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Rassegna Stampa
13.06.2011 Ritorna l'antisemitismo nostalgico?
Il Secolo d'Italia contro l'Economist

Testata:
Autore: La Redazione del Secolo d'Italia
Titolo: «L'Economist attacca il cav: ecco il perché»

Riportiamo dal SECOLO D'ITALIA dell'11/06/2011 l'articolo dal titolo " L'Economist attacca il cav: ecco il perché ".


Una copertina dell'Economist contro Berlusconi

Stupisce che il Secolo d'Italia possa muovere un attacco di questo genere all'Economist. Nel pezzo si legge : "Soprattutto, il Cav non è del giro delle famiglie giuste. È out proprio di nascita." e "La grande rete finanziaria dei Rothschild ci fa la guerra e non è un caso: il premier non fa parte della loro élite", segue la storia dettagliata della famiglia Rothschild, proprietaria dell'Economist. 
Fa capolino la solita storia della lobby ebraica in grado di controllare il mondo, la teoria complottista dei Rothschild che attaccano Berlusconi perchè non è ebreo. Una teoria assurda e offensiva.
La difesa tentata dal Secolo d'Italia non solo non raggiunge il suo obiettivo (scagionare Berlusconi dalle accuse mosse dall'Economist), ma scade nell'antisemitismo.
Ecco l'articolo: 
 

La grande rete finanziaria dei Rothschild ci fa la guerra e non è un caso: il premier non fa parte della loro élite
 
Adolfo Spezzaferro
L'ennesimo attacco dell'Economist a Silvio Berlusconi arriva puntualissimo: all'indomani delle amministrative e all'alba del referendum. Ma perché la Bibbia del liberismo ce l'ha così tanto con il nostro presidente del Consiglio? Davvero perché - come dice il Cav, che l'ha ribattezzato Ecommunist - è di sinistra? Diciamo che la questione è molto più complessa: non è che se al governo in Italia (come in qualsiasi altro Paese) ci fosse un politico di sinistra nemico dell'Economist (Chavez, per esempio) la testata allora sarebbe di destra. Certo è però che la sinistra di Prodi-Bersani gli piaceva tantissimo. Perché? Più in generale, per capire quali sono le ragioni di tanto accanimento contro il premier (a parte quella palese delle vendite: il personaggio Berlusconi stuzzica la gente di mezzo mondo) basta scoprire quale è l'obiettivo principale di questo settimanale da salotto super esclusivo e, soprattutto, chi lo controlla.

La Bibbia del libero mercato
Fondato a Londra nel 1843, The Economist è l'altoparlante più prestigioso del liberismo, l'alfiere della finanza globale e delle mega-corporazioni. Nato come testata conservatrice in materia fiscale, promulga quel liberismo sociale che tanto piace alla sinistra mondiale, dal Regno Unito agli Stati Uniti, passando naturalmente per l'Italia. Di volta in volta, comunque, sostiene candidati di destra e di sinistra, a seconda di chi fa i suoi interessi o meno. Periodico da un milione di copie, non si occupa di sola finanza e nel tempo ha assunto posizioni in favore del matrimonio degli omosessuali, della guerra in Iraq (ma è contro la pena di morte), della legalizzazione delle droghe, dell'ingresso della Turchia nella Ue.
Insomma, secondo l'opinione dell'ex direttore Bill Emmot (l'unico straniero ad aver ricevuto il premio "È giornalismo", assegnato da Bocca, Aneri, Maltese, Riotta e Stella) «l'orientamento dell'Economist è sempre stato liberale, non conservatore». Ma - come è noto - il direttore neanche firma il giornale, così come nessun altro. Questo a ribadire un concetto alla base della linea editoriale, e cioè che l'unica firma, l'unico brand è la testata (e chi la controlla). Riferimento autorevole per schiere di uomini d'affari (vende soprattutto negli States, oltre che a casa sua), The Economist è la versione settimanale del Financial Times, per intenderci. Ma con più potere, perché è trendy, è radical-chic. Insomma, non può mancare nella ventiquattr'ore griffata della sinistra-champagne, soprattutto tra i provincialissimi italiani. Chi non lo legge è out, chi viene attaccato è out: questa è la regola. Berlusconi è quindi un nemico giurato per almeno una (fondamentale) ragione: non consegna in mani straniere aziende strategiche italiane, non fa una politica estera o energetica Economist-compliant. Soprattutto, il Cav non è del giro delle famiglie giuste. È out proprio di nascita.

