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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
21.05.2009 La famiglia sarà cristiana
Ma i conti con la storia mica li fa

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 21 maggio 2009
Pagina: 9
Autore: Alberto Bobbio
Titolo: «Preghiere di pace»

Riportiamo da FAMIGLIA CRISTIANA n°21 l'articolo di Alberto Bobbio dal titolo " Preghiere di pace ", un’analisi a posteriori della missione del pontefice in Israele. Come gli articoli apparsi nelle settimane precedenti anche questo non si discosta dai consueti toni pregiudiziali nei confronti di Israele  e del suo popolo. Lodevoli gli appelli del papa alla pace, meno apprezzabili i riferimenti del giornalista all’”inguaribile ottimismo” di Peres (che ci pare ironico) come pure “agli schiaffi” che il sommo pontefice avrebbe ricevuto dal premier israeliano (non veritieri peraltro). Dunque quando si parla di Israele non va bene né l’ottimismo né i presunti schiaffi !  Ancora. E’ vero che ad Auschwitz “gli ebrei furono sterminati da un regime senza Dio” ma gli uomini che perpetrarono quello sterminio erano per la maggior parte padri di famiglia che si recavano alla santa messa ogni domenica e che dopo la guerra hanno ricevuto dalla Chiesa aiuto e protezione per fuggire all’estero e non essere sottoposti “alla giustizia” degli uomini. Sarebbe doveroso ricordarlo. Da ultimo il “muro” è e rimane una barriera di sicurezza e protezione, non solo per Israele ma per coloro che credono nel diritto di ogni essere umano a vivere in pace e sicurezza. Ben venga un muro se protegge la vita di innocenti altrimenti sterminati da un odio implacabile, quello dei palestinesi verso gli ebrei sul quale, crediamo, il pontefice avrebbe dovuto esprimere con forza un giudizio di condanna. Che invece è mancato. Ecco l'articolo: 

