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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
28.08.2009 Il settimanale cattolico nega che i cristiani siano perseguitati in Iraq
E sottovaluta il coinvolgimento di Al Qaeda negli attentati a Baghdad

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 28 agosto 2009
Pagina: 45
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Le bombe e la speranza - Il Patriarca Delly : ' Non ce ne andremo '»

Riportiamo da FAMIGLIA CRISTIANA n°35 l'articolo di Fulvio Scaglione dal titolo “Le bombe e la speranza” nel quale viene analizzata la complessa situazione politica in Iraq dove si è registrato un aumento della violenza dal primo ritiro delle truppe Usa. All’articolo segue un’intervista di Scaglione al patriarca Delly che molto candidamente afferma che i cristiani “……non sono perseguitati in Iraq”. Oltre alla sottovalutazione del coinvolgimento di Al Qaida negli attentati il tono dell’articolo non si discosta dalle posizioni ormai note del settimanale cattolico. Ecco l'articolo seguito dall'intervista al patriarca Delly:

"Le bombe e la speranza "

Le bombe di agosto hanno fatto strage nelle strade di Baghdad ma, se possibile, ancor più nei cuori degli iracheni. Il 2008 aveva offerto qualche segnale di speranza rispetto alla questione fondamentale, come fermare la violenza. Il 2009 aveva portato con sé difficoltà impreviste e impossibili da risolvere, prima fra tutte il calo dei prezzi del petrolio, che da solo fornisce il 90% delle entrate dello Stato e che l’anno prima aveva contribuito al bilancio pubblico con 60 miliardi di dollari. Così i fondi destinati alla ricostruzione (cioè, la via più diretta per dare agli iracheni di che vivere) si sono ridotti a 12,5 miliardi dai 21 previsti, rendendo ancora più dura la vita di un popolo che, secondo le stime Onu, solo per metà gode di acqua corrente, elettricità e assistenza sanitaria. Il 60% della forza lavoro è disoccupata, dicono le statistiche, il 18% delle famiglie non riceve la "razione" distribuita dal ministero del Commercio (farina, riso, fagioli, olio, zucchero, tè, latte, sapone e detersivo) da 13 mesi e il 31,5% da 7-12 mesi (questo invece lo dice l’Ufficio statistico del ministero della Pianificazione), ma nessuna di queste torture avrebbe piegato l’animo degli iracheni come la constatazione, inevitabile, che dal 30 giugno gli attentati non solo si sono moltiplicati (più di mille morti in un mese e mezzo) ma sono diventati sempre più spietati e audaci. Sei bombe che saltano in un’ora, come nell’allucinante strage del 18 agosto, di cui una nei pressi del sorvegliatissimo ministero degli Esteri, implicano una notevole "potenza di fuoco" e un’organizzazione ramificata ed efficiente. Questa guerra, insomma, non è ancora vinta. Il 30 giugno 2009 è una data cruciale. È il giorno in cui gli americani si sono ritirati nelle basi principali e hanno passato le consegne alla polizia e all’esercito iracheno. L’immediata impennata delle violenze è un acido rovesciato sulle prospettive di rinascita dell’Irak. Anche perché è facile accusare Al Qaida e i nostalgici del Baath (il partito di Saddam Hussein), che qualche parte devono pure averla, ma la sensazione prevalente è che la frammentazione dei vari gruppi interni (politici, etnici, religiosi, criminali) e la determinazione con cui essi difendono i propri interessi basti e avanzi a spiegare la ferocia che dilaga nelle strade. Prendiamo il Nord, da Kirkuk a Mosul, l’area di frizione tra gli arabi sunniti e i curdi. Il referendum sullo status di Kirkuk, città che siede su importanti giacimenti di petrolio, non si fa perché potrebbe accendere una guerra civile. A Mosul curdi e sunniti si combattono usando i cristiani come bersaglio comune. La regione autonoma del Kurdistan litiga con il Governo centrale per la gestione delle risorse petrolifere, e intanto vende per conto proprio il greggio dei pozzi che si trovano sul suo territorio. Nella zona centrale, è aperta la partita tra il Governo a predominanza sciita e le tribù sunnite: il generale americano David Petraeus le aveva "arruolate" in milizie fedeli al nuovo Stato, sottraendo così al terrorismo e alla guerriglia migliaia e migliaia di braccia. In cambio, aveva promesso di inserirle, dopo un periodo di prova, nei ranghi ufficiali della polizia e dell’esercito. Il Governo del premier sciita Al Maliki ora tentenna, preoccupato all’idea di forze armate estranee al gruppo sciita, e questo ovviamente non piace ai sunniti. In più, sono partite le grandi manovre, politiche e non, per le elezioni del 15 gennaio. Così, di nuovo, la speranza di una svolta è costretta a piegarsi sotto il peso dell’amara realtà. Peggio ancora, le aree in cui la speranza è possibile devono essere protette con tutti i mezzi di cui l’Occidente è capace, e si distinguono dal resto del Paese con tanta evidenza da suggerire, per contrasto, il rischio di un’ulteriore frammentazione. Così, se nel Kurdistan un consorzio milanese può aggiudicarsi un contratto per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani della città di Suleymania e progettare la costruzione di un grosso impianto, e un istituto avviare un accordo da 15 milioni di dollari per interventi nel settore avicolo e fornitura di macchinari, a Baghdad gli imprenditori stanno rintanati nella superprotetta Zona internazionale e bivaccano nell’Hotel Rasheed in attesa che i loro contatti superino tutti i controlli e riescano a raggiungerli per parlare d’affari. Le bombe uccidono donne e bambini, giovani e vecchi, sciiti, sunniti e cristiani. E colpiscono sempre nel segno perché hanno un bersaglio impossibile da mancare: qualunque progetto di un Irak nuovo e diverso. Il premier Al Maliki puntava tutto sull’idea di riuscire a gestire la sicurezza anche senza gli Usa. La bomba più potente, però, era proprio quella esplosa presso il ministero degli Esteri, in una strada da cui era stato appena tolto il posto di blocco. Più chiaro di così.

