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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
05.02.2009 Una visione distorta della società israeliana
Accusata di non volere la "pace", perché vuole la sicurezza

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 05 febbraio 2009
Pagina: 30
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Niente Gaza alle urne»

FAMIGLIA CRISTIANA nel numero 6 in edicola questa settimana pubblica un articolo di Fulvio Scaglione intitolato “Niente Gaza alle urne”. La prossima settimana Israele voterà per rinnovare il Parlamento; per il settimanale cattolico “ il partito di destra Likud di Netanyahu è dato vincente. Di certo, la guerra contro Hamas non influirà sull’esito elettorale: la pace è un discorso del passato, oggi si parla di sicurezza”.
A una visione di parte della società israeliana e della situazione politica si aggiunge un’intervista al padre gesuita David Neuhaus le cui affermazioni discutibili (….”il pacifismo non è mai stato forte in Israele….”) non vengono contestate dal giornalista.

 

In realtà Israele continua a perseguire la pace senza escludere la sicurezza dei suoi cittadini: questi saranno gli obiettivi di qualunque governo verrà eletto il prossimo 10 febbraio.

Ecco il testo:

 

Gaza? Gaza cosa? D’accordo, esagero. Ma per capire quale Israele si appresti a rinnovare i 120 seggi del Parlamento, e che cosa scaldi l’animo dei 4,8 milioni di elettori, sarà meglio non credere che la guerra nella Striscia possa decidere il voto. È ovvio, se ne discute, e con una franchezza a noi ignota. Il capo dell’Aviazione (generale Ido Nehushtan) dice che bombardare i tunnel di Gaza non serve, il rabbino capo dell’Esercito (Avichai Rontzki) è "processato" per aver distribuito ai soldati pamphlet dai toni troppo accesi, all’Università di Tel Aviv si polemizza per la nomina a docente di Legge del colonnello Pnina Sharvit-Baruch che, da dirigente dell’Ufficio legale dell’Esercito, avrebbe dato il nulla osta all’uso massiccio della forza militare. Che impatto avrebbero cose simili in Italia?
Ma la spedizione contro Hamas, sempre oltre l’80 per cento dei consensi, è giudicata non un fatto epocale ma un atto dovuto. Per quasi tutti fin troppo, dopo i 10.650 missili sparati dalla Striscia dal 2001 a oggi. «Abito in un villaggio agricolo vicino al valico di Erez», dice il dottor Ron Lobel, «a 300 metri dal confine con Gaza. Lo vedevo dalla finestra che Hamas lanciava i razzi dalle due scuole dell’Unrwa. Quindi mi chiedo: se fossi stato un pilota di elicottero, avrei sparato sulla scuola o no? Le risposte cambiano ma la domanda resta».

 

Il dottor Lobel conosce bene Gaza, dove ha lavorato per sei anni. Ora è vicedirettore dell’ospedale Barzilai di Ashkelon, la grande città costiera (122 mila abitanti) a 12 chilometri dalla Striscia e a 67 dai razzi di Hamas. Offre un retroscena sulla durezza degli scontri: «È l’unico ospedale della zona. Nelle settimane della guerra abbiamo ricevuto 202 soldati e 426 civili feriti. Ancora adesso ogni giorno abbiamo 10-15 pazienti da Gaza. E poi, lo stillicidio dei militanti di Al Fatah gambizzati da quelli di Hamas: ne ho curati decine».

 

Lobel ha un cruccio: i nipotini non sono mai stati a casa sua, i genitori hanno paura a portarli in un’area colpita due o tre volte al giorno dai missili. La gente di Sderot, città-bersaglio che in queste settimane si è tappezzata di bandiere, ha invece un dubbio: che l’operazione Piombo fuso non abbia raggiunto lo scopo. «È una tregua», dice Eli, barista, «sei mesi o un anno e si ricomincia». Galit, impiegata in un kibbutz: «Volevamo questa operazione, abbiamo vinto ma non riusciamo a essere ottimisti». Shlomo, impiegato comunale: «Nessuno qui è contento. Bisognava decapitare Hamas, ci siamo fermati a metà strada».

