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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
14.02.2008 Le certezze di monsignor Sabbah
una sequenza di mistificazioni storiche

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 14 febbraio 2008
Pagina: 0
Autore: Fulvio Scaglione
Titolo: «Due popoli uguali»

Famiglia Cristiana nel numero 7 pubblica un’intervista di Fulvio Scaglione a Monsignor Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme dal 1988, intitolata “Due popoli uguali”.

 

“Ha 75 anni e ora si dedicherà solo «a predicare il Vangelo». Ma non rinuncia a dire la sua: «Tra israeliani e palestinesi ci deve essere una totale uguaglianza. Oggi c’è oppressione».
Strenuo difensore della causa palestinese Monsignor Sabbah, dopo alcune considerazioni sulla sua vita di studioso e di docente espone le sue “certezze” sulla verità del conflitto israelo-palestinese.

 

1)   Il terrorismo dei kamikaze che si fanno esplodere nelle pizzerie, nei ristoranti uccidendo bambini, donne, adolescenti è legittimato dal “diritto di difendersi dei popoli oppressi”, in quanto usano gli stessi mezzi violenti degli Stati;

 

2)   Un altro assunto di monsignor Sabbah è: esiste l’occupazione militare e dunque ne consegue l’oppressione di un popolo. Non spiega però come mai a Gaza da quando Israele se ne è andata e Hamas ha preso il potere la violenza sia aumentata, anzi per il prelato “Questo non è un problema….i palestinesi discutono fra di loro”. I termini di questa “discussione” consistono in realtà  nel buttare giù dai palazzi gli oppositori delle fazioni rivali!

 

3)   Dinanzi all’obiezione di Fulvio Scaglione circa il mancato riconoscimento di Israele da parte di Hamas, il prelato non trova di meglio da rispondere che in realtà è “Israele che nega l’esistenza dell’intera Palestina, non solo quella di Hamas”. Affermazioni che si commentano da sé….

 

4)   Ancora. In Terra Santa i cristiani non sono perseguitati. “E’ un’idea falsa. Ci sono molti problemi ma anche molte ragioni per guardare al futuro con speranza”. Bisognerebbe dirlo a quelle famiglie cristiane che sono state costrette a fuggire da Betlemme a causa dei soprusi dei suoi amici palestinesi.

 

 

L’intervista prosegue con altre “perle di saggezza” , una sequenza di mistificazioni storiche che lasciamo al commento dei lettori di Informazione Corretta.

 

Scherzando, ha detto di sé: «Ho fatto il cammino inverso rispetto a Gesù». Perché Gesù nacque a Betlemme e crebbe a Nazaret mentre lui, monsignor Michel Sabbah, patriarca della Chiesa latina di Gerusalemme, è nato a Nazaret ed è cresciuto a Betlemme, nel seminario di Beit Jala, dove divenne sacerdote il 29 giugno 1955, a 22 anni. Questo senso dell’umorismo, sottile e sempre rivolto a sé stesso, è un tratto che colpisce nel patriarca. Tanto più ora che il tempo e le regole della vita consacrata lo chiamano a una fase importante: i 75 anni sono prossimi (è nato nel marzo del 1933), il successore è pronto. Un momento che monsignor Sabbah affronta… così.

 

  • Le mancherà il Patriarcato?

     

«Nulla manca, tutto viene da Dio e tutto torna a Dio. E dunque: missione compiuta, comincia un’altra vita. Anzi, è la stessa missione che continua, perché il compito del vescovo è triplice: amministrare, santificare, insegnare. Con le dimissioni lascio l’amministrazione, che qui prende non un terzo ma il 60-70 per cento del tempo, ma rimango sacerdote e vescovo per santificare e insegnare. Gli apostoli, quando ebbero qualcosa da amministrare, istituirono i diaconi proprio per affidare loro quel compito. Poi, dopo alcuni secoli, qualcosa avvenne nella Chiesa perché i vescovi ripresero l’amministrazione e affidarono ai diaconi il Vangelo. Con queste dimissioni, dunque, io torno al primo compito degli apostoli: predicare il Vangelo. Torno alle origini».

 

  • Con lei, però, si accomiata il primo patriarca palestinese nella storia della Palestina. Quando lei venne eletto, nel gennaio del 1988, le reazioni furono in certi casi clamorose...

