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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
27.10.2011 Sari Nusseibeh e Daniel Levy indicano come cancellare Israele
intervistati da un estasiato Fulvio Scaglione

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 27 ottobre 2011
Pagina: 50
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Troppi stati per una terra»

Riportiamo da FAMIGLIA CRISTIANA del 27/10/2011, a pag. 50, le interviste di Fulvio Scaglione a Daniel Levy e Sari Nusseibeh titolate " Troppi stati per una terra".

La prima osservazione è nella scelta degli intervistati. Daniel Levy è un personaggio ormai fuori da qualunque contesto politico, rappresenta quella sinistra che non ha nemmeno pù la faccia tosta di dichiararsi sionista, è un parto degli accordi di Oslo. Sari Nusseibeh è riuscito ad attirarsi anche gli strali di Haaretz - il che dice tutto su di lui - che in un articolo di Shlomo Avneri ha definitavamente incluso Nusseibeh fra gli intellettuali palestinesi che si oppongono ad un accordo condiviso con Israele.
Piacciono quindi al settimanale cattolico, l'avremmo giurato.

Secondo Fulvio Scaglione, Daniel Levy e Sari Nusseibeh offrono "molti spunti per un modo diverso di affrontare " il conflitto israelo-palestinese.
Secondo Levy, i palestinesi dovrebbero prendere spunto dalla 'Primavera araba', cioè sprofondare in un inverno islamista? Levy, evidentemente, è distratto. In questi giorni tutti i commentatori si sono resi conto dell'abbaglio preso con la 'primavera araba' (fatta eccezione del quotidiano Repubblica. Forse Levy si è informato leggendo gli articoli di Bernard Guetta e Giampaolo Cadalanu?).
Secondo Levy, lo stallo dei negoziati dipende da Israele e dal suo governo, che sarebbero '
per la linea dura'. Rifiutare di cedere ai ricatti dell'Anp significa essere per la linea dura? Nessuna critica ad Mahmoud Abbas che ha fatto tutto quanto in suo potere per minare qualunque negoziato?
Sari Nusseibeh, invece, sostiene che la soluzione migliore sia "
non più due Stati uno accanto all'altro, ma una federazione di due Stati su una sola terra ", uno Stato unico binazionale, insomma, il che comporterebbe la cancellazione di quello ebraico, la soluzione auspicata da tutti gli odiatori di Israele.
Ma per Fulvio Scaglione sono tutti spunti interessanti e diversi. Nessun commento, nessuna critica, solo elogi per i suoi due intervistati. Sulle responsabilità palestinesi non un cenno. Silenzio anche sul fatto che l'Anp non offra mai nulla nell'ambito dei negoziati, nessuna garanzia, solo pretese inaccettabili.
Ecco le interviste:

Daniel Levy e Sari Nusseibeh, che abbiamo incontrato durante un seminario dell'Alta scuola di economia e relazioni internazionali dell'Università Cattolica di Milano, ci regalano molti spunti per un modo diverso di affrontare il problema.

Daniel Levy le stanze della politica d'Israele le ha visitate tutte: consigliere politico del ministro della Giustizia Beilin (2000-2001), nell'ufficio di Ehud Barak quando questi era primo ministro, nella squadra di negoziatori dell'accordo "Oslo 2" quando il premier era Rabin. Ma non gli manca il gusto dell'opinione controcorrente, maturato forse alla fine degli anni Ottanta, quando era il responsabile dell'ufficio Anti-razzismo dell'Unione degli studenti di Cambridge. Per cui, è proprio da lui dire che «la situazione in Israele, oggi, è simile a quella che si vede in Italia».
E cioè? «Ha visto le grandi manifestazioni a Tel Aviv? Le 400 mila persone in corteo? Da noi, come da voi, si avverte un fermento, un vento di cambiamento. La gente scende in strada, chiede un cambio di rotta, ma come e quando questo avverrà, e a quale alternativa farà strada, è per ora impossibile dirlo». — D'accordo con l'analogia. Ma tutto questo in che modo riguarda l'eterno conflitto tra Israele e i palestinesi e la mossa di Abu Ma-zen di chiedere all'Onu il riconoscimento dello Stato di Palestina? «Israele, secondo me, ha ceduto a una sorta di "statolatria" in omaggio alla quale ha perso alcuni dei suoi valori fondativi. Nel Paese, gli spazi di democrazia si sono piano piano ridotti. E questo è pericoloso soprattutto nella situazione attuale, quando cioè nel resto del Medio Oriente la democrazia fa qualche piccolo passo avanti». — Più democrazia non è un vantaggio? «Non necessariamente. Prendiamo la crisi con la Turchia: essa è stata in gran parte causata dal fatto che anche il premier turco Erdogan ora deve fare i conti con un'opinione pubblica che pensa in proprio e a cui deve render conto. In un Medio Oriente che, in un modo o nell'altro, sta cambiando, diventa sempre più difficile per Israele garantire la propria sicurezza con le vecchie strategie e nello stesso tempo essere accettato dal resto del mondo. Il che significa: per il bene di Israele, bisogna risolvere il problema dei palestinesi. Cioè, affrontare seriamente la questione dello Stato». — Come giudica la mossa palestinese di chiedere il riconoscimento dell'Onu? «Molto astuta, anche se non produrrà niente. Proprio per questo, la vera sfida per i palestinesi arriva adesso: controllare l'inevitabile delusione della gente e impedire esplosioni di violenza. Da questo punto di vista è decisivo il processo di riconciliazione tra Al Fatah e Hamas, tra Cisgiordania e Gaza. E se Hamas non deciderà di rispettare le leggi internazionali, tutto sarà inutile. Anzi, peggio». — Detto questo di Hamas, pare difficile che Israele possa cambiare le proprie strategie in tema di sicurezza... «Israele può fare molte cose. Potrebbe, per esempio, bloccare o ridurre gli insediamenti. Potrebbe, più realisticamente, ritirarsi dietro la Barriera di protezione, quella che voi chiamate Muro, e poi stabilire un "corridoio" di cinque anni per risolvere il problema. Con ogni probabilità non farà nulla, perché la maggioranza politica è perla linea dura. Una cosa però mi pare sicura: se i palestinesi lanciano una mobilitazione pacifica per i diritti civili, sull'esempio della cosiddetta Primavera araba, e riescono appunto a mantenerla pacifica, l'isolamento di Israele non farà che crescere. Con grave danno per il Paese». — E quindi, su che cosa possiamo puntare? «Al momento possiamo soprattutto sperare in un cambio di mentalità degli israeliani. E come dicevo prima, qualche segnale in questo senso sta già arrivando. Anche se questi non sono gli anni Novanta, l'idea di un quick fix, una soluzione rapida, non è più sostenibile. Non ci crede più nessuno».

