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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
12.03.2008 Denuncia a senso unico
quella di un funzionario dell'Onu sul settimanale cattolico

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 12 marzo 2008
Pagina: 0
Autore: John Holmes
Titolo: «Lo stretto varco della pace»

FAMIGLIA CRISTIANA nel numero 11 in edicola questa settimana pubblica un articolo di John Holmes, coordinatore degli aiuti di emergenza per le Nazioni Unite e vicesegretario generale dell’ONU per gli Affari umanitari intitolato “Lo stretto varco della pace”.

 

L’articolo illustra la drammatica situazione degli abitanti della Striscia di Gaza nella quale ad essere più colpiti sono i “bambini, anziani e infermi”. Se l’accenno al lancio dei missili Qassam da parte dei “militanti palestinesi” risulta fugace, è invece con dovizia di particolari che Holmes richiama l’attenzione sulla “disperazione e il senso di umiliazione” provati dalla popolazione di Gaza.

 

Se si invita Hamas a cessare i lanci di missili (senza peraltro proporre alcuna concreta soluzione in tal senso) si ribadisce che gli abitanti di Gaza “non dovrebbero essere puniti per gli atti criminali di una minoranza violenta”. Ed è sottinteso che la responsabilità di questo stato di cose è da attribuirsi ad Israele. Ma non è forse una  "punizione collettiva" quella che debbono subire gli abitanti di Sderot quando rischiano di morire ogni giorno per il continuo  indiscriminato lancio di missili Qassam?  Israele non compie azioni militari indiscriminate, i civili palestinesi colpiti sono dovuti al fatto che i terroristi agiscono dai centri abitati.

Infine per Holmes l’obiettivo è creare due Stati “che possano vivere l’uno di fianco all’altro in pace”, obiettivo che ricordiamo è sempre stato prioritario nella politica israeliana. Per Hamas, che ha vinto le elezioni nel 2006 e ha occupato “manu militari” la Striscia nel giugno dello scorso anno, rimane invece prioritario distruggere Israele: il recente tragico attentato a Gerusalemme nel quale sono stati uccisi otto giovani studenti ne è l’ennesima conferma.

 

 

Sono stato di recente a Gaza, una vera e propria pentola a pressione pronta a esplodere da un momento all’altro. La profonda angoscia che ho visto negli occhi delle persone, non è che un riflesso dell’abisso tra le false speranze di un’auspicabile pace in Medio Oriente e la dura realtà di una situazione che continua a deteriorarsi nella Striscia di Gaza, un divario che potrebbe rivelarsi fatale per il processo di pace oltre che danneggiare una delle popolazioni più numerose e che da più tempo vive nella condizione di rifugiata.

 

Il milione e mezzo di persone che abitano a Gaza, metà delle quali minorenni, soffrono dure limitazioni alla libertà di movimento, ulteriormente ridotta da Israele dopo la vittoria di Hamas dello scorso giugno. In settembre, il Governo israeliano ha dichiarato Gaza "territorio ostile", con un’ulteriore stretta del "cappio economico". La popolazione subisce sempre di più gli effetti della carenza di rifornimenti e risorse che colpisce in particolare i più deboli: bambini, anziani e infermi.

 

Voglio essere chiaro. Le preoccupazioni israeliane per quel che concerne la sicurezza sono comprensibili. I lanci indiscriminati di razzi da parte dei militanti palestinesi da Gaza verso Israele devono cessare immediatamente. È da escludersi qualsiasi tipo di legittimazione per questi atti criminali, che condanno fermamente.

 

Ma in questo momento Gaza ha un disperato bisogno di rifornimenti continui di cibo, di prodotti e pezzi di ricambio necessari per evitare il crollo dei suoi sistemi energetici, idrici e sanitari.

