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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
00.01.2002 01-2002 Equazioni cristiane...
Gaza viene descritta come un "il più grande lager del mondo"

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 00 gennaio 2002
Pagina: 1
Autore: Alberto Bobbio
Titolo: «IL MURO DI GAZA»
E' ormai acquisito che il moderno antisemita si mascheri da antisionista o antiisraeliano. Nessuno mette in dubbio le grandi sofferenze che stanno patendo i popoli palestinese ed israeliano, ma l'articolo di Bobbio non parla di questo, e' semplicemente un triste esempio di pessimo giornalismo, di falsita', della piu' bieca malafede: - Gaza viene descritta come un "il più grande lager del mondo": ed ecco che scatta immediatamente l'uguaglianza, completamente falsa nei fatti, "israeliani=nazisti";
- e' affermato che i palestinesi vivono nei territori in regime di "apartheid": ed ecco che scatta immediatamente l'uguaglianza, completamente falsa nei fatti, "Israele=Sud Africa ai tempi dell'apartheid";
- e' affermato che i palestinesi non hanno cibo, acqua, casa, educazione, lavoro a causa degli israeliani: non una parola sul fatto che l'Autorita' palestinese, responsabile di parte dei Territori occupati, non muove un dito per aiutare il proprio popolo a progredire, ne' spende per esso i soldi forniti dall'Europa, dispersi nella corruzione; non una parola sulla recente intifada, preparata a tavolino dalla leadership palestinese, che ha causato le sofferenze attuali del popolo palestinese ed il grosso aumento della disoccupazione; non una parola sui finanziamenti dati da Israele ai palestinesi per l'educazione e su quelli europei, usati per stampare libri di scuola che inneggiano all'odio;
- Israele viene descritto come due stati in uno: "Stato degli ebrei" e "Stato dei non-ebrei", ovvero i Territori palestinesi: un'affermazione completamente falsa. Non una parola sul fatto che sono cittadini israeliani ebrei, ma anche cristiani, musulmani, drusi e tanti altri; non una parola sul fatto che Israele e' l'unica democrazia del Medio oriente, l'unico paese della regione in cui c'e' liberta' di culto, di parola, di pensiero;
- viene descritta la difficolta' con cui si passano i check point israeliani, ma non viene spiegato che quei controlli sono tanto precisi e fastidiosi perche' ogni giorno in Israele c'e' il pericolo che un terrorista si faccia esplodere uccidendo civili innocenti e gettando vergogna e discredito su un popolo arabo che sembra non avere la forza di dissociarsi completamente da simili comportamenti che hanno in spregio la vita umana;
- Israele viene accusata di aver distrutto l'economia palestinese, quando invece ha finanziato molte iniziative per risollevare la loro economia, nella speranza che una stabilita' economica avrebbe potuto portare la pace. Se i fondi destinati ai palestinesi fossero davvero utilizzati per loro, e se i palestinesi che possono permetterselo - e che non mancano - investissero nella loro terra, la situazione dei palestinesi potrebbe migliorare sensibilmente, come e' successo per gli attuali israeliani che resero ospitale e verde una terra che era arida e spoglia; Bobbio usa la vecchia e ridicola teoria che qualsiasi cosa accade ai palestinesi e' colpa degli israeliani, non importa che i palestinesi abbiano una leadership ed un territorio da amministrare: comunque tutto e' sempre colpa di Israele;
- e' scritto che "i soldati al check point qualche volta si divertono a umiliare i palestinesi in attesa" come se i soldati israeliani fossero li' per divertimento, come se la loro vita non fosse ogni momento in pericolo, come se ogni giorno non ci fosse un attacco contro qualcuno di loro, come se fossero dei sadici aguzzini, come i nazisti, come i soldati israeliani (finti) nel video mandato ripetutamente in onda dalla TV palestinese di Arafat, in cui si divertono a violentare una ragazza palestinese sotto gli occhi dei genitori: scene raccapriccianti, ma assolutamente false, che pero' contribuiscono a quell'incitamento alla violenza che Arafat aveva detto che avrebbe abbandonato nei lontani accordi di Oslo;
- si condannano gli israeliani che distruggono i frutteti dei palestinesi: non una parola sul fatto che proprio dietro quegli alberi si nascondevano i cecchini che sparavano contro i soldati israeliani;
- i soldati israeliani vengono accusati di sparare per uccidere (colpiscono nelle parti alte del corpo), mentre non fanno altro che difendersi dagli attacchi palestinesi; ed i palestinesi che sparano agli israeliani, chissa' perche' lo fanno! Ed intanto Bobbio da' spazio ad ogni falsita', compresa quella che i palestinesi non hanno armi (che sono state ben riprese dai giornalisti, mentre davanti, in mezzo al fuoco, c'erano i ragazzini che tiravano pietre);
- nell'articolo non c'e' una parola sul fatto che durante tutte le guerre che hanno portato Israele ad occupare i territori, Israele e' sempre stata attaccata ed ha semplicemente applicato il diritto (solo per gli altri, secondo Bobbio) di difendersi;
- Padre Manuel, cristiano, viene descritto da Bobbio come un "resistente accanto al popolo palestinese", ed ha regalato una Bibbia ai capi di Hamas. Chissa' cosa ha regalato ai Tanzim quando entravano nelle case dei cristiani di Bet Jalla sparavano contro Ghilo,quartiere di Gerusalemme, provocando il fuoco di risposta contro le case dei cristiani di Bet Jalla. I cristiani ovunque nel mondo sono le prime vittime dell'estremismo islamico, ma il Vaticano tace, anzi, cerca di favorire improbabili momenti di incontro. Ed intanto dai rapporti sulle persecuzioni religiose nel mondo risulta che i cristiani sono i credenti piu' perseguitati nel mondo. Ma il Vaticano tace. E Bobbio lo aiuta. Non credo proprio che Gesù si riferisse a questo - ovvero tacere sulle ingiustizie subite a completo vantaggio dell'aggressore - quando diceva di porgere l'altra guancia.