     

«È vero. La nomina fu notata anche in alcuni Paesi arabi che non avevano mai sentito nominare il patriarca di Gerusalemme. In Giordania fu presa come un atto straordinario, ci fu un’udienza in Parlamento e un incontro col principe reggente e con lo stesso re. Molti palestinesi la accolsero come il segno che doveva iniziare una fase nuova. E poi, era appena scoppiata la prima intifada e alcuni esaminarono la mia nomina anche alla luce di quei fatti».

 

  • Si ritrovò subito arruolato…

     

«Eh, sì».

 

  • E dal punto di vista strettamente ecclesiale, che cosa significò la nomina di un palestinese?

     

«In realtà fu solo la conclusione di un processo ecclesiale molto logico. Quando il primo patriarca Giuseppe Valerga tornò qui per far ripartire la diocesi, secondo la volontà di papa Pio IX, portò con sé un clero internazionale. I sacerdoti erano italiani, francesi, tedeschi, olandesi… Ma la prima cosa che il patriarca Valerga fece fu proprio istituire il seminario per il clero locale. Trovò anche delle opposizioni, perché a quell’epoca non tutti credevano che questa terra potesse dare vocazioni, ma lui stesso, durante la sua vita, riuscì a ordinare 12 sacerdoti originari di Nazaret, Betlemme e Gerusalemme. Clero locale vuol dire sacerdoti, parroci, vescovi e infine anche un patriarca: un cammino molto normale nella vita della Chiesa. E poi bisogna notare che il mio predecessore era italiano ma era stato educato nel nostro seminario, e parlava bene l’arabo. Quindi è vero che sono stato il primo patriarca palestinese, ma il secondo del clero locale. Anzi, sono secondo anche come palestinese: dopo san Pietro».

 

  • Sua Beatitudine, mi aiuti: almeno dal punto di vista delle sue emozioni personali…

     

«Le mie emozioni furono legate soprattutto al fatto che nel 1988 ero un semplice parroco e non mi aspettavo un simile incarico. Sa, passare dalla vita della parrocchia a quella della curia, con segretari, cancellieri, portinai… E poi era una grande responsabilità, avevo un sacco di cose da imparare».

 

  • Prima di diventare patriarca, lei ha avuto una lunga esperienza come studioso e docente. Poi, da patriarca, ha avuto un ruolo assai diverso, molto più pubblico e in un certo senso anche "politico". È stato duro il salto?

     

«Certo, ci sono state delle difficoltà, ma in linea di principio non c’è nessun salto tra i due ruoli. Questa "politica" cui lei fa riferimento è stata solo predicazione del Vangelo. Gesù ha detto: amatevi, il vostro nemico è il vostro prossimo, cercate la giustizia. Dire che c’è ingiustizia e c’è oppressione, che c’è odio, che non si deve uccidere e invece c’è gente che viene uccisa, è solo Vangelo. Certo, è Vangelo nella politica e quindi disturba. Simeone disse a Gesù: "Sarai un segno di contraddizione". Vale per ogni cristiano: più predica il Vangelo nelle situazioni difficili, più è segno di contraddizione. Molti magari sono scontenti, ma proprio questo è il criterio per dire se si lavora bene: se tutti sono contenti, vuol dire che non hai detto niente di significativo, hai detto poco la verità. E oggi, in giro, c’è cortesia, diplomazia, ma poca verità. A partire dalla verità sul conflitto tra Israele e i palestinesi».

 

 

  • E qual è, secondo lei, la verità taciuta su questo conflitto?

     

«L’uguaglianza tra i due popoli. Ciò che è dovuto al popolo israeliano è dovuto anche al popolo palestinese. Lo Stato? La terra? Sì, ma per entrambi. E poi non si vuole affrontare una semplice domanda: perché certi palestinesi sono diventati violenti e terroristi? La questione non si pone, anche se sono diventati violenti a causa dell’oppressione esercitata su di loro. Quando si parla di Stati non si tira mai in ballo il terrorismo, tutto ciò che fanno è considerato legale e giustificato dalla difesa dei cittadini. I popoli oppressi, invece, non hanno il diritto di difendersi: se usano gli stessi mezzi violenti usati dagli Stati, sono terroristi, e tutti e due uccidono innocenti assieme ai militari o militanti. Ebbene, noi diciamo no sia alla violenza di Stato sia a quella dei gruppi terroristici. Mantenere l’oppressione e l’occupazione è una tendenza pericolosa, che tra l’altro non serve a proteggere la società israeliana né quella degli altri Paesi, perché ormai il terrorismo mondiale incomincia a saldarsi alla questione palestinese mai risolta, e questo fa paura a tutti. Noi, qui, abbiamo una malattia cronica, l’occupazione militare israeliana, e l’oppressione d’un popolo. Bisogna cominciare a curare questa malattia per sperare di vincere il terrorismo».

