di lanciare attacchi nel cuore di Israele.

Marina Valensise recensisce un libro del sociologo della comunicazione Edoardo Tabasso sulla disinformazione antisraeliana nei giornali italiani 

Roma. In vista dei prossimi impegni elettorali, che per ogni candidato accrescono la possibilità di figuracce, col rischio di comprometterne l’ambizione da statisti, urge raccomandare all’onorevole Diliberto, e a quanti si apprestano come lui al verdetto delle urne, la lettura di un breve saggio appena uscito. S’intitola “L’ossessione antisraeliana. Dalla seconda Intifada al disimpegno da Gaza”. Lo pubblica un piccolo editore campano, Impermedium libri, consta di 180 pagine, costa appena 13 euro e 50, ma offre un contributo essenziale per prendere la misura dei pregiudizi che molti nutrono verso Israele, e dell’ostilità alimentata da una comunicazione inattendibile, fatta di squilibri, distorsioni e omissioni. L’autore è Edoardo Tabasso, un sociologo della comunicazione, allievo di Giovani Bechelloni, che da anni a Firenze anima uno dei più vivaci centri di ricerca sul tema. In vista del dottorato, Tabasso s’è messo a leggere i giornali e ad analizzarli, con l’idea di stanarne i luoghi comuni, mostrarne l’infondatezza. Il risultato è un agile compendio che restituisce ai fatti la loro consistenza e alle opinioni la loro approssimazione fuorviante. Un’inchiesta di controinformazione, oltre che un’utile sintesi per chi non bazzica tanto la storia e fa troppo affidamento alla stampa. Tabasso pone la questione israelopalestinese non come causa bensì come risultato del conflitto arabo israeliano, a partire dal rifiuto arabo della risoluzione 181 dell’Onu con cui, nel 1947, si votò la creazione in Palestina di due stati indipendenti. Doppio rifiuto: di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele e di lavorare al contempo alla creazione di uno stato palestinese, che invece porrà come premessa la distruzione dello stato sionista. Il libro consta di due capitoli. Il primo ripercorre gli ultimi anni, l’assedio della chiesa della Natività a Betlemme e la battaglia di Jenin nella primavera del 2002. Il secondo ricostruisce il periodo che separa la presentazione del piano di pace della road map dal disimpegno unilaterale dai Territori deciso dal governo del “falco” Ariel Sharon. In parallelo, trovano spazio la caduta di Saddam Hussein, il lento avvio di un processo di democratizzazione per il medio oriente, le continue minacce del terrorismo islamico, la morte di Arafat, ma anche un’analisi delle semplificazioni più diffuse, come quella che attribuisce all’America e a Israele la responsabilità nell’espandersi del terrorismo fondamentalista, come risposta a “un imperialismo e un’occupazione che provocano miseria”. E’ quella semplificazione che impedisce all’Europa di capire la natura del terrorismo. “Le violenze dei palestinesi si minimizzano – osserva Tabasso – perché le presunte finalità del terrorismo, apparentemente negoziabili, diventano legittime”. Lunga è la lista degli esempi. Ecco il Corriere della Sera, che il 29 marzo 2002, all’indomani dell’inizio dell’operazione “Muro difensivo”, che segna il rientro dell’esercito israeliano nelle città palestinesi per arginare il terrorismo, titola in prima pagina: ”Israele contro Arafat: avanza l’esercito”. Repubblica annuncia: “Sharon prepara l’assalto ad Arafat”. “Forzature storiche e interpretative che lanciano sospetti e distorsioni, lasciando i palestinesi liberi di agire senza assumersi alcuna responsabilità”, riassume Tabasso. Così anche in Italia un paziente lavoro di scavo denuncia le insidie ai lettori, con più efficacia dei proclami alla Fiamma Nirenstein – “Siamo di fronte a una cultura dell’odio, contro lo stato d’Israele, un odio totale contro l’occidente”

Lungi dal limitarsi a formulare "proclami", Fiamma Nirenstein, durante l'intero periodo dell'aggressione terroristica contro Israele ha scritto e documentato   con puntualità ciò che la disinformazione antisraeliana cercava di occultare

 – e provocando più sensi di colpa del rammarico di Ehud Gol di fronte alla “naturalezza con cui il mondo occidentale accoglie come inevitabili gli attentati in Israele e l’uccisione di cittadini inermi”.

rammarico, ci sembra, che qualche riflessione dovrebbe provocarla

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