 

Insomma, la guerra di Gaza non è un fattore decisivo. Lo slittamento verso destra è in corso da anni; Governo di sinistra con Barak (1999-2001), di centrosinistra con Sharon e con Ehud Olmert, domani di centrodestra con Benjamin Bibi Netanyahu e il Likud, dati vincenti da tutti i sondaggi. In sintonia con un sentimento popolare che dalla voglia di pace sempre più si sposta verso una richiesta di sicurezza. Il termometro sono gli studenti: tra loro, nell’età che di poco precede i tre anni di militare, cresce il prestigio dell’esercito, con una guerra in cui per la prima volta si sono notati i volontari cristiani e musulmani. «I mugugni diminuiscono e le aspettative aumentano», dice Asaf Suissa, portavoce dell’Associazione degli studenti: «D’altra parte il servizio di leva ha un altro senso quando pensi che difendi la tua città, la tua casa». Asaf vive in un quartiere più volte colpito: «La pace resta il fine ultimo, ma ora ci sembra lontanissima, e non per colpa nostra». Durante la guerra gli studenti si sono mobilitati per assistere gli anziani e i bambini che non potevano andare a scuola. Hanno raccolto un sacco di complimenti, anche per un’efficienza, non sembri ironico dirlo, quasi militare.

 

È qui il paradosso di Israele. Parlare di una pace impossibile (con chi farla? I Governi palestinesi ormai sono due, e nemici) significa guardare al passato. Parlare di sicurezza, allora, vuol dire pensare al futuro. Si discute di Obama: cosa cambierà per Israele? L’arrivo del suo inviato per il Medio Oriente, George Mitchell, ha toccato un nervo scoperto. Mitchell è colui che con Clinton preparò il piano poi chiamato Road Map, che, tra l’altro, prevedeva il blocco degli insediamenti. E nel futuro di Israele questo tema è decisivo.

 

Secondo l’organizzazione per i diritti civili Peace Now nel 2008 gli insediamenti sono cresciuti del 69 per cento (e gli abitanti da 270 a 285 mila) sul 2007, a dispetto degli impegni presi dal Governo. Molti hanno giudicato il rapporto "prevenuto". Poi ne è uscito un altro del ministero della Difesa: nel 75 per cento dei 120 insediamenti ufficiali sono state realizzate costruzioni illegali o diverse dai progetti approvati. In almeno 30 casi: scuole, sinagoghe e stazioni di polizia sono sorte su terre di palestinesi. Nessun colono dovrà ritirarsi, promette Netanyahu. Inevitabile ritirarli almeno in parte, replicano molti esperti, anche di destra: per isolare Hamas, aiutare i moderati di Abu Mazen e rendere sopportabile la "non pace".

 

L’arrivo degli ultraortodossi

 

La questione investe anche la laicità dello Stato e la sua natura democratica. Dagli insediamenti in Cisgiordania escono ogni anno in 10 mila, quasi tutti tra 20 e 30 anni. La loro popolazione, però, cresce grazie al costante arrivo di ebrei ultraortodossi. Il che, però, ripropone il dilemma che spinse una radicale di destra come Tsipi Livni a convergere al Centro e un generale come Sharon ad abbandonare Gaza: il sogno della Grande Israele imporrebbe una conflittualità permanente che potrebbe intaccare l’essenza democratica del Paese, che alla democrazia tiene. Nelle settimane prima del voto è finito sotto inchiesta per riciclaggio Avigdor Lieberman, leader di Yisrael Beitenu, partito di destra in forte crescita. Da noi si chiama "giustizia a orologeria", qui solo giustizia.

 

E i palestinesi cittadini di Israele? I fatti di Gaza li hanno resi più rabbiosi ma anche più frustrati e confusi. Sono il 22 per cento della popolazione, e due sono i partiti "arabi": Lista Araba Unita (4 seggi) e Balad (3). Ma i palestinesi con passaporto israeliano non votano (alle ultime elezioni, 45 per cento di astensioni) o votano partiti sionisti che difendono interessi locali o di categoria: o praticano un rifiuto che li rende ininfluenti o si integrano nello Stato ebraico.

 

«Il problema», dice Yusef Daher, agente turistico e segretario a Gerusalemme del Consiglio mondiale delle Chiese, «è che il vuoto di partecipazione e rappresentanza è riempito dall’islamizzazione. Un processo per nulla religioso, tutto politico e ispirato da fuori ma che funziona».

