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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
15.07.2021 La storia dell'ultimo ebreo in Afghanistan
Commento di Sergio Ramazzotti

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 15 luglio 2021
Pagina: 44
Autore: Sergio Ramazzotti
Titolo: «L'ultimo ebreo dell'Afghanistan se ne va»
Riprendiamo da FAMIGLIA CRISTIANA di oggi, 15/07/2021, a pag. 44, con il titolo "L'ultimo ebreo dell'Afghanistan se ne va", l'articolo di Sergio Ramazzotti.

L'ultimo ebreo di Kabul | Mosaico
Zabolon Simantov

L’uomo più solo del mondo vive in pieno centro, in un appartamento al primo piano, in una città di oltre quattro milioni di abitanti. Ogni giorno ha tre sole incombenze: prepararsi i pasti, prendersi cura della pernice che tiene in una gabbia, dare una spazzata al pavimento della vecchia sinagoga a fianco del suo appartamento. Il suo nome è Zabolon Simantov, figlio di Jacoub, nato nel 1959. Il motivo della solitudine: la città è Kabul, lui è ebreo. Anzi, come egli stesso sottolinea, l'ultimo ebreo rimasto in Afghanistan. Che molto presto sarà anche l'ultimo ad andarsene, probabilmente. Per non tornare mai più. Incontrai Simantov a casa sua un giorno d'estate del 2009. Trovarlo non fu difficile: tutti i negozianti di Flower Street, la via dei fioristi dove un tempo viveva e lavorava una comunità ebraica di parecchie centinaia di persone, conoscevano "Zabolon l'ebreo" e uno di loro mi accompagnò di fronte alla sua porta, in una casa di ringhiera con le pareti sgretolate da decenni di incuria. Zabolon mi invitò a entrare — una stanza di quattro metri per quattro che in effetti era parte della sinagoga, un tavolo, tre sedie di plastica, un vaso con tre rose finte, un materasso arrotolato nell'angolo che di sera diventava la camera da letto —, mise a scaldare l'acqua per il tè sul fornellino a gas, ascoltò quel che avevo da chiedergli, fece il prezzo: «Per raccontare la mia storia voglio cento dollari». Il mio interprete si scandalizzò: «È quanto prende al mese un poliziotto», disse a bassa voce. Si guardò intorno, valuto con occhio critico la povertà tangibile della stanza, mi esortò a contrattare. Lo feci senza convinzione. Zabolon l'ebreo accettò la controfferta al primo colpo.

L'ultimo ebreo di Kabul | Mosaico

Bevemmo il tè senza fretta, quindi lui cominciò a parlare, il respiro reso pesante dal grosso ventre. L'esordio: un gesto verso il poster appeso al centro della parete. Era il ritratto di Najibullah, l'ex presidente filosovietico trucidato dai mujaheddin. Zabolon gli schioccò un bacio, poi disse: «Sotto di lui stavamo bene, gli ebrei erano benvoluti e lasciati in pace, in tutto il Paese ce n'erano almeno cinquemila. Altri tempi». Sospirò, si versò un'altra tazza di tè, si pulì le mani sul caftano sudicio, sintetizzò la storia dell'Afghanistan degli ultimi vent'anni. Le conseguenze: «Di tutti quegli ebrei, nel Novantasei, l'anno che andarono al potere i talebani, eravamo rimasti soltanto in due: io e Yitzakh Levin. Gli altri erano fuggiti in massa». Questa parte della storia, nonostante i protagonisti fossero ridotti a due (o forse proprio per questo), è la più intrigante, al punto che nel 2006 ha ispirato una pièce teatrale rappresentata nel Regno Unito: Levin è l'anziano custode della sinagoga, e a un certo punto le circostanze lo costringono a condividere con Simantov l'angusto appartamento di Flower Street, dove i due litigano spesso. La rottura definitiva arriva quando Simantov si offre di aiutare Levin a emigrare in Israele, perché, mi disse, «credevo che gli inverni a Kabul fossero troppo rigidi per un povero vecchio come lui, e inoltre pensavo gli avrebbe fatto pia cere ricongiungersi con gli amici fuggiti da tempo». Levin la prende male, pensando che il compagno di stanza voglia usurpargli il diritto di custodia della sinagoga, e lo denuncia ai talebani con la falsa accusa di essere una spia al soldo di Israele. L'altro reagisce sostenendo che Levin gestisce un bordello, predice il futuro a pagamento e vende amuleti magici alle donne afghane. Come prevedibile i talebani, che fino a quel momento avevano ignorato i due considerandoli innocue macchiette, se li tolgono di torno sbattendoli in galera. Non è chiaro quanto tempo ci abbiano passato. Simantov non me ne parlò volentieri, limitandosi a dire di essere stato torturato a frustate. Quel che è chiaro è che una mattina di gennaio del 2005, quando i due erano stati da tempo scarcerati dai talebani che non sopportavano più i loro litigi, Levin, che aveva superato gli ottant'anni, venne trovato morto (si presume di vecchiaia). Lapidario, a proposito, il commento di Simantov: «Non ho certo versato lacrime». Così, da quel momento Zabolon non è semplicemente "l'ebreo': bensì "L'Ebreo':l'ultimo rappresentante del popolo eletto in Afghanistan, risoluto a rimanerci per il resto della vita. O perlomeno, così era nel 2009.

Qualche settimana fa, invece, Zabolon ha annunciato la sua intenzione di lasciare Kabul e tornare in Israele, dove vivono sua moglie e le due figlie che ha visto per l'ultima volta nel 1998, quando la situazione in Afghanistan cominciava a essere pesante e lui le fece fuggire. Stavolta la prospettiva del ritorno al potere dei talebani e del definitivo ritiro delle truppe occidentali innervosisce anche lui. Eppure quel giorno nella sinagoga disse in tono categorico: «Qui sono nato e qui voglio morire». In realtà, poco prima aveva detto di essere venuto alla luce in Turkmenistan, o forse in Tagikistan, ed ecco che d'improvviso sosteneva che la sua città natale era Herat, Afghanistan occidentale. Il mio interprete, attento a non farsi notare, si era battuto delicatamente l'indice sulla tempia. Possibile che la solitudine avesse intaccato le facoltà mentali, anche se Simantov, per quanto vivesse in isolamento, sembrava benvoluto dagli abitanti del quartiere che ogni tanto, raccontò, gli regalavano denaro per tirare avanti, e lo salutavano a gran voce quando si affacciava in strada. Ovunque sia nato, Simantov, figlio di un rabbino a sua volta figlio di un rabbino, cittadino afghano, non è però un rabbino. Lo disse lui stesso, aggiungendo che tuttavia ciò non gli impediva di prendersi cura della sinagoga e di macellare i propri polli secondo le regole kosher, attività che normalmente sono appannaggio esclusivo della gerarchia religiosa: «Date le circostanze, ho ottenuto una dispensa speciale dal rabbino più vicino, che sta in Uzbekistan». Di quando in quando, mi disse, entrava nella sinagoga, scostava le ragnatele dallo stipo a parete rivolto verso Gerusalemme, ne estraeva lo shofar — il tradizionale corno di ariete usato per il richiamo alla preghiera del sabato — e lo suonava. Sapendo che, come accadeva da vent'anni, non avrebbe ottenuto risposta, che non ci sarebbe stata nessuna funzione, che se anche ci fosse stata lui non avrebbe avuto titolo per officiarla: «Lo faccio solo per mantenere viva la tradizione». Lo fece, una volta di più, anche per me: per mantenere viva la tradizione.

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