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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
01.08.2007 "Vedere coi propri occhi e capire con la propria testa"
un buon programma, che speriamo i pellegrini in Israele e Cisgiordania mettano realmente in pratica

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 01 agosto 2007
Pagina: 0
Autore: Alberto Chiara
Titolo: «Ambasciatori di pace coi sandali ai piedi»
FAMIGLIA CRISTIANA  nel numero 31 on line pubblica un articolo a firma Alberto Chiara intitolato “Ambasciatori di pace coi sandali ai piedi” Dopo una premessa sull’attuale situazione politica mediorientale e sui tentativi delle diplomazie di giungere ad una normalizzazione del conflitto, l’articolo riporta la notizia del pellegrinaggio organizzato dall’Opera Romana Pellegrinaggi che ha portato in “Terra Santa” 150 persone fra dipendenti e pensionati della Telecom. Ai pellegrini sono stati  mostrati Nazaret, Betlemme e ovviamente il muro (due fotografie sono pubblicate all’interno dell’articolo) nella sua parte in cemento (che è solo il 3% del totale). Ci auguriamo che la guida abbia loro spiegato che quello che gli israeliani chiamano fence (recinto) in realtà è una barriera difensiva di filo spinato – nel 97% del suo tracciato - dotata di sensori che impediscono il passaggio dei terroristi suicidi. Da quando è stata costruita la barriera, gli attentati sono diminuiti del 95% e se un recinto si può abbattere o modificare nel suo percorso una vita umana perduta non si può riavere indietro. Se - come scrive il giornalista - la “diplomazia dei pellegrini” si sforza di vedere coi propri occhi e capire con la propria testa, dopo la visita al Monte delle Beatitudini, a Nazaret e a Betlemme ci permettiamo di suggerire agli organizzatori di pellegrinaggi di inserire nei loro programmi oltre alla visita al “muro” anche quella allo Yad Va Shem, il museo dell’Olocausto recentemente rinnovato. Un’opera di estrema importanza che tutti dovrebbero vedere dopo i tentativi di negare la tragedia della Shoà e l’auspicio del presidente iraniano di cancellare Israele dalle cartine geografiche; una visita dalla quale non si può prescindere se si vuole veramente capire e conoscere lo Stato ebraico nel suo passato di sofferenze e persecuzioni e in un futuro nel quale la soluzione del conflitto passa attraverso l’accettazione del mondo arabo al suo diritto ad esistere in pace e in sicurezza

Ecco il testo:

