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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
15.02.2009 Il settimanale cattolico sempre più anti israeliano
suona il trombone Fulvio Scaglione

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 15 febbraio 2009
Pagina: 25
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «A Gaza in gabbia»

Famiglia Cristiana nel numero 7 in edicola domenica 15 febbraio pubblica un articolo di Fulvio Scaglione intitolato “A Gaza in gabbia”. E’ sempre una visione di parte quella che offre ai lettori il settimanale cattolico. Il giornalista analizza come consuetudine la grave situazione di Gaza con occhio filopalestinese: la miseria, le sofferenze dei bambini, le mancate aspirazioni allo studio e al lavoro sono da imputarsi alle recenti operazioni militari israeliane. Il terrorismo di Hamas e i continui lanci di razzi sulle cittadine del Sud d’Israele passano sotto silenzio. Analogamente, si omette il racconto di quell’altra faccia della guerra di Gaza durante la quale interi palazzi sono stati presi in ostaggio, le famiglie utilizzate come scudi umani, i dissidenti gambizzati, torturati o uccisi in quanto “collaborazionisti”.

Ancora. Fulvio Scaglione scrive che “Hamas amministra gli aiuti dall’Iran”  senza spiegare come e senza ricordare che Hamas - che vuole controllare la distribuzione degli aiuti umanitari - ha confiscato lo scorso 4 febbraio coperte e cibo destinati dall’Onu a 500 famiglie palestinesi sequestrando successivamente altre 300 tonnellate di rifornimenti alimentari.  A FC non c'è più Guglielmo Sasinini, ma il tono ostile a Israele è sempre lo stesso. Ecco l'articolo: 