 

Quasi l’80 per cento della popolazione di Gaza si affida all’assistenza alimentare fornita dall’Onu e da altre organizzazioni umanitarie. Dal giugno 2007, l’85 per cento dei siti industriali e manifatturieri sono stati costretti a chiudere, e il tasso di disoccupazione è così salito al 50 per cento.

 

La mancanza di elettricità e carburante sta provocando un rapido deterioramento del funzionamento dei sistemi idrici ed energetici; la qualità dell’acqua sta peggiorando rapidamente – quella potabile rimane di difficile accesso per la maggior parte della popolazione –, 40 milioni di litri di acque nere vengono inoltre scaricati ogni giorno nel Mediterraneo, provocando gravi danni ecologici.

 

Ma ciò che a Gaza manca più di qualsiasi altra cosa è la speranza, il più essenziale dei bisogni umani. Garantire una speranza duratura, necessaria a contrastare la crescita dell’estremismo, rimane un compito politico che richiede, sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi, leader responsabili, capaci di assumersi i rischi necessari per il raggiungimento della pace.

 

La disperazione e il senso di umiliazione che si prova in quella che è un’enorme "prigione a cielo aperto" possono solo essere immaginati. Siamo di fronte a una polveriera pronta a esplodere. Ma non è nell’interesse di nessuno, men che meno in quello della sicurezza di Israele, assistere all’esplosione.

 

Come possiamo dunque alleviare la sofferenza e smorzare la tensione? In primo luogo, le organizzazioni umanitarie hanno bisogno di un immediato, illimitato e regolare accesso di tutti i loro beni e del loro personale. Le Nazioni Unite hanno 213 milioni di dollari in progetti umanitari e di sviluppo bloccati a causa della mancanza di materie prime, cemento in particolare. Ho fatto pressione sui leader israeliani, perché permettano l’ingresso delle forniture essenziali all’avvio immediato dei progetti.

 

In secondo luogo, se da una parte gli aiuti umanitari sono cruciali, è però vero che da soli non possono alleviare la sofferenza: il valico di Gaza deve essere riaperto. Senza un libero flusso di merci e lavoratori, in ingresso e in uscita da Gaza, il settore privato non è in grado di garantire l’impulso necessario a rivitalizzare la moribonda economia locale.

 

L’apertura del principale ingresso commerciale di Karni è il primo passo necessario per raggiungere questo obiettivo. L’Autorità palestinese ha avanzato delle proposte costruttive su come ciò possa avvenire senza rappresentare un pericolo per la sicurezza di Israele. Invito tutte le parti a considerare seriamente queste proposte e a trovare una soluzione per assicurare un livello di sicurezza accettabile.

 

Hamas, dal canto suo, deve porre fine, immediatamente e senza condizioni, ai lanci di missili Qassam. Sono indiscriminati: feriscono e uccidono civili, oltre a provocare reazioni economiche e militari che non fanno altro che peggiorare il dramma degli abitanti della Striscia.

 

La risposta israeliana allo strangolamento economico di Gaza non è compatibile con i suoi obblighi in termini di diritto umanitario internazionale. Anche questo dunque deve cessare. La maggior parte della popolazione di Gaza non dovrebbe essere punita per gli atti criminali di una minoranza violenta ed estremista. L’attuale situazione non può che generare più violenza e sofferenza.

 

Infine, concentriamoci sull’obiettivo di creare due Stati che possano vivere l’uno di fianco all’altro in pace, gettando le fondamenta per un futuro più sicuro e prospero per le loro popolazioni. Allo stato attuale delle cose, tutto questo può sembrare ambizioso, ma nel lungo termine è l’unica via percorribile. Non si può forgiare la pace sull’incudine dell’ira e con la negazione della dignità umana. L’unico modo efficace per porre fine a tutta questa sofferenza è un rapido raggiungimento di un accordo di pace giusto e duraturo.

 

Su questo dovrebbero concentrarsi tutti i nostri sforzi, perché la speranza prenda il posto dell’odio.

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