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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
29.09.2002 I martiri cristiani e i kamikaze


Testata: Famiglia Cristiana
Data: 29 settembre 2002
Pagina: 20
Autore: Giordano Muraro
Titolo: «I kamikaze non hanno nulla da spartire coi martiri.»
Nella rubrica Il Teologo di Famiglia Cristiana del 29 settembre 2002 è pubblicato un articolo a firma di Giordano Muraro.
L’articolo è un commento duro ed in alcuni passaggi addirittura velenoso di uno splendido pezzo di Fiamma Nirenstein, giornalista inviata a Gerusalemme per La Stampa, apparso l’11 settembre a pagina 7 dal titolo "Terroristi, monaci del nostro tempo".

L’articolo del teologo Muraro induce a profonde riflessioni sia per le affermazioni distorte che vi sono contenute sia per il fatto che tali menzogne vengono "assorbite" da un pubblico già tendenzialmente antisemita e antisraeliano.

Innanzitutto Muraro ha letto l’articolo della Nirenstein molto superficialmente, non ha capito nulla del messaggio che vi era contenuto e di conseguenza ne ha dato un’interpretazione ottusa e fuorviante, fornendo quindi in prima persona un perfetto esempio di quel "pressappochismo" di cui accusa la giornalista.

Riteniamo opportuno riportare le parti più salienti di entrambi gli articoli per consentire ai lettori di Informazione Corretta una valutazione la più obiettiva possibile.

Giordano Muraro.

"Una frase attribuita al filosofo Heidegger recita: "Viviamo nell’era del pressappochismo, del si dice. Il pressappochista si ferma alla superficie delle cose e le giudica in base a elementi superficiali senza usare l’intelligenza , che permette di leggere dentro le cose e gli avvenimenti". Così genera confusione, anche se è convinto di dare un apporto alla verità. Un esempio recente è quello della giornalista che ha denominato il gesto dei kamikaze col termine "martirio", cosa che potrebbe indurre a pensare che il kamikaze è equiparabile al martire cristiano.

E’ un modo pensare che nasce solo da chi ignora cos’è il cristianesimo.

La presunzione di Muraro è senza limiti. Non solo non ha capito nulla di ciò che ha scritto la giornalista, ma l’ultima frase ha un’evidente connotazione antisemita: poiché la Nirenstein è ebrea – ed il teologo non può ignorarlo - è "ovvio" che ignori cos’è il cristianesimo!

Fra l’altro anche i bambini palestinesi conoscono il termine "sahid"= martire e lo utilizzano in maniera corrente per definire i kamikaze che si fanno saltare in aria.

La Nirenstein utilizza il termine "martire" sempre fra virgolette e per chi legge i suoi articoli non c’è alcuna possibilità di confusione: i kamikaze che si votano al "martirio" sono solo feroci assassini e nulla hanno a che vedere con i martiri della cristianità.

Viene spontaneo chiedersi se il teologo abbia mai letto le ottime analisi politiche di Fiamma Nirenstein.

"Tra i martiri e i kamikaze non c’è alcuna identità o analogia. Sono due realtà totalmente diverse."
E la Nirenstein non ha mai affermato il contrario
"Si potrà obiettare che entrambi muoiono per una causa. Neppure questo è vero, perché il martire cristiano non muore per una causa: il cristianesimo non è una causa da difendere o un insieme di valori da vivere, o di precetti da osservare; ma è una relazione totale e fedele ad una Persona alla quale l’uomo affida la propria vita. L’amore è il principio che anima tutte le azioni del cristiano, anche quella del martirio. Il suo modello è Cristo che da la vita per l’amico. Per questo non ha senso equiparare il kamikaze al martire cristiano.

Il kamikaze decide di morire perché pensa che il suo sacrificio permetterà al suo popolo di avere una patria. E’ mosso dall’ideale di una patria ed è spinto dall’odio contro il nemico"

In realtà è spinto dall’odio verso l’altro che spesso si identifica con l’"ebreo".
"Dalla certezza che il suo sacrificio verrà compensato con un luogo di delizie. Il martire cristiano si muove su un piano totalmente diverso. Non si uccide e non uccide, ma accetta di perdere la vita perché non vuole tradire e perdere Colui che gli ha dimostrato tanto amore da dare la vita per lui.

Se poi scaviamo nell’anima del singolo kamikaze, possiamo trovare motivazioni che dimostrano forza e coraggio"

Ci vuole un coraggio davvero ammirevole per guardare in faccia un bimbo che mangia un gelato e sapere che di lì a due minuti il suo piccolo corpo sarà fatto a brandelli.

