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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
09.01.2009 Un'interessante intervista a Sergio Della Pergola, ma anche i soliti luoghi comuni su Gaza
due articoli dal settimanale cattolico

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 09 gennaio 2009
Pagina: 0
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Intervista Sergio Della Pergola - Contro Hamas sulla pelle di Gaza»

Famiglia Cristiana nel numero 2 in edicola pubblica un’interessante intervista di Fulvio Scaglione a Sergio Della Pergola, demografo di fama mondiale e docente all’Università di Gerusalemme, intitolata “Ma con loro ormai è rimasto solo l’Iran”.«Il mondo arabo», dice il demografo, «abbandona la causa dei fondamentalisti. A Israele tocca il lavoro sporco».

Quando si parla di Gaza, il professor Sergio Della Pergola è un prezioso punto di riferimento. Docente dell’Università ebraica di Gerusalemme, demografo di fama mondiale (suo un testo fondamentale come Israele e Palestina, la forza dei numeri), ha contribuito in modo decisivo alla decisione del Governo di Israele, sancita da Ariel Sharon nel 2005, di lasciare Gaza ai palestinesi. Oggi, rispetto alla guerra contro la Striscia, non ha esitazioni. «La tregua di sei mesi», dice il professore, «è stata sfruttata da Hamas per riarmarsi con nuovi missili di produzione russa e cinese più potenti dei vecchi Qassam, capaci di colpire a 40/45 chilometri dal confine. Israele ha un sistema di avvistamento dei missili in partenza dalla Striscia ma i margini per mettersi al riparo sono questi: a Sderot, cioè a 10 chilometri, 15 secondi; ad Ashkelon e Netivot, a 20 chilometri, 30 secondi; a Beer Sheva, cioè a 40 chilometri, 1 minuto. E ogni giorno cadono 4 o 5 missili. Aggiunga che nel 2008 sono stati uccisi 36 israeliani e 1.800 razzi sono caduti sul Paese, tenga presente che la popolazione di Israele è un decimo di quella italiana, e che quindi in proporzione i morti in Italia sarebbero stati 360, pensi a come avrebbe reagito l’Italia, e capirà perché Israele davvero non poteva tollerare oltre una simile situazione».

Il Governo di Israele è sembrato riluttante di fronte ai rischi di un’operazione militare via terra. Ma "sradicare Hamas" solo con i bombardamenti sembra impossibile. Al contrario, le sofferenze dei civili rischiano di far crescere ancora il consenso dei palestinesi intorno al movimento radicale. Lei che cosa ne pensa?

 «In teoria un’operazione via terra dovrebbe trasformarsi in una caccia all’uomo, bisognerebbe prenderli uno a uno, casa per casa. Credo che la speranza sia di esercitare un’opera di dissuasione sulla base palestinese, che nel 2006 ha scelto Hamas in libere elezioni democratiche, per ottenere un ravvedimento simile a quello che, sia pur all’ultimo momento, si ebbe in Italia rispetto al fascismo. Anche se a questi livelli di fanatismo e di lavaggio del cervello, le nostre logiche razionali occidentali rischiano di non funzionare».

 Non crede che Israele rischi ora di pagare un prezzo politico molto alto?

«Come dicevo, non credo che se Torino e Milano fossero colpite ogni giorno dai razzi la reazione sarebbe meno dura. A parte questo, bisogna tener conto di altri fattori. Il primo è che sulla "crisi umanitaria" aleggiano alcuni miti da sfatare. Per esempio: perché dai tunnel che da Gaza arrivano in Egitto possono passare i missili cinesi di contrabbando e non le pagnotte? Inoltre: quando è stato ucciso Nizar Rayan, il numero cinque di Hamas, la casa è esplosa perché ospitava un deposito di munizioni. Molte delle vittime civili sono causate dalla tattica di seminare riserve di armi in abitazioni comuni. Infine, in termini più strettamente politici, la grossa novità rispetto al passato è la spaccatura del mondo arabo, con la netta presa di distanza da Hamas da parte di Egitto, Arabia Saudita, degli stessi palestinesi di Cisgiordania. Con Hamas, in sostanza, è rimasto solo l’Iran di Ahmadinejad. La questione di fondo è questa: c’è un unico problema mondiale, che qui ha la faccia di Hamas, a Mumbai ne ha un’altra, a New York una terza, a Madrid e Londra altre ancora. Il mondo non vuole occuparsene, con l’eccezione degli Stati Uniti che pure hanno commesso molti errori, soprattutto quello di non capire che il pericolo non era l’Irak ma piuttosto l’Iran. Quindi tocca a Israele, purtroppo, fare il lavoro sporco anche per gli altri. Questo il resto del mondo occidentale lo ha capito, e infatti oggi è meno critico di prima».

