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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
22.02.2008 L'alibi al fondamentalismo islamico lo fornisce Fulvio Scaglione
guarda caso si chiama Israele

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 22 febbraio 2008
Pagina: 0
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Il problema non è l’islam»

Famiglia Cristiana pubblica nel numero 9 di questa settimana un articolo di Fulvio Scaglione intitolato “Il problema non è l’islam”.

 

 

I cristiani abbandonano la Terra Santa non per colpa del “Muro” ma a causa dei soprusi che subiscono dagli arabi palestinesi senza contare le violenze degli estremisti di Hamas.

 

 

Non è un mistero. Basta leggere i giornali.

 

 

Anche un lettore di Famiglia Cristiana, consapevole di questa situazione, invia un commento preoccupato al settimanale cattolico.

 

 

Il giornalista però si affretta a tranquillizzare i cristiani d’occidente affermando fra l’altro che “la teoria della fuga dei cristiani dalla Terra Santa a causa della persecuzione islamica è una teoria di comodo”.

 

 

Inoltre ribadisce che, ovviamente, per i cristiani è più difficile vivere in un’Autorità palestinese debole, divisa  e “dipendente in tutto dalla volontà di Israele”.

 

 

Un modo come un altro per addossare la responsabilità a Israele …e nascondersi dietro a pseudo verità tranquillizzanti.

 

 

 

 

I parroci non hanno dubbi: «Da sempre qui conviviamo in pace con i musulmani, e continuiamo a farlo anche oggi. I guai sono altri, dalla crisi economica al Muro».

 
Frutto dell’offensiva, anche mediatica, del terrorismo islamico e insieme della propaganda orchestrata per combatterlo, è la convinzione che il primo, anzi l’unico, problema dei cristiani di Terra Santa sia l’islamismo. Ne è un tipico esempio il commento inviatoci da un lettore il quale, tra l’altro, afferma: «Nella città dove è nato Gesù, da quando Israele ha passato il controllo all’Autorità Palestinese la presenza cristiana è ormai insignificante». Lo stesso lettore sostiene che Hamas «ha fatto pulizia etnica della presenza cristiana in Palestina». Curiosa convinzione. Perché il fondamentalismo islamico è un problema grave (per non parlare del radicalismo anti-ebraico di Hamas) ma non è l’unico e nemmeno il più grave dei problemi dei cristiani di Terra Santa.

 

 

Per dire: il sindaco di Betlemme è un cristiano, come pure quelli di Bei Sahur e di Beit Jala, i due villaggi vicini. Nel Governo dell’Autorità Palestinese i ministri cristiani sono due su 16 (e i sindaci cristiani 10 in tutta la Palestina ), percentuale assai superiore a quella della popolazione cristiana, che oscilla tra l’1 e il 2 per cento. I cristiani lasciano Betlemme? È vero: dal 2000, con la seconda intifada, ne sono emigrati più di 3.000. Ma dalla stessa Betlemme, nello stesso periodo, sono partiti anche 4.500 musulmani, come rilevato dal sindaco (cristiano, ripetiamolo) della città. Gli slogan e le frasi fatte, dunque, servono a poco. Noi abbiamo provato a parlarne con i protagonisti: i cristiani della Palestina.

 

 


Non tutti hanno sentito parlare di Al Mahed. È l’unica televisione cristiana della Palestina e l’ha fondata, con enormi sforzi, un imprenditore cristiano palestinese di Betlemme che si chiama Samir Qumsieh. Nel 2004, Qumsieh pubblicò un rapporto in cui citava, documenti alla mano, 93 casi di violenze e soprusi compiuti tra il 2000 e il 2004 da gruppi islamici ai danni di cristiani. Rapporto affidabile se, per commentarlo, spese la sua parola anche padre Giambattista Pizzaballa, il Custode di Terra Santa. Gli anni presi in esame da Qumsieh sono quelli della seconda intifada, dei kamikaze nei centri commerciali e sugli autobus.

 

 

Si possono biasimare coloro che hanno fatto l’equazione estremismo palestinese uguale estremismo islamico uguale persecuzione dei cristiani? Tanto più che una lettura dei dati demografici sembra confermare il postulato: nei Territori palestinesi il numero dei cristiani è in lieve ma costante calo, mentre in Israele è stabile. È un fatto noto ed è andato subito sul conto della "persecuzione islamica", anche se sarebbe più logico pensare che per qualunque minoranza (i cristiani sono meno del 2 per cento della popolazione) sia più facile vivere in una democrazia forte, strutturata e vivace che non in un’Autorità come quella palestinese, debole, divisa e dipendente in quasi tutto dalla volontà di Israele.

 

 

La teoria della fuga dei cristiani dalla Terra Santa a causa della persecuzione islamica è una teoria di comodo. A molti torna utile appiattire la realtà palestinese su quella dell’estremismo islamico, per farla sparire dal tavolo della politica e inchiodarla al lato sbagliato della lotta tra il bene (la democrazia, la libertà, la tolleranza, l’Occidente) e il male (i fondamentalisti, i tagliatori di gole, gli assassini di civili, gli intolleranti). Quello che molti cristiani occidentali non capiscono è che in questo modo si fanno sparire anche i cristiani autoctoni di Terra Santa, che sono appunto palestinesi. Gli altri sono cristiani venuti da fuori, in gran parte religiosi, o quei russi (secondo alcune stime, 3-400.000 su un milione di immigrati) che negli anni ’90 hanno approfittato della "legge del ritorno" per diventare cittadini di Israele, ma che hanno radici ebraiche dubitevoli (nell’Urss si era considerati ebrei anche per parte di padre, mentre lo si dovrebbe essere solo per parte di madre) e sono cresciuti in ambienti cristiano-ortodossi.

