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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
06.10.2007 Il pane vuole anche dire pace, da sempre
l'attività del gruppo teatrale israeliano di Angelica Livne Calò

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 06 ottobre 2007
Pagina: 34
Autore: Alberto Chiara
Titolo: «Il lievito del dialogo»

FAMIGLIA CRISTIANA, del 7/10/2007 pubblica a pagina 34 un articolo di Alberto Chiara intitolato “Il lievito del dialogo”Quattro donne una ebrea, una cristiana e due musulmane che insieme fanno il pane sono un messaggio di speranza e di luce in un paese, Israele, da sempre colpito dal terrorismo.Gli spettacoli teatrali che la fondazione di Angelica Livne Calò, Beresheet Le Shalom, organizza con ragazzi ebrei, musulmani, drusi e cristiani hanno come obiettivo la costante ricerca del  dialogo e di una soluzione al conflitto mediorientale.E tuttavia, a fronte di queste donne coraggiose e piene di iniziativa, non si può distogliere lo sguardo dai missili che continuano ad essere lanciati sulle cittadine israeliane, dagli atti di violenza di cui si sono resi responsabili i terroristi di Hamas, il movimento che ha preso il potere a Gaza e che non ha ancora riconosciuto l’esistenza dello Stato di Israele. Il pane di Angelica e delle sue amiche musulmane e cristiane “profuma di pace”, ma la pace è ancora molto lontana nelle menti di chi continua a predicare la distruzione dello Stato ebraico.

 

 Ecco l'articolo:

Le mani, certo. Mani capaci di ripetere gesti antichi dieci, cento, mille volte. Ma soprattutto menti aperte e cuori generosi. Semplicemente donne. Sono il Medio Oriente della speranza. Angelica è ebrea, Ramzia è cristiana, Balkis e Sana sono musulmane. Su quattro, tre vivono in Israele, sul confine con il Libano. Una è palestinese di Jenin, in Cisgiordania. Fanno il pane. E lo fanno insieme, anche se ciascuna a suo modo.

 

Acqua, farina, lievito. Stesso impasto, forme diverse. Ecco dunque la Hallà, il pane dolce con uva passa, sesamo, noci e kezzach che gli ebrei cuociono il venerdì per mangiarlo il sabato. Ed ecco tre differenti specialità di pane arabo: il manakish (una sorta di pizza condita con olio d’oliva e una spezia orientale chiamata zaatar), l’houbes tabun (un pane tradizionale palestinese) e la pita sage, normalmente lavorata all’aperto su un grande piatto di metallo sotto il quale vengono messi carboni ardenti.

 

La semplicità del cibo più elementare e diffuso al mondo sgretola incrostazioni vecchie di decenni. Quell’unico impasto, infatti, ha un potere rivoluzionario che va ben oltre l’uscio del forno. Cancella diffidenza, rancore, odio, vendetta. Non a caso il progetto si chiama “Bread for peace”. E’ pane che non si limita a sedurre i palati: profuma di pace.

 

Angelica Edna Calò Livnè nasce a Roma nel 1955. “Frequento sia il Collegio rabbinico sia l’Hashomer hazair (La giovane guardia), un movimento ebraico che getta le radici nello scoutismo, è orientato a sinistra ed è fortemente sionista”, racconta. “Insomma, sin dall’inizio lavoro per armonizzare la mia anima religiosa con quella laica, le mie radici italiane con il desiderio di andare in Israele, cosa che faccio a vent’anni, nel 1975”.

 

Angelica si stabilisce nel kibbutz Sasa, al confine con il Libano, dove incontra e sposa Yehuda Livné. “Abbiamo quattro figli, tutti maschi”, prosegue Angelica. “Io, intanto, seguo la mia vocazione per le arti espressive, conseguendo due lauree: in Pedagogia e in Teatro sociale”. La paura è una costante. “Prima, i razzi sparati dal sud del Libano. Poi, la seconda Intifada. Bombe, morti, feriti. Nel 2001 la comunità ebraica di Roma mi invita a portare in Toscana, per un periodo di vacanza e di recupero, lontano dal terrore, cinquanta ragazzi vittime degli attentati, chi privo di un occhio, chi di un braccio, che devastato dalla perdita di un genitore”.

 

“Partono con la morte negli occhi, tornano sorridenti. La mia vita cambia”. Nel 2003, Angelica e Yehuda danno vita a Beresheet LaShalom (letteralmente : “un inizio per la pace”), una fondazione che sceglie come obiettivo l’educazione alla pace soprattutto attraverso il teatro, facendo recitare insieme ragazzi ebrei, cristiani e musulmani. “Non li mettiamo gli uni di fronte agli altri perchè si dicano tutto circa i reciproci sentimenti di inimicizia, come se bastasse sfogarsi per risolvere i problemi di convivenza. No. Noi facciamo in modo che passo dopo passo si scoprano simili, parlando di genitori che stressano (“Mia madre mi urla dietro finchè non metto in ordine la stanza e faccio i compiti”. “Anche la mia”), di rapporti non sempre facili con professori e compagni e, perché no?, anche di acne giovanile. Si parte dal poco: “Se fa freddo io non ho forse i brividi come re?” E si arriva al cuore della tragedia: “Se succedesse qualcosa a mio fratello non soffrirei come soffriresti tu nel malaugurato caso accadesse qualcosa di brutto al tuo?”.

 

Capita poi che Angelica conosca Samar Sahhar, una palestinese cristiana che, a Betania, ha fondato la Lazarus Home for Girls, una struttura per aiutare le bambine orfane e le donne in difficoltà. “E proprio rispondendo a un suo invito, il primo giugno 2005, con donne musulmane, ebree e cristiane dell’Alta Galilea vado a Betania dove Samar ha un forno in cui israeliane e palestinesi lavoravano insieme”. E’ l’esordio ufficiale di Bread for peace.

 

Angelica parla a Savignano, in provincia di Cuneo, dove, complice la vacanza scolastica legata a Sukkot (la Festa delle Capanne), si trova per l’ennesima replica di Bread for peace, evento clou della quarta edizione della Festa internazionale del pane. Le sono accanto la cristiana Ramzia Samaan, cinque figli, un’arabo-israeliana proveniente dal villaggio di Pequin, la musulmana Balkis Hleihel, un’arabo-israeliana di Jish, nonché la dottoressa Sana Taher, ostetrica e ginecologa, una palestinese di Jenin. Sul palco, nella piazza, i ragazzi di Beresheet La Shalom provano le ultime battute dello spettacolo scritto da loro, ebrei, cristiani, musulmani, insieme: “Quando c’è la guerra, non c’è nessun posto sicura, neanche la tua casa…Con quelli non si potrà mai parlare…Mio Dio, deve però esserci una soluzione, deve esserci una speranza, non può finire tutto così”. Le mani si cercano. Le maschere cadono dai volti. Gli sguardi si incrociano: non più nemici ma fratelli.

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famigliacristiana@stpauls.it

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