Ma se è così, perché non isolare ancor più Hamas trovando un accordo con i palestinesi moderati di Cisgiordania guidati da Abu Mazen?

 «Un accordo con Abu Mazen è possibile, Ariel Sharon lo ha dimostrato, anche se certo non basterebbe a far rinsavire Hamas. Io sono favorevole all’ipotesi, con relativo ritiro di Israele dalla Cisgiordania. Ma allora si ragiona nella prospettiva di due Stati palestinesi, distinti e diversi, senza alcun collegamento diretto tra Gaza e la Cisgiordania. E in più, vorrei sapere una cosa: che cosa succederebbe il giorno in cui da quelle parti non ci fosse più Israele a fare attività di polizia e controllo del territorio? Quali garanzie avremmo rispetto a eventuali attentati? Abito a Gerusalemme, il mio appartamento è all’ultimo piano, sopra di me c’è solo il tetto. Mi darebbe un certo fastidio veder arrivare un missile anche lì...».


Famiglia Cristiana nel numero 2 in edicola pubblica un articolo di Fulvio Scaglione intitolato “Contro Hamas sulla pelle di Gaza”. L’analisi riprende le tesi filopalestinesi del settimanale cattolico, ripropone l’atteggiamento pietista a senso unico senza lasciare spazio alle evidenti ragioni del Stato d’Israele che, come ogni democrazia, ha fra i suoi scopi precipui la difesa dei propri cittadini.

 Mister Munib? No, qui Mister Mohammad. Solo la grazia infusa dei bambini può inserire un lampo di umanità in giorni in cui pare bandita ogni pietà. Ma appena Mohammad, 12 anni, passa il telefono al padre Munib, la realtà di Gaza riprende, inevitabile, il sopravvento. Munib Abu Ghazala è il direttore della Al Amal Orphan Society, l’organizzazione di assistenza agli orfani che opera a Gaza fin dal 1949. Amal in arabo vuol dire speranza, un’idea che ora pare del tutto assente dalle parole e dai pensieri di Munib. «Abbiamo nell’istituto 100 ragazzi tra maschi e femmine, tutti privi di uno o entrambi i genitori. Abbiamo dovuto disperderli in fretta e furia presso i parenti, non potevamo rischiare tenendoli tutti insieme in uno stesso luogo, perché gli israeliani bombardano anche edifici che non rappresentano una minaccia per nessuno come le moschee, i ministeri, le scuole. Vogliono solo terrorizzare la popolazione, questo è il loro unico obiettivo».

Munib ha dovuto rimandare dai parenti («Non dalla madre, che è sola e psicologicamente instabile») anche Ahmed Al Awadi. È il fratello minore di un altro Mohammad, morto sotto le bombe che hanno colpito la stazione di polizia di Gaza. «Era un ragazzo a cui tenevo particolarmente», dice Munib Abu Ghazala, «perché era molto timido ma anche molto intelligente. Voleva diventare un esperto di computer graphic e il primo giorno dei bombardamenti era andato a scuola per dare gli esami della sessione invernale. Non l’abbiamo visto rientrare e così abbiamo cominciato a cercarlo ovunque. Gli ospedali erano nel caos più completo, solo a sera l’abbiamo trovato, in un mucchio di feriti e moribondi. Aveva perso conoscenza, nessuno aveva saputo identificarlo. È morto senza risvegliarsi».

Ascolto sullo sfondo le voci degli altri figli di Munib, 6 anni e 3 mesi d’età. Chiedo che cosa fanno per proteggersi dalle bombe. «Ci chiudiamo in casa, ecco tutto», risponde lui. «D’altra parte non c’è rifugio per nessuno, qui a Gaza, le armi di Israele sono troppo potenti. Nell’edificio accanto alla stazione di polizia c’era un rifugio sotterraneo. Le bombe lo hanno abbattuto e la gente è rimasta intrappolata sotto terra, si sentivano le urla di terrore da sotto le macerie. Nella moschea c’era un sotterraneo profondo cinque metri ma le bombe hanno spazzato via tutto e tutti anche lì. La realtà pura e semplice è che non c’è nulla che possiamo fare per difenderci o proteggerci».