Sari Nusseibeh, studi a Oxford e dottorato in Filosofia islamica a Harvard, rettore dell'Università palestinese Al Quds di Gerusalemme, già rappresentante dell'Autorità palestinese a Gerusalemme, se lo chiede da qualche tempo. Ha però appena pubblicato un libro (What is a Palestinian State worth?) in cui quelle due domande sono esplicite già nel titolo. Ma come, proprio lui che a suo tempo aveva rischiato la vita proponendo di rinunciare al "diritto al ritorno" per i palestinesi insediati negli altri Paesi del Medio Oriente pur di avere uno Stato? Dobbiamo leggere in questa posizione una critica alla mossa di Abu Mazen, che invece chiede all'Onu di riconoscere lo Stato che ancora non c'è? «No, non è così. Quella di Abu Mazen è stata una buona mossa, se non altro perché ha riportato il mondo a interessarsi del problema palestinese e dell'occupazione di Israele. Ma la mia domanda è: fatta la mossa, che cosa succederà? E la risposta è: nulla, perché la parte del mondo che potrebbe fare qualcosa non ha alcuna intenzione di muoversi. Che cosa vogliamo fare, sprecare altri vent'anni in trattative inutili? Contro la tradizionale soluzione dei due Stati, lo Stato ebraico accanto a uno Stato palestinese, giocano ormai troppi fattori decisivi». — Quali? «Primo, il vuoto politico negli Usa e l'impotenza di Obama. Secondo: l'orientamento prevalente in Israele. Per arrivare a un accordo accettabile dai palestinesi, si dovrebbe produrre un cambiamento di dimensioni enormi, inimmaginabili. Ricorda tutto il rumore che si fece quando Ariel Sharon ritirò 20 mila coloni da Gaza? Bene. Pensi che ora in Cisgiordania vivono 600 mila israeliani, e mi dica se è possibile che si ritirino. E poi anche i palestinesi sono divisi tra loro. L'unica soluzione è cominciare a pensare in modo radicalmente diverso». — E quindi? «La mia proposta è: non più due Stati uno accanto all'altro, ma una federazione di due Stati su una sola terra». — Quale sarebbe il vantaggio per Israele? «La fine del conflitto, naturalmente. Ma la mia idea dovrebbe piacere pure alla destra israeliana, ai politici come Lieberman per esempio, anche per un'altra ragione. I palestinesi, in questo modo, non chiedono né di cacciare gli israeliani dalla Palestina né, soprattutto, di opporsi a che lo Stato ebraico sia, appunto, ebraico». — E per i palestinesi? «La conquista dei diritti civili. Oggi, con l'occupazione israeliana, ne sono per la gran parte privi. Non possono muoversi liberamente all'interno del Paese, non possono entrarvi e uscirne liberamente, le famiglie sono divise, la libertà d'impresa è ovviamente soffocata e così via. E un'occupazione il cui costo politico è a carico di Israele ma il cui costo fisico, personale, ricade sui palestinesi. Nell'idea della federazione io vedo solo vantaggi per tutte le parti. E aggiungo un'altra considerazione. Per molti anni a noi palestinesi è stato detto: non chiedete di diventare cittadini di Israele, abbiate pazienza e con il tempo vi daremo uno Stato. Nel frattempo, è stata piano piano erosa la base, anche territoriale, di questo ipotetico Stato. Bisogna uscire da questa spirale, perché il tempo che passa rende le cose ancor più difficili». — Lei ha detto che l'iniziativa all'Onu di Abu Mazen non porterà a nulla. Non teme una reazione violenta a questo nulla? «No, affatto. Anzi, invito tutti a stare tranquilli: i palestinesi sanno bene che cosa vuol dire l'occupazione, i rischi che si corrono, i limiti a cui bisogna adattarsi. Penso, invece, che la frustrazione renderà ancora meno verosimile la soluzione dei due Stati e più credibile l'idea di una federazione».

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