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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
06.11.2008 Computer, acqua potabile, strade: è quel che hanno portato i soldati italiani in Libano
anche per questo per i libanesi sono i benvenuti, a differenza delle nostre aziende

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 06 novembre 2008
Pagina: 1
Autore: Carlo Remeny
Titolo: «Italiani benevenuti»

FAMIGLIA CRISTIANA nel numero 45  in edicola questa settimana pubblica un articolo di Carlo Remeny intitolato “Italiani benevenuti”

 

L’articolo analizza l’impegno dei soldati italiani e la buona accoglienza riservata loro dalla popolazione libanese. Hanno portato computer, costruito pozzi per l’acqua potabile, sistemato strade: la gente è soddisfatta dei militari.

 

Purtroppo il modo di lavorare delle nostre aziende,  presenti in Libano grazie agli appalti del ministero della Difesa, per effettuare lavori di costruzione e fornitura di servizi presso le basi del contingente italiano,  non riscuote il medesimo consenso.

 

Cosa pensano i locali della presenza italiana nel Libano del Sud? Lo abbiamo chiesto girando per i villaggi della zona. I militari, arrivati dopo il conflitto dell’estate 2006, godono di generale simpatia. Prendiamo, ad esempio, Yater, 9 mila anime, la cui economia è basata sulla produzione di tabacco e sull’agricoltura. Qui, nel 2006, 14 persone rimasero uccise, 240 case distrutte e 250 gravemente danneggiate.

 

Nel settembre di due anni fa, funzionari italiani hanno bussato alla porta del vicesindaco Hussein Sweidan, chiedendogli cosa servisse agli abitanti. Questi ha risposto: illuminazione pubblica. Quattro mesi dopo, 140 pali della luce erano già al loro posto: costo complessivo di circa 30 mila dollari. A lavorare sul progetto sono stati tecnici del contingente italiano con operai locali. Al municipio, dice Sweidan, è stata fatta una festa per ringraziare gli italiani.

 

Adesso c’è un nuovo progetto in fase di pianificazione: acqua potabile a 400 edifici del paese. La fonte è stata individuata ad alcune centinaia di metri di profondità. Si tratta di deporre le tubature per collegare le case al pozzo. I costi saranno sempre attorno ai 30 mila dollari. A Sweidan chiediamo se sia vera la notizia, data tempo fa da un giornale libanese, secondo cui i militari italiani distribuiscono dolci ai bambini dei villaggi, in cambio di informazioni su Hezbollah. «Sono i bambini che chiedono ai soldati cioccolatini, caramelle, e, quando non vengono esauditi, cominciano a lanciare loro sassi», ci spiega.

 

Uno spiacevole episodio, all’inizio, c’è stato. Nel settembre 2006, racconta Moussa Sweid, otto soldati italiani sono entrati nel negozio di articoli militari a Haris. Dopo aver distratto il commesso, hanno rubato scarponi e molti coltelli. Il proprietario li ha denunciati al comando italiano di Tibnin, da dove è giunto un ufficiale, riportando indietro gli articoli sottratti e recando le scuse ufficiali. Ora, lo stesso negozio è regolarmente meta delle visite dei soldati, i quali acquistano soprattutto magliette: «Gli italiani preferiscono quelle senza scritte, i francesi le vogliono con i simboli di Hezbollah», ci dice Sweid.

 

Cambia il villaggio, ma non il giudizio positivo sui militari italiani. A Jbal ci riceve il sindaco Oussama Mhanna, farmacista di 36 anni. Sulla scrivania tiene una foto che lo ritrae con un ufficiale italiano del contingente che, sino a sei mesi fa, era a capo del Dipartimento S 5, struttura per il servizio civile con sede a Maarake. Mhanna è entusiasta.

 

«Dagli italiani abbiamo ricevuto 300 contenitori per rifiuti», racconta. «Ci hanno portato 10 computer per la scuola e hanno già preso impegni per allestire laboratori di chimica e fisica. Hanno ampliato le strade asfaltate per quasi due chilometri. Tutte le settimane viene un dottore italiano e sono da 20 a 30 le persone che si fanno visitare. Hanno organizzato un corso di italiano. C’erano circa 25 studenti. Io, purtroppo, ho potuto partecipare solo una volta».