da FAMIGLIA CRISTIANA N.1 2002

2002 ANNO DI PACE?
DAI NOSTRI INVIATI NELLA "STRISCIA DELLA VERGOGNA",
DOVE SI VIVE COME IN UN LAGER

IL MURO DI GAZA

Sei o sette chilometri di larghezza, 48 di lunghezza, tra il deserto del
Negev e il mare: zona di guerra e dolore, dove i diritti della
popolazione palestinese sono palesemente calpestati.

Rafiah (Striscia di Gaza)


L’autista ferma l’auto e dice: «I can’t go on, sorry». L’autista ha paura per sé e per noi lungo questa strada dove si inciampa sugli spezzoni dei missili e si balla su un tappeto di bossoli. Il confine con l’Egitto è là in fondo, oltre le macerie, le case accasciate, i negozi con tutta la mercanzia di fuori, i cavi elettrici penzolanti, il filo spinato e il muro di cemento.

Finisce qui il più grande lager del mondo, 48 chilometri di lunghezza e sei, sette di larghezza tra il deserto del Negev e il mare, Regno di Davide per Israele, fettuccia di dolore per i palestinesi, marchiata dall’apartheid e strangolata da una morsa economica che nega ai palestinesi il diritto al cibo e all’acqua, alla casa, all’educazione, al lavoro.

La Striscia di Gaza conta la più alta densità al mondo di abitanti per chilometro quadrato: 2.594. Ma un milione e 200 mila palestinesi sono oggi costretti a vivere sul 65 per cento del territorio della Striscia, mentre 6.000 coloni ebrei, protetti da centinaia di carri armati e da migliaia di soldati, ne occupano il restante 35 per cento.

Bisogna percorrere la Striscia di Gaza fino in fondo, con il cuore in tumulto, i fischi delle pallottole e dei missili nelle orecchie, i tonfi delle bombe che sbriciolano le case, i pianti dei bambini, la rabbia degli uomini, la disperazione delle donne, per capire qual è oggi la questione palestinese e anche qual è la questione israeliana, per rendersi conto che c’è uno Stato degli ebrei e uno Stato dei non-ebrei, sottoposti a punizioni collettive e a umiliazioni.

Non basta andare a Betlemme, a Hebron, a Ramallah, a Jenin, a Nablus. Bisogna scavalcare il passaggio di Eretz e vivere qualche giorno nella Striscia della vergogna per accorgersi che finché esisterà il tabù di Gaza ogni processo di pace è destinato a fallire.

La porta della prigione si trova un centinaio di chilometri a sudovest di Gerusalemme. Si passa a piedi, prima i controlli israeliani, poi 200 metri lungo una strada ai cui lati ci sono torrette con le mitragliatrici, bunker, carri armati interrati, soldati dappertutto, ostacoli di cemento. Si passa mostrando le credenziali della stampa internazionale.

