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Famiglia Cristiana nel numero 38 di questa settimana pubblica l’articolo di un tecnico italiano che vive a Bagdad e che racconta la difficile situazione della città irachena.
L’articolo è preceduto da un commento di Fulvio Scaglione che non perde occasione per demonizzare l’amministrazione americana la quale, non dimentichiamo, nonostante gli errori ha liberato un paese da un dittatore che ha torturato e ammazzato centinaia di civili. Se la normalizzazione in Irak stenta ad imporsi la responsabilità non è soltanto di Bush.
E chi conosce la storia del Medio Oriente lo sa perfettamente.
«Il successo richiederà impegni economici, politici e di sicurezza che si estenderanno oltre la mia presidenza». Parole di George W. Bush nell’ottavo discorso alla nazione. Possiamo quindi dire che Bush esce dalla guerra in Irak nello stesso modo in cui vi era entrato: in una nube di piccole verità e grandi bugie. Ieri inventate a tavolino le ragioni per attaccare l’Irak di Saddam e pretendere la partecipazione delle altre nazioni: niente uranio dal Niger, niente armi di distruzione di massa, niente complicità con Al Qaida. Oggi fasulle le ragioni per dichiarare, come ha fatto il presidente, che la vittoria è vicina: nessuno dei problemi dell’Irak è stato affrontato (il Governo iracheno ha raggiunto solo 1 dei 18 obiettivi fissati ), nessun segno di reale ripresa economica, nessuna speranza che il governo di Al Maliki possa resistere più di una settimana in caso di ritiro delle truppe Usa. Anche la riduzione dei soldati è un espediente per far credere agli americani che le cose stiano andando bene. Trentamila uomini in meno entro luglio
Baghdad
La fine del trionfo. Non c’è più l’entusiasmo dei soldati americani del fine guerra 2003 e di parte del 2004, è subentrata la stanchezza. Basta osservare la partenza delle missioni. Prima si potevano vedere i soldati sui loro Humvee: il mitragliere, in piedi, che spuntava dal tetto per brandire l’arma, gli altri al posto di guida e al rifornimento dei proiettili. Ora i veicoli sono stati modificati con l’applicazione di lamiere d’accaio ai lati e di una torretta protettiva per il mitragliere: così i soldati non si vedono più. Al ritorno dalle pattuglie i veicoli non sono più circondati dalla folla dei piccoli sciuscià in cerca di un dollaro o di un dono. Ora sono parcheggiati negli ampi viali dove l’unico traffico rimasto è quello di servizio.
STATO D’ASSEDIO.
I rifornimenti sono comunque regolari e nella Zona verde abbonda tutto quello che fuori è precario: energia elettrica, benzina e cibo, naturalmente. C’è pure un ospedale. L’assedio, però, comporta anche il ricevimento di qualche colpo all’interno: mortaio o razzo che sia, praticamente ogni giorno. C’è un allarme di qualche secondo tramite altoparlanti e sirene. I colpi non sono mirati, cadono dove capita, anche se il bersaglio più ambìto resta il grande palazzo dell’ambasciatore americano.
Ma è lunga la serie di fattori che rendono invivibile l’Irak. Per esempio la criminalità: vi sono persone minacciate da chi vuole denaro o da chi vuole la loro casa, ed è pronto a ucciderle insieme con la famiglia. Minacce vere, concrete, credibili e credute, e spesso messe in pratica. Altro dato quotidiano: l’erogazione di energia elettrica, garantita solo per poche ore al giorno: ciò vuol dire, tra l’altro, restare senz’acqua, senza frigorifero, senza condizionatore in un Paese che ha temperature vicine ai 50 gradi. Le file ai distributori di benzina raggiungono il chilometro: ci sono famiglie che si danno il cambio per tenere il posto in fila spingendo a mano la macchina. L’inflazione è al 64 per cento.