Ha appena visto la tomba vuota, ha appena baciato la pietra dell’unzione dove Gesù è stato disteso. Dice: «Qui la storia dell’umanità è stata definitivamente cambiata». E aggiunge: «Il legno della croce svela la verità circa il bene e il male». La missione di Benedetto XVI in Terra Santa affonda le radici a Gerusalemme ed è proprio nelle parole pronunciate al Santo Sepolcro che si comprende la "cifra teologica" dei princìpi e delle nozioni che regolano l’orizzonte delle relazioni internazionali secondo il Papa: «Il Vangelo ci dice che Dio può far nuove tutte le cose, che le memorie possono essere purificate, che gli amari frutti della recriminazione e dell’ostilità possono essere superati e che un futuro di giustizia, pace, prosperità e collaborazione può sorgere per ogni uomo e ogni donna, per l’intera famiglia umana, e in maniera speciale per il popolo che vive in questa terra, così cara al cuore del Salvatore». Questa frase delimita il perimetro della geopolitica che Ratzinger ha squadernato come una lezione in Terra Santa. Ha sfidato il Medio Oriente, i suoi leader e i suoi popoli. Ha riaperto tutti i dossier: quelli politici con rilevanza interreligiosa e quelli interreligiosi con rilevanza politica, dal rapporto con gli ebrei alla fuga dei cristiani. Soprattutto, ha provato a spiegare che se non si condivide la fede delle pietre di Gerusalemme, città sacra a tre religioni, il mondo domani sarà sempre più inquieto. La preghiera che ha infilato nel Muro del Pianto è un’invocazione affidata alle pietre degli ebrei che sorreggono quelle della Spianata delle Moschee, perché Dio ascolti «il grido degli afflitti, dei timorosi, dei deprivati». A Gerusalemme si affastellano pietre e tensioni. Il giorno dopo il discorso allo Yad Vashem gli ebrei non erano contenti. Per loro il Papa è tedesco, prima di essere il capo della Chiesa cattolica. Il portavoce della Knesset, il parlamento israeliano, Reuven Rivlin, lo fa notare: «Ha parecchio da farsi perdonare». Il quotidiano Maariv pubblica una foto di Ratzinger in divisa di ausiliare della contraerea nazista, altri discutono sulla sua adesione alla Hitlerjugend, la gioventù hitleriana. Ratzinger non l’ha mai nascosto, poiché venne obbligato a farlo come tutti i ragazzi di quel tempo. Ma sull’opposizione al nazismo del futuro Papa e della sua famiglia tutti concordano. Meno che in Israele, dove un tedesco comunque deve chiedere scusa. Gli ultraortodossi hanno anche protestato perché la sicurezza israeliana ha chiuso l’accesso al Muro del Pianto per qualche ora per fargli spazio. Ma la polemica non disturba l’incontro, delicatissimo, con le più alte autorità ebraiche d’Israele, il rabbino ashkenazita Yona Metzger e il rabbino sefardita Shlomo Amar. Qui nessuno denuncia equivoci. Il Papa dice che «la fiducia è l’elemento essenziale di un dialogo efficace» e mette sul piatto il concilio Vaticano II per ribadire che la «Chiesa cattolica è irrevocabilmente impegnata su quella strada per una genuina e durevole riconciliazione». Ma non è chiaro quanto conterà l’assicurazione del Papa riguardo alla possibilità della Chiesa cattolica di esercitare con meno affanno il suo ministero in Terra Santa. Qui è difficile separare le relazioni religiose da quelle politiche. Lo sceicco al Tamini, capo dei Tribunali islamici di Palestina, fa arrabbiare il Vaticano perché in un incontro interreligioso si lancia in un duro attacco a Israele. Ma le questioni restano tutte sul tappeto, tanto che il giorno dopo alla Cupola della Roccia, il mufti di Gerusalemme Mohammed al Hussein, le riprende una per una davanti al Papa, denunciando «l’aggressione contro i palestinesi». Ratzinger sapeva che si sarebbe infilato in mezzo a mille dispute. Tuttavia si è tenuto lontano da cautele che avrebbero offuscato il suo messaggio. Ha lasciato che Tel Aviv si irritasse per il ragionamento universale sulla Shoah e si infastidisse per le suppliche per la pace. Il giorno in cui il sindaco di Gerusalemme Nir Backat ribadisce ai giornali che la città è la «capitale sacra degli ebrei», lui celebra la Messa nella valle di Giosafat, sotto il Monte degli Ulivi, dice che in «Terra Santa c’è posto per tutti» e domanda a cristiani ebrei e musulmani: «Quanto ancora bisogna fare per renderla veramente una città di pace per tutti i popoli, dove tutti possano venire in pellegrinaggio alla ricerca di Dio?». Poco prima, il patriarca latino di Gerusalemme Twal aveva denunciato «l’agonia» dei palestinesi, ma anche degli israeliani, «nonostante la loro potenza mediatica e militare». A Nazaret ha detto di mettere da parte «il potere distruttivo dell’odio e del pregiudizio». Poi ha cantato con un rabbino e un imam Shalom e Salam, pace in ebraico e in arabo. Sul piano politico Benedetto XVI ha dovuto confrontarsi con l’inguaribile ottimismo del presidente Shimon Peres e con gli schiaffi del premier Benjamin Netanyahu, che ha detto no al Papa alla soluzione dei due Stati. Poi il giorno dopo, all’aeroporto prima di partire, ha lanciato un appello vigoroso: «Che la soluzione dei due Stati diventi una realtà e non rimanga un sogno». E ha ribadito che è l’unica soluzione per uscire non solo dal conflitto, ma per portare «speranza in molte altre regioni». Ha ricordato la sua visita ad Auschwitz, dove gli ebrei furono «brutalmente sterminati da un regime senza Dio». E ha parlato ancora di Muro e non di barriera di separazione e sicurezza come vorrebbero gli israeliani. Peres lo ha assicurato circa l’impegno di arrivare alla pace. Chissà se la geopolitica teologica di Ratzinger scuoterà altri cuori?

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