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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio Rassegna Stampa
23.07.2004 Un liberal di sinistra contro il pacifismo amico dei fascismi
e qualche notizia inaspettata su Michael Moore

Testata: Il Foglio
Data: 23 luglio 2004
Pagina: 3
Autore: Paul Berman - Christian Rocca
Titolo: «In Iraq una guerra antifascista - Quando michael Moore censurò Paul Berman»
Su Il Foglio a pagina 3 un articolo di Paul Berman, "In Iraq una guerra antifascista, Salih ne è la prova vivente". Berman, intellettuale di sinistra americano favorevole alla guerra al terrorismo, presenta la figura di Barham Salih, leader curdo e ministro del nuovo Iraq democratico.E mette in luce contraddizioni e ipocrisie della sinistra pacifista.
La guerra in Iraq è stata sempre una
guerra contro il fascismo, una guerra di
liberazione in nome della libertà democratica,
addirittura una guerra di sinistra. O almeno
io ho sempre pensato così. In tutto il
mondo ci sono persone, le quali si dichiarano
liberal o di sinistra, che pensano esattamente
la stessa cosa e che hanno, in un
modo o nell’altro, appoggiato la guerra persino
quando criticavano Bush per il modo
in cui la conduceva. Devo ammettere che
un buon numero di altre persone la pensa
in modo diverso e considera questa guerra
come un’impresa esclusivamente di destra:
una guerra per il petrolio, per l’imperialismo
o per gli interessi repubblicani. Noi liberal
e sostenitori di sinistra della guerra
abbiamo avuto da superare giorni duri e
difficili per colpa di questa convinzione.
Ma, in Iraq, qualche settimana fa, i falchi
della sinistra hanno ottenuto un successo
davvero esaltante. A Baghdad si è insediato
un nuovo governo, guidato dal primo ministro
Iyyad Allawi. Tuttavia, subito alle
sue spalle, c’è un vice primo ministro che è
stato scelto con l’approvazione non soltanto
degli Stati Uniti, come ci si poteva facilmente
aspettare, ma anche di un molteplice
numero di fazioni politiche. Il nuovo vice
primo ministro è Barham Salih, un curdo.
Salih è, a detta di tutti, estremamente
popolare nelle province curde: proprio il
genere di persona che, in un Iraq autenticamente
democratico, arriverebbe senza
dubbio a posizioni di grande autorità. Ma
c’è dell’altro: è uno dei più grandi eroi della
sinistra in medio oriente. Salih è un
membro dell’Unione patriottica del Kurdistan;
vi è entrato nel 1979, quando l’organizzazione
era clandestina. E’ stato tenuto a
lungo sotto controllo dalla polizia segreta di
Saddam Hussein, che lo ha arrestato ben
due volte. E’ stato nel mirino di Ansar al
Islam, gruppo affiliato ad al Qaida, che ha
cercato di assassinarlo (e ha ucciso le sue
guardie del corpo). Ma questo non lo ha fermato,
ed è diventato primo ministro del governo
regionale autonomo curdo nell’Iraq
settentrionale, guidando la creazione e la
crescita di quella che si può definire, sotto
ogni aspetto, un’autentica cultura democratica,
o almeno la sua forma incipiente.
Un uomo di sinistra che chiede solidarietà
A Roma, nel gennaio del 2003, prima che
cominciasse la guerra, davanti al consiglio
dell’Internazionale socialista, Salih ha pronunciato
un discorso che può essere considerato
l’espressione più chiara e autorevole
della posizione mantenuta dai falchi della
sinistra. Ha fatto appello alla sinistra democratica
di tutto il mondo affinché sostenesse
l’imminente invasione, paragonandola
alla liberazione dell’Italia da parte degli
Alleati nel 1944. Gli italiani avevano subito
vent’anni di fascismo, ha detto Salih, e
l’invasione
del 1944 è stata la loro liberazione.
Gli iracheni, ha aggiunto, hanno dovuto sopportare
per 35 anni "l’ideologia violenta e
razzista" del partito Baath, e hanno bisogno
dello stesso genere di aiuto.
Cinque mesi fa, a Madrid, Salih ha parlato
nuovamente ad un incontro dell’Internazionale
socialista. Ecco un passaggio del suo
discorso: "La maggior parte degli iracheni
considera assolutamente prioritario il dovere
morale e politico di una guerra di liberazione.
Per molti di noi in Iraq, che hanno
fatto esperienza diretta delle armi di distruzione
di massa di Saddam Hussein, la
polemica sulla mancanza di prove sull’esistenza
di queste armi è del tutto incomprensibile.
Per noi in Iraq, la minaccia delle
armi di distruzione di massa non si riduce
a una sterile questione di cifre. Sono state
usate regolarmente da Saddam come
strumento di repressione. La pulizia etnica
è cominciata in Iraq nel 1963, quando il partito
Baath ha preso il potere. Circa un milione
di persone è stato deportato, per la
maggior parte curdi, ma anche turkmeni e
cristiani assiri. Il regime fascista di Saddam
Hussein è costato la vita ad almeno due milioni
di iracheni. Le fosse comuni sono una
ragione sufficiente per giustificare la moralità
di questa guerra di liberazione. Io, come
curdo e come iracheno, so, forse meglio di
altri, che la guerra è una cosa devastante,
alla quale bisognerebbe sempre opporsi.
Eppure, per noi, questa guerra ha segnato
la fine di una guerra ben più brutale che
era stata scatenata contro lo stesso popolo
iracheno… Nonostante le immagini che, sugli
schermi delle televisioni occidentali,
presentano l’Iraq come una spaventosa tragedia,
per la maggior parte degli iracheni, i
quali non hanno conosciuto altro che gli assassini
e le violenze del regime di Saddam,
questi ultimi dieci mesi sono stati un periodo
di straordinari passi avanti per la creazione
di una società libera. Questa è la prima
volta nella storia dell’Iraq, e forse in tutta
la storia del medio oriente islamico, in
cui il popolo ha la possibilità di partecipare
a un vasto e serio dibattito politico sul futuro
del suo paese".
Penso di sapere perché, in tutto il mondo,
molte persone liberal e di sinistra non hanno
risposto a questi appelli. Perché, quando
aprono davvero le orecchie sul dibattito
iracheno, sentono l’antipatica voce di George
W. Bush e non quella della sinistra democratica
in Iraq. Ma mettiamoci ad ascoltare.
Questa è una guerra per la democrazia,
non per il petrolio. E’ una guerra antifascista.
E’ una guerra che, almeno per il
momento, ha portato al potere, come vice
primo ministro, un uomo di grandissima autorità
nella lotta per la libertà in medio
oriente. Ora quest’uomo chiede la nostra solidarietà.
E si merita pienamente di averla.
Riguarda anche Paul Berman la vicenda raccontata nell'articolo di Christian Rocca (sempre a pagina 3), "Quando Michael Moore censurò Berman, liberal troppo libero". Moore vuole dedicare il suo prossimo film al conflitto israelo-palestinese. E' utile sapere chi è...
Ecco il pezzo:

Michael Moore non odia soltanto George
W. Bush e i suoi "stupidi uomini
bianchi", farebbe a fettine anche Paul Berman,
l’autore dell’articolo pubblicato qui
sopra. Il regista Moore è stranoto e strapremiato,
ma i lettori del Foglio ormai conoscono
bene anche Berman, il saggista di sinistra
che ha scritto "Terrore e Liberalismo",
il libro sull’ideologia politica che sostiene
sia i fondamentalisti islamici sia i regimi
cosiddetti laici del Medio Oriente.
Berman è uno col curriculum di sinistra
senza pecche: esponente della New Left
americana, studioso del Sessantotto, ha
scritto per riviste antagoniste come Mother
Jones e per giornali liberal come New Republic,
Dissent, New York Times Magazine
e Los Angeles Times. Berman non ha votato
né voterà Bush ma, con altri intellettuali
della sinistra americana spesso ignorati
dalla stampa italiana, e con Tony Blair, crede
che sia stato un bene, soprattutto per gli
iracheni, l’intervento che ha cambiato il regime
dittatoriale di Saddam. Fa parte, insomma,
di quella sinistra liberale e non
ideologica che sta agli antipodi rispetto al
casarinismo disobbediente di Michael
Moore. Moore, infatti, lo odia.
La storia è questa. Alla fine del 1985 la
più popolare tra le riviste della sinistra
americana, "Mother Jones", inviò Paul
Berman in Nicaragua per fare un lungo reportage
sulla gloriosa (per la sinistra radicale)
rivoluzione sandinista. Berman soggiornò
a lungo a Managua e girò il paese.
La lunga inchiesta fu pronta nel 1986 e fu
uno shock per la sinistra americana che
vedeva nei rivoluzionari di Daniel Ortega
un’alternativa possibile al capitalismo reaganiano
di quegli anni. "Avevo semplicemente
scritto – dice oggi Berman al Foglio –
che i sandinisti erano antidemocratici". Aggiunse
che erano leninisti, che violavano i
diritti umani e che non erano in grado di governare
l’economia. Insomma, cose che nessun
oggi contesta più, probabilmente neanche
Ortega.
Mentre Berman era in Nicaragua, però,
successe una cosa. La proprietà di Mother
Jones, giornale di San Francisco che deve il
nome alla sindacalista socialista Mary Harris
(Mother) Jones che morì nel 1930 all’età di
100 anni, assunse un nuovo direttore, un trentaduenne
proveniente dal Michigan Voice,
un mensile antagonista di Flint, cittadina,
sandinista pentito
appunto, del Michigan. Era Michael Moore.
Quando il neodirettore Moore lesse l’articolo
di Berman pronto per essere stampato
decise di censurarlo, non lo pubblicò,
perché sarebbe stato "un regalo a Reagan",
presidente impegnato a contrastare l’Impero
del Male ovunque, anche nel cortile di
casa, non solo in Europa dell’est. Successe
finimondo, dopo la censura dell’articolo.
Scoppiò una lite furibonda tra Moore e l’editore
e la vicenda divenne un caso nazionale.
Finì che, nel settembre del 1986, quattro
mesi dopo l’assunzione, Moore fu licenziato.
Cinque giorni dopo essere stato cacciato,
Moore fece una causa da 2 milioni di
dollari al giornale. L’articolo di Berman
uscì a novembre.
Moore si vendicò scatenando una campagna
di insulti e accusando Berman di non
aver alcun titolo per valutare la situazione
in Nicaragua anche perché, diceva Moore,
Berman non parlava spagnolo. Ovviamente
era falso, come false sono la gran parte delle
cose che Moore dice di Bush, tanto che
Berman gli rispose su un giornale direttamente
in spagnolo. "Capii che era un bulletto,
un demagogo, un ignorantone che usava
metodi stalinisti, pur non essendo sofisticato
come i peggiori vecchi stalinisti sapevano
essere – dice Berman al Foglio – Ma
aveva talento e riuscì a scatenare una crociata.
Ho riso molto quando si è lamentato
che qualcuno stava cercando di censurare
suo film… detto da uno che aveva censurato
il mio articolo…". Naturalmente non
c’è mai stato pericolo che "Farheneit 9/11"
venisse bloccato. Era solo uno dei tipici colpi
di marketing di Michael Moore, l’alfiere
della stupid white left.

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