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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
19.10.2007 Un articolo solo apparentemente equlibrato
in realtà è sbilanciato contro Israele

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 19 ottobre 2007
Pagina: 0
Autore: Giulia Cerqueti
Titolo: «I ponti sono meglio dei muri»

Famiglia Cristiana del 21 ottobre pubblica a pagina 70 un articolo di Giulia Cerqueti intitolato “I ponti sono meglio dei muri”.

 

L’articolo, come è consuetudine del settimanale cattolico, è corredato con la medesima fotografia riproposta ad ogni occasione - evidentemente l’unica di cui dispongono  -  per ritrarre la barriera che gli israeliani hanno costruito per difendersi dagli attentati terroristici. Attentati che, non è mai superfluo ricordare, sono diminuiti di più dell’80% dopo la sua costruzione.

 

E’ davvero curioso notare come la barriera difensiva, costituita per il 97% da filo spinato e solo per il 3% di cemento, venga riproposta solo nella parte che è fatta di “muro di cemento” con l’immagine del solito vecchio palestinese che si appoggia ad un bastone e guarda sconsolato il panorama.

 

L’articolo, che racconta la storia di Shereen e di Anat, l’una palestinese e l’altra israeliana, solo ad una lettura superficiale, è equilibrato.

 

Entrambe le giovani donne hanno subito dei lutti ma hanno scelto la strada del perdono e non quella della vendetta.

 

Mentre i fratelli dell’israeliana Anat sono stati strappati alla loro famiglia dalla “guerra”, concetto piuttosto generico, sono invece i soldati israeliani, citati più volte nell’incipit dell’articolo, ad aver “fatto irruzione in casa della sua famiglia, “ad aver messo a soqquadro” ad aver “sequestrato i due fratelli senza dare spiegazioni” ad aver ucciso in uno scontro, non meglio definito, il fratello di sedici anni. Questi giovani soldati che ogni giorno rischiano la vita per difendere il proprio paese sono ritratti dalla giornalista come uomini brutali e senza cuore: il lettore ne ricava un’immagine faziosa e fuorviante.

 

Per parafrasare il titolo dell’articolo, i ponti sarebbero senz’altro meglio dei muri, ma finchè questi ultimi tutelano l’integrità delle persone, salvando vite innocenti dal terrorismo dei kamikaze palestinesi, sono senz’altro preferibili.

Quando i soldati israeliani, in piena notte, hanno fatto irruzione in casa della sua famiglia a Gerusalemme Est, hanno messo a soqquadro tutto, prelevato documenti dal suo computer, sequestrato i suoi due fratelli senza dare alcuna spiegazione, lei, Shireen Essai, avvocato palestinese di 28 anni, era in Italia per partecipare alla marcia della pace Perugina-Assisi al fianco di Anat Marnin-Shaham, israeliana. Era qui da noi per testimoniare con la sua esperienza che in Terra Santa la riconciliazione comincia dalla volontà della gente comune.

 

Anni fa, Shireen avrebbe potuto scegliere la strada dell’odio a oltranza. Ma non lo fece. Nel 1982 perse suo zio, studente universitario a Beirut, in un bombardamento, mentre si recava all’università, come racconta durante un incontro organizzato al Centro delle Edizioni Terra Santa di Milano.

 

Nel 1987, durante la prima Intifada, sua nonna morì soffocata dai gas lacrimogeni sparati dai soldati israeliani durante uno scontro. Anni dopo, suo fratello Fedi rimase ucciso in uno scontro con i soldati israeliani. Aveva 16 anni.

 

Di fronte al dolore immenso, Shereen e la sua famiglia non cedettero al desiderio di vendetta. “L’odio non ci avrebbe riportato indietro mio zio, mia nonna e mio fratello. Scegliemmo di perdonare e guardare avanti”.

