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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
28.02.2008 La realtà a senso unico
come di consueto antisraeliano

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 28 febbraio 2008
Pagina: 0
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Niente libera uscita»

Famiglia Cristiana nel numero 9 di questa settimana pubblica un articolo di Fulvio Scaglione intitolato “Niente libera uscita”, un pezzo che non si discosta troppo dalle analisi proposte nel numero precedente. In questa “seconda puntata di Cristiani in Terra Santa” ritroviamo una costante però: il giudizio negativo, la condanna rivolta ad Israele.

 

Nella prima puntata il settimanale cattolico ritiene che l’atteggiamento dei mussulmani non costituisca un problema per i cristiani e che non sia ascrivibile ai soprusi e alle violenze degli arabi palestinesi la fuga di molte famiglie cristiane: i problemi sono altri, il muro e i posti di blocco.

 

Questa settimana i medesimi concetti vengono ripresi da un’altra prospettiva: se i religiosi non possono svolgere le loro funzioni dipende“dal regime dei visti concessi da Israele”, dalle lungaggini burocratiche, dai controlli eccessivi, il tutto ovviamente è responsabilità di Israele.

 

La realtà non è così “lineare” e a senso unico.

 

Un esempio per tutti: monsignor Capucci trasportava nella sua vettura kalashnikov e armi destinati al “povero popolo palestinese”.

 

Grazie ad un controllo dei militari israeliani è stata scoperta la sua attività di ……“messaggero di pace”!

 

 

Il regime dei visti concessi da Israele rende difficile le attività pastorali. E nel clero cresce l’esasperazione per quella che è vissuta come una strategia per intimidire la Santa Sede.

 

Se lasciamo per un attimo da parte le questioni drammatiche che affliggono l’intera regione (il conflitto tra Israele e i palestinesi, la divisione tra i palestinesi stessi, il radicalismo di Hamas, la crisi economica, il Muro, il terrorismo...) e che quindi colpiscono l’intera sua popolazione a prescindere dalle razze e dalle fedi, la minaccia più seria alla presenza dei cristiani di Terra Santa ha nome mite e aspetto inoffensivo, quelli del timbro e dell’inchiostro che servono a mettere un visto sul passaporto.

 

Per spiegare come funziona serve un breve riepilogo. Il territorio del Patriarcato latino di Gerusalemme si estende sulla Palestina storica (nei termini della politica contemporanea: Israele e l’Autorità palestinese), sulla Giordania e su Cipro, secondo i confini stabiliti dal Vaticano quando la diocesi fu ricostituita nel 1847. È chiaro, quindi, che il personale religioso, preti e suore, è in gran parte composto da palestinesi e stranieri della più diversa provenienza. L’unico seminario della diocesi, inoltre, ha sede a Beit Jala, nei pressi di Betlemme, cioè nel territorio dell’Autorità palestinese, dove studiano seminaristi che in misura più o meno pari sono palestinesi o cittadini dello Stato di Giordania.

 

Stabilita questa sommaria geografia, passiamo ai fatti. Fino a qualche anno fa, lo Stato di Israele concedeva a sacerdoti e suore visti d’ingresso multipli con cadenza biennale. Tradotto dal burocratese significa: un sacerdote giordano, impegnato in una parrocchia in Palestina, poteva entrare e uscire quante volte voleva e ogni due anni doveva rifare il visto. Negli ultimi anni la normativa è cambiata: visto valido un anno e una sola entrata. Traduzione: se un sacerdote giordano esce dalla Palestina (i cui confini esterni sono controllati dallo Stato di Israele), non può rientrare, deve rifare tutto da capo. La misura all’inizio era applicata agli Stati considerati "nemici" da Israele, ma ora riguarda anche Egitto e Giordania, gli unici Paesi arabi ad aver firmato un trattato di pace (l’uno il 26 marzo 1979, l’altra il 26 ottobre 1994) con lo Stato ebraico.