 " Il Patriarca Delly : ' Non ce ne andremo '  " 

 Patriarca Delly

«Volete aiutare gli iracheni? Non date loro i visti per i vostri Paesi». Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, nato nel 1927 nei pressi di Mosul, dal 2003 patriarca dei cattolici caldei dell’Irak (8 diocesi, 100 parrocchie e 500 mila fedeli prima della guerra del 2003) e dal 2007 cardinale, esordisce con un’affermazione dura e sorprendente. Che va però così completata: «Non visti, che rischiano di spopolare l’Irak delle forze migliori, ma posti di lavoro, da creare qui con la potenza economica di Usa ed Europa. La chiave di tutto è il lavoro. E la sicurezza, che manca, è la chiave del lavoro». · Ma è difficile pensare al lavoro quando si è perseguitati. I cristiani… «Su questo tema bisogna intendersi bene. I cristiani non sono perseguitati in Irak. Sfido chiunque a mostrare un solo documento o atto del Governo che faccia pensare a una persecuzione dei cristiani in quanto cristiani. Persino sul famoso articolo 2 della Costituzione, quello che considera la sharia( la legge islamica) il fondamento della legislazione civile, i politici hanno accolto le nostre obiezioni. È vero, invece, che tutti gli iracheni sono perseguitati dai fanatici, e tra gli iracheni ci siamo anche noi, i cristiani. Nel periodo in cui sono state colpite 7 nostre chiese, ben 135 moschee sono state attaccate. Questo dimostra che qualcuno vuole distruggere l’Irak intero. Non solo noi cristiani ma noi cristiani compresi». · La minoranza cristiana, piccola nei numeri e indifesa, è però più a rischio di altri gruppi. E infatti metà dei cristiani ha lasciato il Paese. «Questa è una valutazione comune ma esagerata. Se parliamo di esodo dei cristiani, la cifra più esatta è 25-30%. Basta vedere le chiese la domenica, sono sempre piene. Se ne sono andati soprattutto quelli che disponevano almeno di una certa scorta di denaro. La classe media e i poveri, anche se l’avessero desiderato, non avevano la possibilità materiale di farlo. Nello stesso tempo, bisogna esser cauti nel pronosticare, e ancor più nell’annunciare, il ritorno dei cristiani dall’estero verso l’Irak o da altre zone dell’Irak verso Baghdad. Chi se n’è andato quasi sempre ha venduto o perso tutto. Come si fa a tornare in un luogo in cui non hai più la casa, il lavoro e spesso nemmeno parenti?».

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