Di qui non entra nessuno: solo giornalisti e diplomatici. Per tutti gli altri occorre un permesso speciale che Tel Aviv di solito non concede. Il posto di controllo palestinese è dentro una garitta di lamiera. L’ufficiale di Arafat sorride quando vede che siamo italiani. Il taxi fila verso Gaza, 10 chilometri più avanti. La Striscia venne istituita dagli accordi di pace tra Egitto e Israele del 1949: amministrazione egiziana, anche se metà della sua popolazione era formata da palestinesi rifugiati qui dopo la conquista della Palestina da parte di Israele nel 1948, occupata da Tel Aviv nella Guerra dei Sei giorni, culla della prima Intifada nel 1987, restituita ad Arafat dopo gli Accordi di Oslo, ma quasi sempre chiusa da Israele per paura del terrorismo, degli attentati.

Terra di frustrazione e radicalismo

Oggi nella Striscia, dopo un anno dall’inizio della seconda Intifada, si conta la maggior parte dei morti e dei feriti palestinesi. E la frustrazione provocata dall’apartheid di Israele, che ha insediato 34 colonie su un fazzoletto di terra e ha distrutto l’economia locale, ha fatto aumentare in questi mesi il radicalismo islamico e gli uomini votati al martirio.

Lasciamo Gaza e proseguiamo verso Sud, lungo la via per l’Egitto. Il posto di blocco israeliano filtra le auto e nessuno può svoltare verso l’insediamento di Netzarim. A sinistra ci sono i resti di un posto di controllo della polizia palestinese centrato dalle cannonate.

Si combatte lungo tutta la Striscia. Qui si consumano le rappresaglie israeliane. Il 70 per cento delle sedi della polizia dell’Autorità palestinese è stato distrutto. Anche la caserma per l’addestramento delle reclute di un esercito previsto dagli accordi di pace è stata rasa al suolo dalle ruspe israeliane il 12 agosto scorso. I villaggi che separano Gaza (700 mila abitanti) da Khan Yunis, la seconda città più importante della Striscia con 400 mila abitanti, erano tutti campi profughi che i rifugiati hanno reso un poco più decenti con gli anni.

Poco più avanti c’è l’insediamento di Ekfar Darom, case bianche di coloni costruite da una parte e dall’altra della strada e collegate da un ponte. Prima si passava sotto. Ora hanno chiuso la strada. Questo posto si chiama Der el balah, ricovero dei datteri. Si passa in mezzo al suk con le auto e i camion e si torna sulla strada principale alle spalle dell’insediamento israeliano.

C’è un semaforo davanti a una mitragliatrice puntata sulla coda di auto. L’altro giorno hanno sparato a un tale che si era fermato due metri più avanti. L’hanno ucciso. La precedenza va alle auto israeliane che si spostano da un insediamento a un altro. La strada è divisa in due da un muro di cemento alto tre metri: da una parte passano i coloni, dall’altra i palestinesi. I soldati al checkpoint qualche volta si divertono a umiliare i palestinesi in attesa. Fanno scendere sette uomini da un pulmino davanti a noi: mitra spianati, risate di scherno mentre gli uomini sono costretti a spogliarsi e camminare nudi fino al posto di blocco successivo, quello che protegge l’insediamento di Gus Katif, un chilometro più avanti.

Attorno è tutto arido, spianato dalle ruspe e dai carri armati. Lungo la strada una volta c’erano case, terreni coltivati a verdure, aranceti, ulivi secolari. Tutto è stato raso al suolo, per motivi di sicurezza, dice Israele.

Ma la realtà è diversa: la distruzione delle colture mina l’economia locale e i palestinesi sono costretti a comprare tutto da Israele, compresi i prodotti di prima necessità.

Spiega Abu Mohamed El Bakri, capo della sezione di Gaza del ministero dell’Agricoltura dell’Autorità palestinese: «Hanno distrutto mille ettari di coltivazioni, spazzato via tutto il sistema irriguo, riempito di sabbia decine di pozzi d’acqua. Non è un problema si sicurezza: dietro alle piantine di fragole e nei campi di patate, come possono nascondersi i terroristi?».

L’approvvigionamento idrico è il problema principale, insieme all’energia elettrica, degli abitanti palestinesi della Striscia di Gaza. E lo è dall’inizio dell’occupazione israeliana. Sono stati scavati per i coloni negli ultimi 20 anni 40 nuovi pozzi, ai palestinesi ne hanno chiusi 120. Un palestinese, per legge non può utilizzare più di 300 metri cubi di acqua per irrigare un ettaro di aranceto, mentre un colono ebreo non ha limiti di utilizzo dell’acqua nemmeno per la sua piscina personale. La crisi agricola, la chiusura delle poche industrie locali, il blocco del territorio che impedisce ai palestinesi di andare a lavorare in Israele, hanno portato la disoccupazione all’80 per cento: «Poi», dice il funzionario del ministero, «il mondo si stupisce se tra i giovani cresce la voglia di immolarsi per la propria terra».