 

 

Anche i dati andrebbero analizzati con più serietà. Prendiamo il caso di Betlemme. Nel 1948 i cristiani erano 6.000 su 8.000 abitanti. Grande maggioranza, dunque. Oggi sono 13.000 su 30.000, il 45 per cento: tenendo conto del tasso di nascite assai superiore presso i musulmani, possiamo parlare di esodo o, come fa qualcuno, di annientamento? E ancora: dopo la guerra tra arabi e israeliani del 1948, emigrarono 760.000 palestinesi. Di questi, 50-60.000 erano cristiani, pari al 45 per cento di tutti i cristiani censiti in Palestina nel 1945. E tra il 1967 e il 1993, tra la Guerra dei Sei Giorni e la formazione dell’Autorità palestinese, nel periodo cioè in cui Israele aveva il totale controllo della Palestina storica, emigrarono altri 12.000 cristiani. Che c’entra con quelli e con questi l’estremismo islamico?

 

 

Il tema è complesso e va maneggiato con cautela. Noi abbiamo provato a fare ciò che molti cosiddetti esperti, non per caso, non fanno mai: chiedere, in merito, l’opinione dei cristiani di Palestina. Non siamo i primi: nel 2006, il Sabeel Center, un centro studi ecumenico di Nazareth, ha realizzato un sondaggio tra i cristiani sul tema dell’emigrazione. Tra le ragioni per andarsene, il 44 per cento indicava la mancanza di lavoro, il 42 la situazione politica e solo il 3 per cento il fanatismo religioso. Abbiamo provato ad aggiungere a questi dati l’opinione di coloro che dei problemi e dei sentimenti delle comunità sanno tutto: sacerdoti e parroci.

 

 

Per primo padre William Shomali, nato a Beit Saur (il campo dei pastori del Vangelo) e oggi rettore del seminario di Beit Jala, i due centri che con Betlemme formano il "triangolo cristiano" dei Territori. I seminaristi, ai vari livelli di studio, sono 70, tutti hanno famiglia e relazioni che prima o poi passano per l’ufficio di padre Shomali. «Certo», dice il rettore, «dopo l’11 settembre le due comunità sono diventate più chiuse, più diffidenti. È facile, in questa situazione, che anche le contese private assumano valenze pubbliche, comunitarie. Ma la società palestinese è sempre stata sia cristiana sia musulmana, la tradizione di convivenza è secolare. Nelle autorità, inoltre, è assai viva la preoccupazione per la nostra sorte: pensano che dietro le nostre spalle ci sia il Vaticano e sanno che noi siamo il vero ponte per qualunque rapporto con l’Europa e l’Occidente. Se noi cristiani dovessimo andarcene, i più danneggiati sarebbero proprio i musulmani, e in generale i palestinesi tutti».

 

 


Eccoci a Ramallah, capitale dei Territori, sede dei ministeri e del mausoleo di Arafat. A poca distanza dalla Piazza dei Leoni c’è la parrocchia dove lavora padre Akhtam Hijazin. Che ha pochi dubbi: «I rapporti con i musulmani? Molto buoni, nessuna tensione». Si può pensare che padre Akhtam sappia ciò che dice, visto che la sua parrocchia ha una scuola con 500 ragazzi, al 40 per cento musulmani. «I problemi certo non mancano: la crisi economica, il Muro, il disordine… Ma tra le comunità le cose vanno bene e il fondamentalismo non è in testa alle nostre preoccupazioni».

 

 

Aboud è un piccolo paese molto travagliato. All’inizio degli anni ’80 parte degli uliveti fu espropriata dal Governo di Israele per costruire due grandi insediamenti. Nel 2004 un’altra parte degli uliveti (e delle fonti d’acqua) è stata ingoiata dal Muro, anche se da Aboud non è mai partito alcun terrorista e non c’è mai stato un solo episodio di ostilità tra coloni israeliani e palestinesi.

 

 

Mille persone nella comunità cristiana, altrettante in quella musulmana. E padre Firaz Aridah, il parroco, dice: «Noi siamo alla frontiera dei rapporti con Israele, si discute molto di politica. Discussioni che ruotano intorno alle posizioni dei partiti, non hanno mai una dimensione religiosa». Ad Aboud c’è una prodigiosa chiesa bizantina di 15 secoli fa. La cura una famiglia cristiana ma è visitata e rispettata da tutti.

 

 

E per finire, Bir Zeit, sede della prima università palestinese, frequentata da 10.000 studenti. Intellettuali e giovani, miscela perfetta per far ardere le passioni politiche. «Qui la politica è pane quotidiano», dice il parroco, don Aziz Halaweh, «l’attività dei partiti è frenetica e i giovani partecipano con intensità. Ma non ci sono contrasti tra cristiani e musulmani, le due comunità sono abituate a convivere e si rispettano. Certo, le teste calde non mancano ma sono individui, personaggi isolati. Problemi seri tra i gruppi non ce ne sono».

 

 

Mentono, questi parroci? O siamo noi che inseguiamo idee sbagliate? Vedremo nella prossima puntata quali sono le questioni che davvero li preoccupano.

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