Ma, in definitiva, ce l’hanno un’anima quegli assassini nella quale sia possibile scavare??

"Ma che non giustificano i mali prodotti"
E neppure si può giustificare chi cerca a tutti i costi di trovar loro una giustificazione "morale" per la loro malvagità.
Fiamma Nirenstein

Il terrorismo più che un’arma è un mondo, un universo ideologico e pratico in sé, autoreferente, un’ispirazione, un’educazione anche scolastica e di massa a ciò che viene chiamato "martirio", ovvero l’offerta della vita in nome di un principio superiore. Saddam ha ben intuito che donare 25 mila dollari a ogni famiglia di terrorista palestinese dona significato universale al suo accumulo di armi biologiche e chimiche e al rifiuto delle ispezioni occidentali. Il terrorismo è un movimento universale, di valori, di modo di vivere (i terroristi sono oggi monaci ben diversi dagli smodati Carlos comunisti di un tempo), cui noi abbiamo da opporre, oggi che non abbiamo ancora regole per combatterlo, il nostro universalismo. Esso si chiama oggi come ai tempi della Guerra Fredda "democrazia" e quella guerra l’abbiamo vinta.

Il terrorismo secondo la definizione concordata dai più eminenti studiosi consiste nella scelta deliberata, strategica, di colpire civili per propri fini politici. Tutti i terrorismi spostano la guerra sul terreno della società, e cercano di spezzarla. Un altro dato comune: i militanti, i miliziani come li chiamiamo, i terroristi stessi, sono anch’essi dei civili, nel senso che la loro vita è apparentemente identica a quella delle loro vittime; e anzi si serve di un terzo gruppo di civili, quelli in mezzo ai quali si nascondono, per perpetrare le loro azioni. Civili e ancora civili: il campo di battaglia con il terrorismo è spostato tutto necessariamente fra la gente, e questo ci confonde terribilmente: ancora non abbiamo regole né ispirazioni sufficienti per capire come si guerreggia fra civili senza colpirli. Per cui variamo da un istintivo "ammazza ammazza" nel momento più caldo, fino ad una virtuosa polemica garantista, certo lodevole quanto vuota di pensiero e di risultati specifici contro il terrore. Questo di nuovo vale per tutti i terrorismi: le organizzazioni per i diritti umani e civili conoscono il modo di difendere la società dalle istituzioni (governi, eserciti) che combattono contro il terrore, ma non sanno che proporre "appeasement" con il terrorismo stesso per cercare di farlo finire. Non funziona, non può funzionare: il terrorismo non è affatto interessato alla pace in quanto tale, come lo siamo noi dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo la fine della Guerra Fredda. Al contrario: per i terrorismi è il momento di attaccare, non c’è offerta che lo possa placare, non c’è vantaggio territoriale né segno di rispetto che lo convinca. L’avversario deve essere schiacciato. E con lui, quell’insieme di diritti umani e civili che caratterizzano le nostre società: il terrore li attacca tutti insieme non strumentalmente, ma perché li rifiuta, perché il modello sociale che propone è diverso.

Un’altra lezione che si apprende dall’11 settembre sulla definizione di terrore è dentro la storia post Guerra Fredda degli USA: si vede che già dalla fine degli anni 80 essi hanno sofferto di questo fenomeno; che la sua matrice è soprattutto islamica; che proprio negli anni in cui si sente un maggior clima di pacificazione, la sua importanza come simbolo di una vita non voluta, rifiutata, diventa enorme; e l’origine mediorientale del terrore più attivo, evidente. Il dato islamico del terrore come famiglia unitaria è forse il più conturbante, geograficamente per la sua immensa estensione, e ideologicamente perché distrugge la nostra passione occidentale per la diversità; che si sia suggerito che l’amicizia americana per Israele sia ciò che hanno indicato gli USA come obiettivo, è una visione poveramente politica, da ambasciate, che sempre infatti salta in un sol fiato all’idea suggerita a mezza bocca che la prepotenza americana sia in parte causa dell’attacco. Non è così: semmai Israele e America hanno in comune, ancora una volta, un dato inviso al terrorismo: dalla tradizione giudaico-cristiana nasce la democrazia, che non nasce invece dall’Islam. Abbiamo a lungo messo in sottordine il problema della democrazia nei paesi in via di sviluppo, affamati com’eravamo di libertà, pentiti com’eravamo del colonialismo: così l’autodeterminazione si è risolta anche in una vasta rete di regimi che ci odiano e che finanziano il terrore.



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