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Riportiamo da FAMIGLIA CRISTIANA del 27/10/2011, a pag. 50, le interviste di Fulvio Scaglione a Daniel Levy e Sari Nusseibeh titolate " Troppi stati per una terra". La prima osservazione è nella scelta degli intervistati. Daniel Levy è un personaggio ormai fuori da qualunque contesto politico, rappresenta quella sinistra che non ha nemmeno pù la faccia tosta di dichiararsi sionista, è un parto degli accordi di Oslo. Sari Nusseibeh è riuscito ad attirarsi anche gli strali di Haaretz - il che dice tutto su di lui - che in un articolo di Shlomo Avneri ha definitavamente incluso Nusseibeh fra gli intellettuali palestinesi che si oppongono ad un accordo condiviso con Israele. Secondo Fulvio Scaglione, Daniel Levy e Sari Nusseibeh offrono "molti spunti per un modo diverso di affrontare " il conflitto israelo-palestinese. Daniel Levy e Sari Nusseibeh, che abbiamo incontrato durante un seminario dell'Alta scuola di economia e relazioni internazionali dell'Università Cattolica di Milano, ci regalano molti spunti per un modo diverso di affrontare il problema. Daniel Levy le stanze della politica d'Israele le ha visitate tutte: consigliere politico del ministro della Giustizia Beilin (2000-2001), nell'ufficio di Ehud Barak quando questi era primo ministro, nella squadra di negoziatori dell'accordo "Oslo 2" quando il premier era Rabin. Ma non gli manca il gusto dell'opinione controcorrente, maturato forse alla fine degli anni Ottanta, quando era il responsabile dell'ufficio Anti-razzismo dell'Unione degli studenti di Cambridge. Per cui, è proprio da lui dire che «la situazione in Israele, oggi, è simile a quella che si vede in Italia». Sari Nusseibeh, studi a Oxford e dottorato in Filosofia islamica a Harvard, rettore dell'Università palestinese Al Quds di Gerusalemme, già rappresentante dell'Autorità palestinese a Gerusalemme, se lo chiede da qualche tempo. Ha però appena pubblicato un libro (What is a Palestinian State worth?) in cui quelle due domande sono esplicite già nel titolo. Ma come, proprio lui che a suo tempo aveva rischiato la vita proponendo di rinunciare al "diritto al ritorno" per i palestinesi insediati negli altri Paesi del Medio Oriente pur di avere uno Stato? Dobbiamo leggere in questa posizione una critica alla mossa di Abu Mazen, che invece chiede all'Onu di riconoscere lo Stato che ancora non c'è? «No, non è così. Quella di Abu Mazen è stata una buona mossa, se non altro perché ha riportato il mondo a interessarsi del problema palestinese e dell'occupazione di Israele. Ma la mia domanda è: fatta la mossa, che cosa succederà? E la risposta è: nulla, perché la parte del mondo che potrebbe fare qualcosa non ha alcuna intenzione di muoversi. Che cosa vogliamo fare, sprecare altri vent'anni in trattative inutili? Contro la tradizionale soluzione dei due Stati, lo Stato ebraico accanto a uno Stato palestinese, giocano ormai troppi fattori decisivi». — Quali? «Primo, il vuoto politico negli Usa e l'impotenza di Obama. Secondo: l'orientamento prevalente in Israele. Per arrivare a un accordo accettabile dai palestinesi, si dovrebbe produrre un cambiamento di dimensioni enormi, inimmaginabili. Ricorda tutto il rumore che si fece quando Ariel Sharon ritirò 20 mila coloni da Gaza? Bene. Pensi che ora in Cisgiordania vivono 600 mila israeliani, e mi dica se è possibile che si ritirino. E poi anche i palestinesi sono divisi tra loro. L'unica soluzione è cominciare a pensare in modo radicalmente diverso». — E quindi? «La mia proposta è: non più due Stati uno accanto all'altro, ma una federazione di due Stati su una sola terra». — Quale sarebbe il vantaggio per Israele? «La fine del conflitto, naturalmente. Ma la mia idea dovrebbe piacere pure alla destra israeliana, ai politici come Lieberman per esempio, anche per un'altra ragione. I palestinesi, in questo modo, non chiedono né di cacciare gli israeliani dalla Palestina né, soprattutto, di opporsi a che lo Stato ebraico sia, appunto, ebraico». — E per i palestinesi? «La conquista dei diritti civili. Oggi, con l'occupazione israeliana, ne sono per la gran parte privi. Non possono muoversi liberamente all'interno del Paese, non possono entrarvi e uscirne liberamente, le famiglie sono divise, la libertà d'impresa è ovviamente soffocata e così via. E un'occupazione il cui costo politico è a carico di Israele ma il cui costo fisico, personale, ricade sui palestinesi. Nell'idea della federazione io vedo solo vantaggi per tutte le parti. E aggiungo un'altra considerazione. Per molti anni a noi palestinesi è stato detto: non chiedete di diventare cittadini di Israele, abbiate pazienza e con il tempo vi daremo uno Stato. Nel frattempo, è stata piano piano erosa la base, anche territoriale, di questo ipotetico Stato. Bisogna uscire da questa spirale, perché il tempo che passa rende le cose ancor più difficili». — Lei ha detto che l'iniziativa all'Onu di Abu Mazen non porterà a nulla. Non teme una reazione violenta a questo nulla? «No, affatto. Anzi, invito tutti a stare tranquilli: i palestinesi sanno bene che cosa vuol dire l'occupazione, i rischi che si corrono, i limiti a cui bisogna adattarsi. Penso, invece, che la frustrazione renderà ancora meno verosimile la soluzione dei due Stati e più credibile l'idea di una federazione». Per inviare la propria opinione a Famiglia Cristiana, cliccare sull'e-mail sottostante famigliacristiana@stpauls.it |
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