Scoppiano i palloncini nella scuola della Santa Famiglia, eco allegra e disperata ai colpi e alle esplosioni che anche adesso, di giorno in giorno, di tregua in tregua, scuotono questa o quella zona della Striscia di Gaza. «Lo chiamiamo open day, oggi si fa in tutte le scuole», spiega Ghada Rabat, insegnante d’Inglese dal sorriso delizioso sotto il velo: «Cantiamo, balliamo, giochiamo con i ragazzi, e gli insegnanti cucinano per loro. Dopo il trauma della guerra, rovesciamo almeno per un giorno le regole per aiutarli a riprendersi gli spazi, la scuola, la vita». I bambini hanno travolto gli insegnanti con il racconto a valanga dei loro spaventi, e poi hanno disegnato: mostri che buttavano bombe, gente a terra, macchie di matita rossa per il sangue. «Abbiamo raccolto i disegni e poi li abbiamo bruciati», dice Ghada, «per liberare loro la memoria». Riprendersi la vita, una qualunque: mica facile. Ci prova un milione e mezzo di persone, tutti gli abitanti della Striscia, e non sembra probabile che ci riescano. Anche gli adulti parlano, raccontano. E criticano. Shaker Qarmot, insegnante di Educazione fisica, ha perso così il figlio maggiore Tha’er, 17 anni: «Era andato con uno zio a comprare da mangiare. Gli israeliani hanno bombardato una casa di proprietà di un pezzo grosso di Hamas, un blocco di cemento ha colpito il mio Tha’er alla testa e lo ha ucciso. Ma la casa era vuota: ora l’uomo di Hamas è vivo da qualche parte, mio figlio invece è sotto terra». A chiedergli del futuro, Shaker risponde: «Non spero più in niente ma non accetto di vivere sempre così. Appena posso, prendo la famiglia (ha moglie e altri 5 figli, ndr)e me ne vado lontano da qui». L’immagine della Striscia che arriva al mondo che non vive in gabbia è, non per caso, schiacciata su Hamas. Masse di uomini barbuti che accompagnano il funerale di un "martire", donne in lutto che gridano. Ma è uno stereotipo. A Gaza City, cioè nel centro urbano vero e proprio, si nota subito una modesta borghesia, commercianti o piccoli imprenditori, che per Hamas non ha simpatia e che sotto Hamas si è messa in stato d’attesa, cercando di limitare i danni.  Una sera mi ritrovo nel retro di un negozio di accessori per telefonini, intorno al tè di rito, con il proprietario, un dentista e un laureando in Economia. Mohammed, lo studente, ha con sé uno dei libri: è in arabo, i riferimenti bibliografici sono tutti a testi in inglese anche se l’inglese non è per lui materia di studio. Ma poco importa, «perché», dice lui, «appena mi laureo vado negli Emirati». Lì già vivono suo padre, infermiere, e sua madre, insegnante. «Come posso pensare di studiare qui, dove non ho futuro e dove, con la guerra e le armi, se ho bisogno di una cosa devo comprarla di contrabbando?». Andarsene, scappare, fuggire dalla gabbia. Un visto, un invito, una borsa di studio, farsi adottare, volar via in pallone, qualunque sogno è buono. Altra sera e altro tè, questa volta in casa di Adel, che aveva 160 operai e un’industria tessile e ha perso tutto con l’intifada del Duemila, quando israeliani e americani hanno smesso di comprare i suoi pantaloni e le sue magliette perché Made in Gaza. Lui ha 61 anni, non sogna più, ha messo al riparo quasi tutti i figli (11 in totale), espatriati o protetti da altre cittadinanze. «C’è troppa gente che ha interesse a non farci avere la pace», dice, «e troppi che parlano di noi senza provare a vivere come viviamo noi».  Molti di questi uomini e donne, che rimpiangono i tempi del commercio con il nemico Israele, hanno pure votato Hamas nel 2006 ma ora citano il proverbio arabo: «Era meglio tagliarsi un dito». Anche se, come dice Abed, il dentista di cui sopra, «due cose buone all’inizio Hamas le ha fatte: ha portato un po’ di ordine e ha fatto fuori quei due o tre clan legati ad Al Fatah che qui, armi in pugno, spadroneggiavano. Come dite voi? La mafia, ecco, quella roba lì. Molti hanno votato Hamas solo perché era l’unica alternativa a una corruzione pazzesca e al disprezzo per la legge».  Vige, nella Striscia, un doppio regime. Chi lavora nelle strutture rette da Hamas prende lo stipendio da Hamas. Chi non lavora per Hamas, perché non vuole o perché cacciato, prende lo stipendio dal Governo palestinese del presidente Abu Mazen, attraverso Israele, proprio per non lavorare. Tutto doppio. Juma’a ha un diploma di designer, l’ultimo viaggio fuori della gabbia l’ha fatto in Germania, via Egitto. «Per avere il visto», racconta, «ho chiesto a uno straniero che usciva di portare i documenti a Gerusalemme, dove un mio parente li ha ritirati e li ha girati al consolato di Ramallah (in Cisgiordania, ndr). Stessa procedura in senso inverso una volta ottenuto il visto. E tutto di nascosto, perché quelli di Hamas non vogliono che ci rivolgiamo a quelli di Al Fatah». Juma’a ora ha un visto per il Marocco che sfuma perché i confini sono chiusi. Dagli esponenti di questa classe che vuole solo tornare ai propri grandi o piccoli traffici dovrebbe nascere un’idea, una proposta diversa. Ma quando, e come? Criticano, però solo in cucina e tra amici fidati, perché la guerra non ha indebolito Hamas, anzi. Un sondaggio svolto dal Jerusalem Media and Communications Center gli accredita consensi crescenti anche in Cisgiordania, nel regno di Abu Mazen e dei moderati, per la prima volta superati in casa propria: se si andasse a votare, il 28,6% andrebbe a Hamas e il 27,9% ad Al Fatah.  E nella Striscia? Basta uscire da Gaza City verso sud per capire. A Khan Yunes, a Rafah, dove persino le vie dissestate di Gaza paiono boulevard, le bandiere verdi del movimento islamista sventolano più alte e numerose che mai. Con una squadra medica della Caritas ho girato per i villaggi, a visitare i feriti. Gambe squarciate dai proiettili delle mitragliatrici o corpi traforati dalle schegge, uomini accasciati su due coperte stese a terra che negano di aver usato le armi (Israele ha occhi e orecchie acutissimi) e sono stati feriti, a quanto dicono, mentre guardavano la Tv o facevano una passeggiata di salute. Ma sempre, sul muro, il poster con il viso di uno shahid (martire), uno di famiglia morto invece (se no, che martire sarebbe?) combattendo.  Case povere e mai finite, sabbia che erode i campi, uomini senza lavoro, donne sempre gravide, stormi di ragazzini. Il blocco che il mondo ha decretato contro la Striscia non ha intimidito i salariati della lotta armata, ma ha colpito questa gente in modo durissimo. E qui Hamas, che amministra gli aiuti dell’Iran e dei Paesi del Golfo, è ancora invincibile. I sussidi a chi ha perso un parente o la casa sono puntuali, nessun mistero, e presso i cambiavalute di Gaza il corso dell’euro è in calo perché gli uomini di Hamas ne hanno messi troppi in circolazione.  Stesso quadro a Rafah, al confine con l’Egitto. Gli F16 hanno colpito con precisione nella zona dei tunnel ma non hanno cambiato la situazione. Le prime case egiziane sono solo 100 metri più in là: da un lato si vede chiaro ciò che accade sull’altro. Sai che segreto, il contrabbando. Chissà, magari Abu al Jamil, che mi mostra il tunnel che "possiede" in società con altri 10 scavatori, non mente quando dice che «noi portiamo solo merci, le armi passano per altri canali che sono ancora quasi intatti», o forse è una bugia come un’altra. Con telefoni e detersivi, ricambi per auto e stufe, il suo gruppo tirava su anche 25 mila dollari a carico. Adesso è dura, i tunnel devono essere riparati; sono sulle spese. Ma lavorano in bella vista: se l’Egitto volesse davvero fermare tutto ci metterebbe due giorni. «Con il blocco israeliano», conferma Abu, «gli egiziani hanno sempre chiuso un occhio». La gabbia di Gaza, ora, sembra una pentola a pressione, con i tunnel a far da valvola di sfogo. Ma la pressione cresce e la valvola è rotta. Fino a quando reggerà la pentola?

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