Dopo l’interruzione della tregua e i lanci di missili dalla Striscia di Gaza, molti prevedevano una reazione armata di Israele. Vi aspettavate un attacco così duro? Munib risponde senza esitare: «No, nessuno qui si aspettava tanta violenza. Nel consiglio della Orphan Society ci sono persone che lavorano a Gaza e con gli orfani da quarant’anni e tutti sono d’accordo: mai vista una cosa così. Però vorrei dire questo: a me, personalmente, non piace la politica della violenza, dei missili, della guerra. Ma qui il problema di fondo non sono i missili. Io ho sempre vissuto a Gaza, tranne un periodo di studio negli Usa, e ho sempre assistito alla continua e scientifica umiliazione di un popolo. La mia vocazione sarebbe quella del commerciante, infatti nel 1991 mi ero messo in proprio. All’inizio le cose andavano bene, poi pian piano tutto è diventato sempre più difficile finché, nel 1996, ho dovuto smettere. E sa qual era il mio problema? Non Hamas o i missili, ma l’arbitrio dei controlli alla frontiera, dove qualunque soldato, anche un ragazzino, poteva decidere a piacimento della mia vita, se farmi passare o farmi aspettare tre o quattro ore, se dare via libera alle mie merci o bloccarle per qualche immaginaria ragione di sicurezza. E questa è stata la mia vita sempre, giorno dopo giorno».

 Il ministro degli Esteri di Israele, Tsipi Livni, ha detto "no" a una tregua sostenendo che nella Striscia di Gaza non c’è alcuna emergenza umanitaria. Che cosa ne pensi? «La mia famiglia, per fortuna, è a posto, almeno finora. Comunque il ministro ha ragione: non c’è alcuna nuova emergenza perché viviamo da anni in piena emergenza. La Orphan Society non riceve alcun finanziamento dallo Stato, viviamo di donazioni private e ce la siamo sempre più o meno cavata. Quest’anno, però, all’inizio dell’inverno ho dovuto come al solito procurare abiti pesanti per i ragazzi. Sono cento, sarò riuscito a trovare roba decente sì e no per trenta di loro. Non c’è nulla, manca tutto. Anzi, è peggio di così. Prima che cominciassero i bombardamenti, uno andava nei negozi e si sentiva preso in giro: il pane inutile cercarlo, le medicine introvabili, ma maionese o condimenti quanti ne volevi, a montagne. Quando parlano di aiuti o di apertura dei valichi, è questo che intendono, è questo che poi davvero arriva alla gente di Gaza».

TRE DOMANDE A ISRAELE

Una delle poche cose chiare di questa guerra è che il mondo tace e Israele, tranne l’Iran e in parte il Libano di Hezbollah, ha ottenuto un tacito mandato internazionale a farla finita con Hamas. Per questo i veri amici di Israele, e quindi noi per primi, hanno il diritto di porre alcune domande.

 

 

  1. Quale prezzo Israele vuol far pagare alla gente della Striscia di Gaza? Hamas provoca ma Israele reagisce e del "come" porta la responsabilità. Le sue giuste ragioni, e la propaganda, hanno mosso una forte campagna perché si respinga l’argomento della "risposta sproporzionata". Resta il fatto che Israele può radere al suolo Gaza mentre Hamas non può radere al suolo Israele. Questo conta, visto che la differenza d’impatto si scarica sui civili.

     

  2. "Sradicare Hamas", ecco l’obiettivo secondo il premier Olmert, il ministro della Difesa Barak, il ministro degli Esteri Livni. Per sostituirlo con...? Una seconda occupazione israeliana? No, dice Israele. Forse l’Onu? Difficile. Nella guerra del 2006 l’idea era di "sradicare Hezbollah dal Libano". Ora Hezbollah governa il Libano. Ci pensino quelli che, oggi come nel 2006, "tifano" Israele come se la guerra fosse solo un derby.

     

  3. Proprio il professor Della Pergola, che qui intervistiamo, ci ha insegnato che entro il 2050 nella Palestina storica gli ebrei, che oggi sono il 50% degli abitanti, saranno solo il 35%. Il futuro, dunque, dice: o guerra permanente con tutti o accordo con alcuni degli attuali nemici. Perché, allora, non si comincia con i palestinesi moderati guidati da Abu Mazen?

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