La chiamano no man land, la terra di nessuno attorno agli insediamenti dei coloni. A Rafiah si sono presi tutto il lungo mare. E sulle dune sono piazzati i carri armati. Il confine con l’Egitto è vigilato dagli israeliani, perché lo Stato palestinese non c’è. La città è divisa da un muro che spacca le famiglie e gli affetti: proprio come a Berlino.

L’odio è l’unico bene di consumo

Per raggiungere la Rafiah egiziana i palestinesi attendono alla frontiera anche tre o quattro giorni e per rientrare anche una settimana. È la città che conta il maggior numero di morti durante i mesi di Intifada: 84, metà bambini, e oltre 1.500 feriti. Spiega il dottore Ali Ibrahim Mussa, direttore dell’ospedale: «La maggior parte è ferita alla testa, al torace o alle mani, quando va bene, segno che i soldati israeliani sparano sempre per uccidere».

L’ultimo morto di Rafiah è un handicappato, che camminava con due stampelle. Le case distrutte lungo la linea di confine e lungo le dune sono 165. Il quartiere di Tel Zoro è ridotto in briciole. Le scritte sui muri inneggiano ai martiri e alla Jihad, la guerra santa. I giovani chiedono se siamo americani: «I terroristi sono gli israeliani. Noi non abbiamo armi contro i carri armati. Se le avessimo, la guerra sarebbe senza quartiere».

L’odio è l’unico bene di consumo, le raffiche l’unico suono nella notte di Rafiah. Il villaggio dei bambini della Caritas francese accoglie piccoli palestinesi con la bocca da fuoco di un carro armato puntata sulla porta da meno di 50 metri. Un giovane sfida i carri e le mitragliatrici: «Eccoli, li potete quasi guardare negli occhi i soldati di Dio, gli eredi del popolo eletto». Lancia una pietra e corre via. Torniamo verso Gaza.

A Khan Yunis la gente fa la fila davanti a una delle poche fontane con l’acqua potabile, dono del Governo italiano. Hanno raso al suolo tutte le case del Profitis Camp. La gente ha alzato tende bianche sulle macerie. Manca l’orizzonte, chiuso da un muro alto 10 metri con sopra vetri antiproiettili. Dietro, abitano i coloni. Qualcuno spara dall’alto sulle macerie dove giocano i bambini. Sono le tre del pomeriggio.

Attraversiamo campi e raggiungiamo il mare. In cielo volano gli F16. Due botti in successione e due case vanno in frantumi a Nuseirat, accanto alla strada. I bambini hanno paura del rumore degli aerei, piangono.

Le suore di Madre Teresa di Calcutta, a Gaza da 28 anni, stringono forte al petto i piccoli handicappati quando arrivano gli aerei e i tonfi delle bombe scuotono i vetri. Bombardano i dintorni di Gaza, questa notte. La rabbia è tanta e neppure Arafat riesce a controllarla. «Ma non è vero che questa gente è contro il presidente», spiega padre Manuel Musallam, parroco di Gaza, autorità indiscussa per tutti i palestinesi, anche se qui i cattolici sono 150. «La gente non può far altro che resistere. Ai capi di Hamas ho regalato una Bibbia. Li ho scongiurati di stare attenti a non provocare una guerra civile tra i palestinesi, che è quello che vuole Israele».

Padre Manuel racconta una vita di resistenza accanto al popolo palestinese. Anni fa a Jenin lo hanno anche arrestato. Ora è prigioniero di Gaza. Dirige la scuola cattolica frequentata da 1.500 alunni. Va avanti con fatica: «Cerco di tenere vicini i giovani. La resistenza è legittima quando si tratta della giustizia, ma bisogna trovare il giusto mezzo. Io non mi posso permette di avere paura, di perdere la speranza, di perdere la fede. Io voglio resistere a chi vuole per sé, solo per sé, la nostra terra e il nostro cielo. Noi combattiamo per la pace. Continueremo a farlo finché non ci sarà riconosciuto il diritto di esistere».

Il passaggio di Eretz, il muro di Gaza, si chiude dietro di noi, dopo accuratissime ispezioni. La repressione israeliana esaspera la rivolta e inganna la pace.


Alberto Bobbio


direzionefc@stpauls.it

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