 

  • Lei ha accennato allo Stato per i palestinesi. In questo momento, però, una simile soluzione pare lontanissima. Abbiamo addirittura due semiStati palestinesi che sono quasi arrivati a combattersi...

     

«Questo è un problema ma non deve diventare una scusa. I palestinesi discutono tra loro, è una questione interna che non deve essere usata per dire: "Siete divisi, quindi non potete avere uno Stato". Al contrario: quando i palestinesi avranno uno Stato, le loro divisioni spariranno. Divisioni, tra l’altro, generate dall’esterno, da quella famosa "democrazia" che la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, vuole imporre qui. Hanno chiesto elezioni democratiche e c’è stato un partito che democraticamente le ha vinte, il partito Hamas; allora lo hanno classificato come terrorista e hanno boicottato un intero popolo, sempre in nome della democrazia. Tutti vogliono educare i palestinesi alla democrazia, ma prima dovrebbero aiutarli a ottenere il rispetto dei loro diritti. Date loro uno Stato e poi si potrà parlare di democrazia».

 

  • Resta però il fatto che Hamas, per non parlare di altri movimenti ancor più radicali, non riconosce a Israele il diritto di esistere. Oltre che illegittima, non le pare che questa posizione sia un suicidio politico per i palestinesi?

     

«Quando ci sono due nemici, ognuno nega l’altro. Se è per questo, Israele nega l’esistenza dell’intera Palestina, non solo quella di Hamas. Quando cesseranno le ostilità, il riconoscimento sarà automatico e immediato. Il riconoscimento di Israele "a priori" non arriverà mai, ci sarà di certo dopo che Israele avrà messo fine all’oppressione dei palestinesi. Gli estremisti non spariranno, ci saranno sempre partiti come Hamas o come quegli israeliani di destra convinti che tutta la terra della Palestina appartenga a loro. Ma resteranno, appunto, estremisti con poco seguito».

 

  • E la pace si avrà… come?

     

«Se Israele si ritira sui confini di prima del 1967. Se questo avviene, la pace è sicura. Per il resto, un’importante evoluzione storica è già avvenuta. Dalla fine dell’Ottocento fino a non molti anni fa, la parola d’ordine del mondo arabo era: Israele non deve esistere. Adesso, il mondo arabo riconosce il diritto di Israele a esistere, ma dice: si faccia la pace, si risolva la questione palestinese per arrivare a una normalizzazione totale con tutto il mondo arabo, e così anche Israele come Paese avrà il suo legittimo posto in Medio Oriente».

 

  • In diversi passi del libro Voce che grida dal deserto, lei afferma che il problema dei cristiani di Terra Santa non è la persecuzione islamica. Molti, in Occidente, lo danno invece per scontato...

     

«È un’idea falsa, non siamo perseguitati. Ci sono molti problemi, certo, ma ci sono anche molte ragioni per guardare al futuro con speranza. I rapporti con le autorità civili e parte di quelle religiose sono ottimi. Con il gran muftì qui in Palestina, come in Giordania, c’è grande collaborazione. Il problema, per i Territori palestinesi, è che c’è un’Autorità senza autorità. Tutto dipende dalle decisioni di Israele. L’Autorità palestinese, per esempio, solo in dicembre ha ottenuto il permesso di far entrare la polizia a Nablus per cercare di riprendere in mano la situazione. Un altro esempio: mesi fa, a Betlemme, di notte alcuni malviventi hanno sparato a un cristiano. I fedeli ne parlano a me, io ne parlo con il governatore di Betlemme. E lui mi spiega che la polizia palestinese non ha il diritto di stare in strada, in uniforme e armata, tra le 22 e le 6 del mattino. Questo provoca inefficienza e favorisce la formazione di vere mafie che taglieggiano chi capita, non solo i cristiani. A Nablus i cristiani sono pochi e quindi le vittime di queste mafie sono i loro concittadini musulmani. A Betlemme è scoppiato il problema delle proprietà, grandi terreni appartenenti a cristiani. Uno di questi malviventi arriva, si mette sul terreno, comincia a costruire. Il cristiano protesta e il musulmano gli dice: "Portami in tribunale", sapendo che i tribunali non funzionano. E abbiamo scoperto che erano anche avvocati cristiani ad aiutare le bande a falsificare i titoli di proprietà. Il rapporto tra cristiani e musulmani è una lunga strada da percorrere passo dopo passo. Spetta a noi, adesso, produrre un’idea su come si può vivere tra due religioni in una società che è religiosa nell’intimo. Lo dico sempre ai nostri cristiani: non tocca ai musulmani servirci e prendersi cura di noi, tocca a noi capire i nostri diritti e difenderli».