 

Fu allora che la ragazza entrò in contatto con Parents circe, un’associazione che riunisce famiglie israeliane e palestinesi che hanno vissuto la perdita di parenti a causa del conflitto, ma hanno scelto di rifiutare la violenza e di percorrere la strada del dialogo. “Ricordo il primo incontro: ascoltai il dolore di un israeliano che raccontava di suo figlio, rapito e ucciso dai militanti di Hamas. E mi commossi”. Perché il dolore per la morte di un figlio, un fratello è sempre, comunque, strazio lacerante.

 

Purtroppo invece molte madri palestinesi sono orgogliose dei loro figli “shahid” che si fanno saltare in aria uccidendo innocenti israeliani e spesso si augurano che la medesima sorte tocchi ad un altro figlio. Quel figlio “martire” che si è dato la morte pur di uccidere gli odiati israeliani diventa un simbolo, un esempio da emulare.

 

Ed è anche lo strazio di Anat Marnin-Shaham, che oggi vive vicino a Tel Aviv, alla quale la guerra ha strappato due fratelli. “Vivevamo nel Nord di Israele e la vita mi sembrava perfetta”, racconta Anat durante l’incontro di Milano. “Ma tutto si fermò il 6 ottobre 1973, il giorno dello Yom Kippur. All’improvviso sentimmo le sirene e gli aerei sulle nostre teste: la guerra con i siriani e gli egiziani era cominciata. I miei due fratelli si arruolarono subito e partirono uno per il fronte Nord, l’altro per il Sud.Il giorno dopo, quasi alla stessa ora, entrambi rimasero uccisi”. Per Anat, allora sedicenne, e la sua famiglia ci volle quasi un mese prima di sapere che erano morti. Poco tempo dopo, la cognata di Anat, moglie di suo fratello maggiore, diede alla luce una bambina. “La chiamarono Shahr, “alba”. In un momento di buio profondo nella nostra vita, Shahr è stata l’unica luce”.

 

Oggi Anat si occupa di danzaterapia, una passione nata ai tempi della morte dei suoi fratelli. “Dopo la tragedia, i miei genitori mi mandarono in terapia da uno psicologo, ma io non riuscivo a parlare. L’unica cosa che potevo fare era ballare. Così, da allora, con la danza esprimo le miei emozioni”. Anche Anat oggi è molto attiva in Parents circe.

 

“Noi, i parenti delle vittime, siamo quelli che pagano il prezzo più alto di questa guerra”, spiegano le due donne.

 

“Oggi Parents circe ha circa 500 famiglie aderenti. Israeliani e palestinesi, condividiamo lo stesso dolore e la stessa speranza, e crediamo che per avere la pace dobbiamo costruire ponti, non muri, rispettandoci a vicenda, senza mettere a confronto il nostro dolore”.

 

Uno degli impegni più importanti di Parents circe, che non ha alcun finanziamento governativo, è rappresentato dagli incontri nelle scuole: nell’ultimo anno l’associazione ha incontrato più di 30.000 studenti.

 

“Per molti ragazzi palestinesi, queste attività sono la prima occasione della loro vita di confrontarsi con israeliani che non siano soldati o coloni. Lo stesso vale per gli israeliani: alcuni di loro, all’inizio, hanno paura dei palestinesi e si stupiscono quando scoprono che si tratta di persone normali, come loro”.

 

Molte famiglie israeliane e palestinesi hanno cominciato a incontrarsi nelle rispettive case. Ma trovarsi è difficile, per i controlli e i check point da superare. Così, dal 2002 è attiva una linea telefonica che permette a israeliani e palestinesi di parlarsi e dialogare. Fino a oggi le chiamate sono state mezzo milione, in inglese, ebraico o arabo.

 

“E pensare che i nostri politici si arroccavano nelle loro posizioni dichiarando che non c’era una controparte con cui discutere”, osservano Shireen e Anat.

 

“Noi abbiamo dimostrato il contrario. Chissà se i politici avessero speso anche solo cinque minuti per parlarsi al telefono, come hanno fatto queste famiglie, magari oggi, nella nostra terra, le cose sarebbero diverse.

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