La rete mondiale dello Scudo Rosso
The Economist è di proprietà della famiglia più potente del pianeta, i Rothschild. I banchieri originari della Germania, controllano l'oro (e il suo prezzo, da sempre) e una serie di asset strategici da far tremare i polsi: nell'editoria hanno anche il Daily Telegraph e Libération, poi controllano British Petroleum, Rit Capital, Atticus Capital, Jnr Limited, la banca d'affari Nm Rothschild&Sons, Vanco, Trigranit, Rio Tinto. Sono presenti in De Beers (quella dei diamanti), British Telecom, France Telecom, Deutch Telekom, Alcatel, Eircom, Mannesmann, At&t, Bbc, Petro China, Petro Bras, Canal +, Vivendi, Aventis, Unilever, Royal Canin, Pfaff, Deutch Post. In Italia (dove arrivarono nel XIX secolo) sono presenti in Tiscali, Seat Pagine Gialle, Eni, Rai, Finmeccanica, oltre che ovviamente in quasi tutte le banche, da Intesa a Monte Paschi.
Fondata da Mayer Amschel Rothschild, (1744-1812), grazie ai suoi cinque figli la dinastia (tanto potente da ottenere il riconoscimento nobiliare) si è espansa da subito nel mondo: Amschel Mayer rimase a Francoforte, Salomon Mayer si piazzò a Vienna, Nathan Mayer a Londra, Calmann Mayer a Napoli, James Mayer a Parigi. Dei cinque rampolli il più promettente è Nathan: per dirne una, finanziò Wellington a Waterloo e vinse il contratto per i pagamenti dei tributi agli alleati europei. Lui è il fondatore della banca d'affari omonima, oggi leader in fusioni e acquisizioni. Nathan (che sposò Hannah Barent Cohen, figlia di uno dei più ricchi mercanti ebrei londinesi) divenne tanto facoltoso da essere una voce del Pil britannico, lo 0,62 per cento delle entrate dello Stato.
I Rothschild (scudo rosso, in tedesco, dall'insegna della bottega di un loro avo) sono i campioni assoluti del capitalismo e dominano la scena globale dall'Ottocento: hanno costruito le ferrovie di mezzo mondo; sono abilissimi nell'aggiudicarsi la ricostruzione post-bellica, a partire dalla Grande Guerra; hanno finanziato le banche centrali di diversi Paesi; controllano una rete finanziaria e di potere in continua espansione e sono in tutti i Cda che contano. Insomma, possono far vincere le elezioni presidenziali Usa al loro candidato come sono in grado di far cadere un governo troppo protezionista. Sono intoccabili, tanto che nell'era del gossip - dove siamo bombardati da immagini e informazioni sulla vita privata di tutti i vip, piccoli e grandi - di loro non si sa nulla. Se non quali aziende rientrano nella loro rete, basta andare sul sito di famiglia. Un dettaglio illuminante: forse sono talmente potenti da controllare persino i gossip? E questa, ovviamente, è una domanda retorica.
Ecco perché nel caso dell'Economist non vale la vecchia regola secondo cui la stampa internazionale parla della politica italiana per bocca di corrispondenti salottieri amici di quella sinistra bene che considera out Berlusconi e chi lo vota. Qui non possiamo limitarci a dire che l'amico italiano "spiega" lo scenario politico all'amico giornalista straniero e poi esce un pezzo contro il Cav. Qui la questione è evidentemente più delicata. Il brand Economist è in realtà una macchina da guerra, che da anni boccia qualsiasi provvedimento dei vari governi Berlusconi, a prescindere. Perché, appunto, è in corso una guerra contro di noi. Qui sono in gioco la strategia energetica nazionale, i rapporti con la Russia, il ruolo chiave nel Mediterraneo, il debito sovrano e il suo rating. A meno che non arrivi un sinistro illuminato che privatizza pure il Colosseo. Allora viva l'Italia, titolerebbe l'Economist.

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