 

  • Lei non teme che un eventuale Stato palestinese possa riportare i cristiani alla sottomissione, alla dhimma?

     

«L’idea di un nuovo califfato corre per tutto il mondo islamico, arabo e non arabo, ma è una nostalgia che non può avverarsi. Possono nascere, invece, qui e altrove, degli Stati islamici. Se mai arriveremo a questo – e se la politica internazionale continua così ci arriveremo –, dovremo parlar chiaro, nel caso tali regimi islamisti vogliano imporre l’islam nella vita personale o sociale, o nel modo di mangiare, vestire, comportarsi. Se il dialogo sarà possibile, come lo è oggi, ricorreremo al dialogo. Se no, resisteremo e verranno, forse, momenti di confronto e magari di martirio. E dobbiamo preparare i nostri cristiani anche a una simile prospettiva».

 

  • Molti, in Israele, la considerano né più né meno un avversario politico...

     

«Lo so, lo so. Ho ricevuto diversi esponenti politici di Israele, e anche qualche alto esponente dei servizi di sicurezza, che volevano appunto capire chi mai sono. Devo dire che sono andati via soddisfatti. Ho detto: "Io sono palestinese e voi siete ebrei, e non c’è nessuna colpa a essere palestinese o ebreo. Voi lavorate per Israele e fate il vostro dovere. Io lavoro non solo per i palestinesi ma anche per voi, perché sono cristiano, sacerdote e vescovo. La mia missione copre tutta l’umanità, quindi pure voi ne siete parte. Voi siete oppressori perché occupate la terra altrui. Ma non per questo io vi odio: dico solo che l’oppressione deve finire". Non sono un avversario politico, ma una voce che disturba forse sì».

 

  • Disturbare le piace, mi sembra...

     

«È come quando il medico cura la ferita. Se brucia, serve. Se non brucia, non serve a nulla».

 

  • Nel suo libro, lei affronta anche il tema dello statuto speciale per Gerusalemme. Mi è parso di cogliere una certa sfiducia nella possibilità che le parti locali possano accordarsi...

     

«No, no, al contrario. L’ultima dichiarazione del settembre 2006, firmata da tutti noi 13 capi religiosi cristiani di Gerusalemme, dice chiaramente che la città dev’essere governata da chi la abita, cioè israeliani e palestinesi. Tocca a loro darle uno statuto particolare, dunque diverso da quello del resto del Paese. Ma questo statuto deve avere garanzie internazionali, non può dipendere solo dalla volontà politica di israeliani e palestinesi. Ripeto: Gerusalemme dev’essere governata da chi ci vive. E anche noi cristiani ci siamo, quindi abbiamo diritto a partecipare al governo della città».

 

  • Lei ha detto: noi cristiani ci siamo. Io le chiedo: e ci saremo?

     

«Anche questa idea della sparizione dei cristiani è tipica dell’Occidente. In realtà il nostro numero è stabile, è la proporzione rispetto alla popolazione totale che cala. Quando viveva qui, Gesù aveva un piccolo seguito. La prima Chiesa, fatta tutta di ebrei, era una piccola comunità dentro una grande comunità. C’è stata la parentesi bizantina, dal IV al VII secolo, di grande prosperità per i cristiani, poi tutto è stato ridimensionato da Dio, Signore della storia, e i cristiani sono tornati a essere una piccola comunità. Oggi Gesù è vivo qui nelle stesse condizioni di duemila anni fa: in un piccolo gruppo. E noi Chiesa siamo una piccola comunità, come la Chiesa degli inizi. E rimarremo qui, per pregare, per accogliere i pellegrini, per circondare di vita i Luoghi Santi. Gesù ha detto: "Un solo credente può spostare le montagne". Se è credente. Ed è questa la nostra vocazione».

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