 

Forse solo per i palestinesi la guerra di Gaza sarà un discrimine elettorale. I loro politici perdono terreno sugli imam e li supplicano di andare a votare. Yusef, come la vedi? «Gaza è una tragedia ma speravo che dal male venisse qualcosa di buono. Niente più missili, riconciliazione tra Hamas e Al Fatah, pace con Israele. È successo il contrario». 

 

È proprio come si diceva prima: i discorsi di pace, oggi, si coniugano al passato remoto.

 


TROVARE IL MODO DI COMUNICARE

 

Gesuita, biblista, docente, padre David Neuhaus è anche un militante della pace e siede nel consiglio direttivo di B’Tselem, tra i gruppi per i diritti umani uno dei più forti e autorevoli. Perché i pacifisti si sono sentiti così poco durante la guerra di Gaza? «Il pacifismo non è mai stato forte in Israele», risponde, «ma adesso è andata persa la speranza stessa della pace. Le nostre organizzazioni sono marginalizzate da tempo, lo si era visto già nel 2006 con la guerra in Libano, e nemmeno le immagini di Gaza hanno provocato sussulti. Nel 1982 il massacro di Sabra e Chatila aveva portato in piazza centinaia di migliaia di persone, adesso se ne trovi mille è un successo».

 

  • Come si è arrivati a questo?

     

«Non è un problema solo di Israele. Negli ultimi anni, ovunque, c’è stata una demonizzazione estrema del nemico islamico. Vediamo solo la maschera del nemico e non gli esseri umani che ci sono dietro. Così, in Irak e in Afghanistan ci sono perdite enormi tra i civili di cui non importa a nessuno. A questo contribuiscono molto le azioni efferate e i discorsi degli islamisti. Il risultato è una colossale perdita collettiva di compassione. Non a caso, per tornare a Gaza, si è molto parlato del medico palestinese che ha perso tre figlie. Ma solo perché aveva lavorato in Israele, è noto per le critiche a Hamas e conosce bene l’ebraico. Non si poteva proprio farlo passare per un nemico».

 

  • Un quadro a tinte scure...

     

«Forse. Ma la storia del medico contiene una lezione. Perché il suo caso ha toccato la gente? Perché lui sapeva comunicare con la società israeliana. Quindi il problema di chi crede ancora nella pace è questo: trovare il modo giusto per parlare alla società».

 

LA PSICHIATRA: IL PERICOLO CI COMPATTA

 

Nata a Bucarest e laureata a Padova, Adriana Kat, psichiatra, dirige il Centro di salute mentale di Sderot, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza e a pochi secondi dai missili di Hamas. 

 

«Nel 2001 questa era una città semplice e tranquilla», dice, «all’inizio nessuno capiva e dei missili qualcuno rideva. Poi, nel 2004, i primi morti: un nonno e un bimbo di quattro anni. Da allora la vita si è riorganizzata intorno ai missili. Le case colpite si vedono, i 14 morti anche. Il mio problema è trovare le parole per ciò che non si vede: le anime azzerate o i bambini che non osano giocare all’aperto, fanno pipì a letto, non procedono negli studi».

 

Anime e bambini di cui si prende cura insieme con altri sei tra psichiatri e operatori sociali. In tutto 5 mila pazienti, metà dei quali (cioè il 15 per cento della popolazione della città di Sderot) traumatizzati dai missili.

 

  • L’attacco a Gaza che cosa ha significato, per loro?

     

«Nessuno, qui, pensa che un bambino palestinese valga meno di uno israeliano. Ma il sentimento di non essere capiti è pesante e con questa guerra la gente di qui per la prima volta si è sentita parte dello Stato. Dal punto di vista medico, i sintomi sono gli stessi, ma si sente un certo sollievo, meno rabbia, più ottimismo. Emozioni che si riverseranno sulle elezioni, il che è un pericolo».

 

  • Perché?

     

«Perché forse avremo un Governo di destra, meno ricettivo alle idee di pace. E invece bisogna dialogare, anche se oggi il problema è sapere con chi».

 

  • Gli abitanti, qui, sono una comunità eterogenea: russi, maghrebini, yemeniti... Secondo lei il pericolo li compatta o li divide?

     

«Li compatta, con un meccanismo che vale per tutto Israele».

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