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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
17.09.2009 Un pellegrinaggio in M. O. è un buon pretesto per far propaganda anti israeliana
A cura del settimanale cattolico

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 17 settembre 2009
Pagina: 45
Autore: Renata Maderna
Titolo: «Terra santa. La pace bambina»

Riportiamo da FAMIGLIA CRISTIANA n°38 l' articolo di Renata Maderna dal titolo “Terra santa. La pace bambina”. E’ il racconto del pellegrinaggio organizzato dall’Unitalsi: un’iniziativa, patrocinata dal Comune di Roma, che ha portato 600 persone, fra cui molti bambini, tra Israele e i Territori palestinesi. Un’esperienza di forte impatto emotivo che la giornalista descrive con delicatezza e cristiana partecipazione . Colpisce tuttavia il fatto che questi pellegrinaggi siano orientati quasi esclusivamente in zone palestinesi. Lodevole l’incontro con i bimbi palestinesi ma non si racconta di un analogo incontro con i bimbi israeliani, in particolare quelli che recano ancora impresso nel loro corpo i segni del terrorismo palestinese. Non manca il richiamo al fatto che “ogni volta che si deve attraversare il muro che la separa (Betlemme ndr) dal territorio di Israele si rischia di stare ore in fila per sottoporsi ai controlli”, mentre nessun cenno è rivolto alle motivazioni che stanno alla base dei controlli da parte dell’esercito israeliano ( il terrorismo) e nemmeno al fatto che grazie alla barriera difensiva gli attacchi dei kamikaze palestinesi si sono ridotti del 95 %. Ecco l'articolo:

In un primo momento provi quasi un senso di colpa. Perché invece di meditare su queste pietre che fondano la storia e la vita, rocce che hanno visto nascere e morire Nostro Signore, sassi lambiti dalle acque su cui ha camminato e parlato alle genti e picchi su cui è stato sfidato, lo sguardo inevitabilmente si sposta, distratto dall’abbraccio di una sorella a un bambino incapace di camminare. O dalla carezza di una mamma alla guancia del ragazzo rattrappito su una carrozzina. O dalla mano di un bambino che stringe quella del piccolo accanto, dal nome sconosciuto ma dall’evidente bisogno. O anche da un bisbiglio, sussurrato all’orecchio di chi non può sentire. E invece è intento ad ascoltare. È come se il pensiero, continuamente riportato a rammentare i passi delle Scritture e dei Vangeli che proprio a questi luoghi si riferiscono, fosse strattonato di nuovo a spostarsi dal racconto di quegli uomini, donne e bambini vissuti 2.000 anni fa, per appuntarsi su questi bambini, mamme e papà d’oggi. Ma poi – è un attimo – il pensiero colpisce: son proprio questi gesti (e dentro c’è amore e spontaneità, ma anche fatica e sopportazione) segni che rendono comprensibile e immediato l’incontro con Qualcuno che non si è mai visto, ma di cui, ancor di più, si sente oggi la presenza. È un pellegrinaggio, questo "Bambini di pace" in Terra Santa pensato per i piccoli, ma risulterà regalato ai grandi, bisognosi di scrollarsi di dosso l’appiccicosa e impermeabile coltre del "già visto molto e compreso tutto". È un pellegrinaggio coraggioso, realizzato dall’Unitalsi (patrocinato dal Comune di Roma) dopo i cinque precedenti dedicati ai bambini verso mete ben diverse da questa, come Loreto, Assisi o Lourdes. Perché qui, nell’itinerario che le oltre 600 persone (circa 150 bambini, accompagnati da 300 papà, mamme e nonni e 150 volontari) seguono attraversando la frontiera tra Israele e Territori palestinesi, la terra non è solo santa, ma anche dura, difficile, persino pericolosa, e dall’amore che si respira come fosse ossigeno filtra l’odio. Anzi, chi è già stato qui in passato è colpito da una realtà evidente: la pace che anni fa pareva matura, ora sembra ritornata bambina. «Sin dall’inizio abbiamo dovuto affrontare più di una sfida», confida Antonio Diella, il presidente dell’Unitalsi, che nella vita fa il giudice ma è anche diacono, uno di quegli uomini che, con i piedi per terra, sono capaci di additare il cielo. «Prima di tutto i problemi legati allo spostamento dei bambini, molti dei quali non possono camminare. Poi la paura di quanti dicevano: "Dove andate? Vi sparano. Come pensate di portare dei piccoli in un Paese così?". Come avrei voluto che questi scettici fossero a Betlemme a godersi la festa realizzata con la parrocchia e i ragazzi palestinesi, a ballare e giocare insieme e a far volare nel cielo, in cui anni fa si sparava, le lanterne della pace. Dicevano che non eravamo prudenti, ma anche i bambini hanno capito che se incontri Gesù devi muoverti, non puoi stare chiuso in casa col tuo cuore colmo». Venire in Terra Santa, come ha ricordato il vescovo Luigi Moretti, vicegerente di Roma e assistente ecclesiastico dell’Unitalsi, vuol dire andare nella terra di Gesù, ma anche in quella dei cristiani d’oggi. «Abbiamo scelto di dormire a Betlemme», spiega Diella, «nonostante ogni volta che si deve attraversare il muro che la separa dal territorio di Israele si rischia di stare ore in fila per sottoporsi ai controlli. I cristiani qui sono l’un per cento, continuano a emigrare perché senza lavoro, anche a causa del turismo religioso diminuito. Il modo più semplice per aiutarli è venire qui, far sentire che questa terra non è abbandonata. Sostenere la comunità è un modo concreto di sostenere la pace». Le parole pace e speranza, muovendosi tra Nazaret e Tiberiade, Betlemme e Gerusalemme, sembrano uno di quei palloncini lanciati nel cielo dai bambini sul Monte delle Beatitudini. Si gonfiano osservando i ragazzi con la maglietta rossa del pellegrinaggio che giocano con i piccoli di Betlemme o mentre si mescolano tra i bambini ebrei in preghiera al Muro del Pianto o tra quelli arabi di Gerusalemme Est. Ma si rattrappiscono davanti ai racconti dei bambini di un tempo, resi tangibili dai video del Memoriale dell’Olocausto di Gerusalemme. C’è la piccola polacca che una notte venne chiusa di corsa con la sorella nell’armadio dalla mamma perché i tedeschi bussavano alla porta. «Continuo dopo decenni», racconta oggi l’anziana signora, «a sentire la mia mamma che chiede il permesso di prendere il cappotto... Viene lì e ci sussurra: "Addio, figlie mie, vi benedico"». Ci sono le poesie sulla libertà e la voglia di volare dei bambini dei ghetti e il racconto di un’altra alunna tedesca: «Ogni giorno c’era un banco vuoto. La maestra ci chiedeva: "È malato o l’hanno portato via?"». Per far rivolare in alto pace e speranza bisogna sedersi a parlare con qualcuno come Antonella, 43 anni e un bambino Stefano, di sei, che ha attraversato la leucemia: «Siamo qui per ringraziare, sì, ma soprattutto per portare nel nostro cuore quelli che non ce l’hanno fatta e quelli che lottano ancora»; qualcuno come Marcella, 51 anni, oltre 30 in Unitalsi, decine di volte a Lourdes, Loreto o più semplicemente a Jesi «con i malati, ma anche con quelli che sembrano sani e lo sono, ma hanno tanto dolore dentro»; qualcuno come Giacomo, 14 anni, venuto qui con sua nonna Renata, che per sei giorni se ne è andato in giro con Paolo per mano: «All’inizio non sapevo bene come comunicare perché lui è down, ma poi ho visto che era molto semplice»; qualcuno come Elena, 34 anni di Pessano, clown con il marito nella Compagnia colori, che ha cominciato tutto «per affrontare la difficoltà del rapporto con i disabili, finendo per scoprire che non bisogna fare chissà che, perché sono i bambini che ti cercano». Ma per sorridere di nuovo basta anche osservare Giovanni, 43 anni, e Adriana, 39, che arrancano su per la strada che sale da Gerico spingendo i passeggini di Matteo, tre anni, e Gabriele, poco più di uno, a cui sta per aggiungersi un altro bimbo. Spiando i commenti dei bambini ci si chiede come facciano a comprendere e digerire le continue contraddizioni di fronte a cui gli adulti fanno fatica a trovare equilibrio. Ma il soldato che al checkpoint sale sul pullman col mitra, a Michele, otto anni, strappa un «che forte!», mentre il complicato racconto della minuziosa divisione di metri quadri e orari tra ortodossi, cristiani, armeni e greci nei luoghi santi, a cominciare dalla Natività e dal Santo Sepolcro, fa sbottare Federica: «Ma è assurdo! Qui si odiano e si prendono a legnate tra preti. Se non cominciamo noi che abbiamo fede a smetterla, come possiamo pensare che lo facciano i signori della guerra?». La verità è che qui c’è tutto e il contrario di tutto. Anche il rischio di semplificare e dividere, ancora una volta, tra buoni e cattivi. Meglio portarsi via una di quelle immagini che può dar coraggio e forza. Per Filippo, 10 anni, è Gesù sulla croce: «Altro che superpoteri... Lui poteva fare tutto, distruggere i suoi nemici, chiedere a suo papà ogni cosa e invece è stato lì, anche se aveva paura». Per qualcun altro è un padre che dà la mano al figlio down, e nell’altro braccio stringe a sé un ragazzino iperattivo, che non parla, ogni tanto urla e non di rado sta male. Non è suo figlio, non era un "fatto suo". Ma con la moglie e la prima figlia hanno pensato che una famiglia potesse essere meglio dell’istituto dove stava.

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