 

A Jbal gli abitanti sono poco più di 2 mila. Si vive di olive, tabacco, agricoltura, e tanti sono gli emigrati all’estero. Il sindaco non ha mai avuto contatti con altri militari stranieri che non fossero italiani: «Hamdulillah! Grazie al cielo! Vedo i francesi. Hanno la puzza sotto il naso». Gli diciamo che la missione internazionale da queste parti potrebbe durare a lungo: «Per me, gli italiani possono rimanere anche per cinquant’anni», sentenzia con una fragorosa risata.

 

Il responsabile di un villaggio a sud di Tibnin dice che «la resistenza libanese (Hezbollah) è presente: è la gente del posto. Non esibisce le armi, ma sorveglia l’operato dei militari stranieri e cerca di proteggerli da attacchi di estremisti islamici salafiti». Ci viene in mente il generale cristiano Michel Aoun, che a Beirut ci aveva detto: «Hezbollah? È la popolazione in armi che funge da guerriglia sul proprio territorio!».

 

Nel nostro viaggio scopriamo che a Borj al Shamali il contingente italiano ha donato, lo scorso agosto, un generatore dell’Unità alla moschea Jameh al Wehda. A Tiro, presso la scuola Jabal Amel, gestita dalla Fondazione Imam Moussa Sadr (il padre del risveglio sciita in Libano, scomparso in Libia nel 1978, probabilmente su ordine del colonnello Gheddafi), che ha quasi 600 alunni, molti dei quali orfani, sono state create decine di postazioni di computer e più volte distribuiti aiuti alimentari alle famiglie più bisognose.

 

Se l’atteggiamento del personale militare italiano suscita generale consenso, non si può dire altrettanto delle ditte italiane, presenti in Libano grazie agli appalti del ministero della Difesa, per eseguire lavori di costruzione e fornitura di servizi presso le basi del contingente italiano. Una fonte libanese ci porta l’esempio di una grande azienda emiliana, leader nel suo settore, che ha avuto un appalto di diversi milioni di euro per costruire prefabbricati per abitazioni e cucine per i militari.

 

L’azienda ha subappaltato alla libanese Yamen di Sidone dei lavori, definiti di prova, per un importo di 80 mila euro, con la promessa di una successiva commessa di 2 milioni di euro, se i lavori fossero stati eseguiti per tempo e in modo ineccepibile. Il contratto prevedeva il pagamento dopo 30 giorni, a seguito dell’accertamento dello stato di avanzamento dell’opera, ma, sebbene questa fosse stata ultimata, ci sono voluti più di sei mesi, ripetute minacce dei lavoratori della Yamen di protestare davanti alla base italiana di Maarake, riunioni su riunioni tra i responsabili militari italiani, rappresentanti del ministero della Difesa e dell’azienda stessa, per ottenere il pagamento.

 

L’azienda italiana, per "punire" la Yamen dell’insistenza con cui ha sollecitato i soldi, si è scelta adesso un altro partner locale, con cui si stanno già creando le stesse complicazioni. «Qui, non c’è l’abitudine di saldare i conti a 90-120 giorni, o addirittura oltre, dalla fornitura dei lavori. Quando si ritira qualcosa, si paga», ci spiega un rappresentante libanese, il quale, essendo perfettamente bilingue, media tra aziende italiane e locali.

 

«Il proprietario della maggiore stazione di carburante di Maarake stava per picchiare il rappresentante di una ditta italiana che fornisce servizi di ristorazione all’interno delle basi, per un debito di alcune migliaia di euro, accumulato mese dopo mese con le auto aziendali».

 

I libanesi lamentano l’assenza di un riferimento ufficiale nel contingente italiano, a cui rivolgersi nel caso di controversie con le aziende italiane, comprese quelle sul rispetto dei diritti dei lavoratori. La postilla, che a margine dei contratti attribuisce ai tribunali italiani la competenza, suscita non poca perplessità, e può compromettere la buona reputazione guadagnata dai soldati.

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