Vi è una larga fascia di poveri a rischio malnutrizione: il rapporto sulla situazione umanitaria del Paese, intitolato Rising to the humanitarian challange in Irak e redatto dall’organizzazione internazionale Oxfam assieme al Ngo Coordination Committee in Irak (il coordinamento delle Ong che operano in Irak), riferisce che un terzo della popolazione ha bisogno di aiuti d’emergenza, che il 15 per cento non può permettersi di mangiare regolarmente, che il 70 non ha accesso all’acqua. Il 43 per cento vive nella "povertà assoluta", mentre più di metà della popolazione è senza lavoro. Attualmente, solo il 60 per cento delle persone ha accesso alle razioni alimentari governative, il 28 per cento dei bambini è malnutrito e il
IL DRAMMA DEI PROFUGHI. Nessuna meraviglia, quindi, se la gente scappa dall’Irak, pronta anche a lasciare tutto e vivere illegalmente in un altro Paese: più di 2 milioni di persone sono fuggite, finora, rifugiandosi per lo più nelle vicine Siria e Giordania, come scrive il rapporto confermando le cifre diffuse dall’Onu. La "fuga dei cervelli" sta mettendo a dura prova i servizi pubblici già inadeguati, dato che migliaia di medici, insegnanti, ingegneri e altri professionisti sono costretti ad andarsene. Le stime danno attorno al 40 (a fine 2006) la percentuale dei "quadri" qualificati che hanno abbandonato il Paese.
I nuovi governanti, in un Governo di unità nazionale in continuo conflitto, ma senza un’opposizione organizzata, sono da una parte bersaglio delle forze eversive che non vogliono la democrazia, e dall’altra non si sa quanto essi stessi credano nella sostenibilità del sistema democratico e nell’autorità che sono chiamati a esercitare.
LE GUERRE CIVILI. Il Medio Oriente è sempre più complicato del resto del mondo. Ma la realtà odierna è che in Irak non è in corso una sola guerra, quella contro le forze anglo-americane. Ci sono diverse guerre, tante quante sono le fazioni, e queste nessuno è riuscito a contarle. Si sparano fra di loro: non solo colpi di fucile ma anche di mortaio, da quartiere a quartiere. Sciiti contro sunniti e viceversa, a loro volta frazionati al loro interno. Ogni quartiere è vigilato dalla sua milizia che gestisce entrate e uscite di persone, di civili, di bambini che vanno a scuola. Nessuno riesce a fare un censimento fra, diciamo, i resistenti contro lo straniero, i guerriglieri o miliziani di fazione e i terroristi: queste tre, fondamentalmente, sono le possibili denominazioni degli uomini in armi oggi in Irak.
IL PETROLIO. Ma questa povertà non è comprensibile in un Paese che affonda in un oceano di petrolio: dove vanno a finire tutti questi denari? In parte a pagare le importazioni. Tutto quello che si vende nel Paese è importato: in larga misura gli alimentari e i beni di consumi vengono dalla Turchia e dalla Siria (25 per cento del totale per ciascuna). L’Irak in pratica non produce più niente, importa combustibili raffinati (circa il 50 per cento del fabbisogno), paga gli statali, la polizia, i sussidi alimentari.
Ma c’è anche qualcosa che nelle statistiche non appare: il contrabbando di petrolio, un tesoro che non entra nelle casse dello Stato. Non più monopolio della famiglia di Saddam Hussein, il contrabbando ha preso una via pluralistica fatta sia da una miriade di piccoli operatori che rivendono all’estero prodotti raffinati, come il gasolio, comperato in Irak a prezzi sussidiati dallo Stato, sia da operatori che trattano grosse partite. Invenzioni raccolte dalla gente della strada? No, informazione ufficiale del Garante della trasparenza del ministero del petrolio iracheno, scritta nero su bianco e disponibile in inglese. (Questo articolo ci è stato inviato da un tecnico italiano famigliacristiana@stpauls.it |
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