 


Dopo la geografia e il meccanismo, le conseguenze. Facciamo il caso di padre Firaz Aridah, 33 anni, parroco di Aboud, nei Territori palestinesi. È cittadino della Giordania, quindi se per caso un suo parente stesse male lui dovrebbe scegliere tra visitarlo (e così spendere l’unica "uscita" concessa dal regime dei visti) o continuare a seguire i parrocchiani. Un esempio limite?

 

No, al contrario. Padre Aridah ha perso un cugino in un incidente d’auto in Giordania e non ha potuto partecipare ai funerali. Non solo: lo stesso sacerdote, investito nei pressi di Aboud da un automobilastro, è stato a sua volta curato per un ematoma cerebrale. Cure poi sospese per la solita alternativa: uscire senza sapere quando si potrà rientrare o andare in ospedale in Giordania.

 

Altrettanto vale per i seminaristi di Beit Jala: i ragazzi giordani a Natale non sono rientrati a casa perché l’attesa del visto avrebbe compromesso l’anno scolastico: il tempo medio di attesa per ottenere un nuovo visto è sui 3-4 mesi e non vi è alcuna garanzia di ottenerlo.

 

Detto così potrebbe sembrare un problema di vacanze. Bisogna però aggiungere la variante del Muro (o barriera di separazione) che ormai cinge gran parte dei Territori. I palestinesi possono attraversarlo solo se muniti di un permesso rilasciato dalle autorità di Israele, che comunque limita gli orari della visita e i punti di ingresso e uscita, vieta l’uso dell’auto e può essere revocato in ogni momento a discrezione delle autorità.

 

In pratica: i preti e i religiosi palestinesi sono in grande difficoltà nel lavoro pastorale dentro la diocesi, che non fa distinzione tra Territori e Israele, come detto all’inizio. Se il Patriarca, per esempio, convoca una riunione o organizza un ritiro spirituale a Gerusalemme, i preti di Betlemme (10 chilometri) non sanno se potranno partecipare, perché i loro movimenti dipendono dai permessi. I sacerdoti giordani che lavorano nei Territori sono di fatto costretti a far scadere i visti, e quindi restano bloccati nelle loro sedi. Se escono dai Territori ed entrano in Israele, possono essere acchiappati e accompagnati alla frontiera, perché per Israele risultano "clandestini" a causa del visto scaduto. Se provano a rinnovare il visto, devono aspettare mesi e mesi, da passare in Giordania a mangiarsi le mani o nei Territori, appunto, da clandestini.

 

In questa situazione si trova parte consistente del clero del Patriarcato latino. Significa che in tempi brevi (la prossima estate) le attività della diocesi potrebbero di fatto bloccarsi, una decina di parrocchie restare senza sacerdote, l’anno 2008-2009 del seminario (che dal 1852 a oggi ha formato ben 256 sacerdoti) essere in forse. E se succede tutto questo alla struttura della Chiesa, che cosa sarà della comunità dei fedeli?

 

Nessuno può negare a Israele il diritto di proteggere i confini e garantire la sicurezza nel proprio territorio. Ma le norme che abbiamo descritto hanno un effetto indubbio: ostacolano le attività della Chiesa e della comunità cristiana di Terra Santa fino a metterne a repentaglio l’esistenza. Mentre l’Accordo fondamentale del 1993, siglato tra Santa Sede e Stato di Israele ma mai ratificato dalla Knesset (il Parlamento israeliano), esplicitamente afferma il diritto della Chiesa alla libertà d’azione.

 

E qui si apre il capitolo più scabroso. Nel clero cattolico cresce l’esasperazione. Per le difficoltà oggettive. Per gli inevitabili risvolti etnici. Ho raccolto lo sfogo di un sacerdote palestinese: «Sono nato qui, la mia famiglia è sempre vissuta qui. Io non posso muovermi per la mia terra mentre un ebreo etiope o americano lo può fare. È giusto?». Ma soprattutto per quella che molti giudicano una strategia per intimidire la Santa Sede e sottilmente ricattarla nella lunghissima (dal 1997) e complessa trattativa sulle proprietà ecclesiastiche e sulle relative esenzioni fiscali che l’Impero ottomano garantiva e che lo Stato ebraico vuole invece ridiscutere.

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