Le parole sono logore. D’altronde, in Medio Oriente, è già stato detto tutto e il suo contrario. Ma tutto torna, perché la storia non molla mai la presa. E ripresenta conti mai saldati. Il processo di pace tenta di scuotersi di dosso la polvere che l’ha paralizzato per anni. Il 16 luglio, mentre il presidente americano George W. Bush rendeva nota la sua proposta (Conferenza internazionale in autunno, senza Hamas; 190 milioni di dollari stanziati a favore di Al Fatah e del suo leader, Abu Mazen), le agenzie di stampa raccontavano il moderato ottimismo del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon: «È incoraggiante vedere che il primo ministro israeliano e il presidente palestinese si sono incontrati di nuovo, com’è incoraggiante che Israele abbia espresso il desiderio di dialogare con la Siria». Il premier israeliano Ehud Olmert, infatti, in un’intervista alla rete televisiva al-Arabiya, s’era detto disponibile ad avviare trattative con Damasco. «Sarò felice di facilitare simili iniziative di pace», ha commentato Ban Ki-moon. Tempo qualche ora, e la diplomazia internazionale (spesso intrecciata a pilotati scoop giornalistici) ha saturato le agende. Esordendo come inviato del cosiddetto Quartetto (Usa, Unione europea, Russia e Onu), l’ex primo ministro inglese Tony Blair ha fatto la spola fra Gerusalemme e Ramallah. Non è stato l’unico a darsi da fare. Il ministro degli esteri dell’Egitto, Ahmed Abul Gheit, e il suo collega giordano, Abdel Elah al Khatib, hanno fatto altrettanto. In una fitta serie di incontri (hanno visto, tra gli altri, il capo dello Stato israeliano, Shimon Peres, e il ministro degli Esteri, Tzipi Livni), i due diplomatici hanno «teso la mano» agli interlocutori israeliani, sollecitandoli a studiare nei minimi dettagli il Piano di pace della Lega araba. Il quale prevede il ritiro totale di Israele dai territori occupati nel 1967, con la guerra dei Sei giorni, Gerusalemme est inclusa, lo smantellamento delle colonie e una soluzione concordata della questione dei profughi palestinesi. In cambio, Israele beneficerebbe della normalizzazione delle relazioni con i 22 Paesi che aderiscono alla Lega araba. Ma è stato il quotidiano Haaretz a offrire la novità che più ha fatto (e fa) discutere. Secondo il giornale israeliano, il premier Ehud Olmert è pronto a intraprendere con il presidente palestinese Abu Mazen negoziati per un «accordo di principio». Olmert vorrebbe procedere con circospezione, iniziando dalle questioni sulle quali si può più facilmente raggiungere un’intesa (come, ad esempio, le caratteristiche dello Stato palestinese, le sue istituzioni, la sua economia, gli accordi doganali con Israele) per passare solo in un secondo tempo alle controversie più laceranti: confini d’Israele, status definitivo di Gerusalemme, diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Elaborato un primo documento «sui princìpi», Abu Mazen chiederebbe – mediante elezioni – il sostegno del popolo palestinese. Dal canto suo, Ehud Olmert avrebbe bisogno dell’approvazione della Knesset, ovvero del Parlamento israeliano. Stando al quotidiano Haaretz, Olmert sarebbe disponibile a ritirare Israele dal 90 per cento della Cisgiordania e a scavare un tunnel che possa collegare Gaza alla Cisgiordania, dando continuità territoriale al futuro Stato palestinese, un’impresa in ogni caso ardua, giacché le due aree palestinesi sono separate da oltre 40 chilometri. Olmert, infine, non sarebbe ostile a un parziale ritiro da Gerusalemme, la cui parte orientale potrebbe diventare la capitale del futuro Stato palestinese. Fin qui le notizie che il tempo si incaricherà di vagliare. Mentre la paludata diplomazia delle cancellerie tenta di rivitalizzare il processo di pace, c’è un’altra "diplomazia", meno raccontata ma non per questo meno attiva, che si sforza di vedere con i propri occhi, di ascoltare con le proprie orecchie, di capire con la propria testa, gettando ponti attraverso il dialogo e la lotta ai giudizi preconfezionati, ideologici, immutabili. È la "diplomazia dei pellegrini". Nei giorni scorsi, l’Opera romana pellegrinaggi ha portato circa 150 persone in Terra Santa, per lo più dipendenti e pensionati della Telecom, accompagnati dai loro familiari. Hanno dormito a Nazaret, dove alcuni razzi lanciati lo scorso anno da Hezbollah hanno seminato distruzione e morte (due, i bambini deceduti). Al Monte delle beatitudini hanno celebrato Messa proprio mentre arrivava un gruppo di giovani provenienti da Tarshiha, un paese dell’Alta Galilea, a una ventina di chilometri dal confine con il Libano, che nel luglio 2006 ha pianto tre morti, colpiti da missili sparati dalle milizie sciite, e che ha visto buona parte della sua popolazione costretta a sfollare lontano, alcuni anche in Giordania. I pellegrini hanno poi soggiornato a Betlemme, una scelta degli organizzatori che li ha portati a entrare e a uscire dai territori dell’Autorità nazionale palestinese attraverso il muro, un vero pugno nello stomaco, che Israele ha eretto per difendersi dagli attentati dei kamikaze e che oggettivamente ostacola la vita dei palestinesi, costringendoli dentro quella che molti definiscono una prigione a cielo aperto. Sempre a Betlemme hanno incontrato suor Sophie, le sue consorelle e gli orfani di La Crèche prima di confrontarsi con padre Amjad Sabbara, frate francescano e parroco («Il muro, con la conseguente necessità di avere un permesso per muoversi, ha fatto impennare il tasso di disoccupazione dei palestinesi di Betlemme, oggi attorno al 40 per cento»). Nella sede del municipio di Gerusalemme, poi, hanno sentito le testimonianze di alcuni ebrei italiani trasferitisi in Israele, in particolare quelle di Davide Greco, torinese, e di Sharon Nizza, milanese, entrambi concettualmente contrari al muro («Lo sono moltissimi israeliani, credeteci»), di cui però sottolineano l’efficacia («Da quando c’è, gli attentati sono cessati, abbiamo diritto ad avere una vita normale»), ed entrambi impegnati in concreti percorsi di rispettosa convivenza con i palestinesi. Tra i pellegrini italiani, c’era padre Cesare Atuire, 40 anni, un dinamico sacerdote poliglotta (parla tre lingue africane, più l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese e, ovviamente, l’italiano) nato in Ghana, formatosi tra Londra e Roma, attuale amministratore delegato dell’Opera romana pellegrinaggi. «Dopo lo scoppio della seconda intifada (settembre 2000) ci sono voluti quattro anni per vedere la ripresa dei pellegrinaggi; dopo la guerra tra Hezbollah e Israele (luglio 2006) sono bastati quattro mesi», esordisce padre Atuire. «Il dato fa riflettere. Può, infatti, essere letto in chiave positiva, come sintomo di maggior speranza, ma può tradire anche una crescente assuefazione. In ogni caso i pellegrinaggi sono di per sé un’attività di pacificazione. Quello del turismo religioso è il settore economico che più di ogni altro vede ebrei, palestinesi cristiani e palestinesi musulmani lavorare insieme, gomito a gomito». «Nel 2005, in Israele sono arrivati 78.000 italiani; l’anno scorso, sono stati 50.000. Le autorità di Gerusalemme ipotizzano di chiudere il 2007 a quota 80.000, tre quarti dei quali pellegrini. Come Opera romana pensiamo di accompagnarne complessivamente 12.000», prosegue padre Cesare Atuire. «Chi viene, solitamente si porta appresso giudizi radicalizzati, a esclusivo favore degli uni o degli altri. Oltre alle visite ai luoghi di Gesù, cerchiamo di programmare incontri con le "pietre vive" della Terra Santa, cristiani, musulmani ed ebrei. Lo sforzo è quello di trasformare i drammi di questa tribolata parte del mondo in nomi, in volti, in storie personali. Misurarsi con "l’altro" fa bene a tutti, sgretola i pregiudizi». «Credo che davvero sia possibile una svolta dalla portata storica», dice padre Atuire. «Di certo lo scontro armato tra Hamas e Al Fatah costringe alla prudenza, così come il lancio di razzi dalla striscia di Gaza sugli insediamenti ebraici e la risposta militare di Israele. Ma cresce tra la gente un autentico desiderio di pace. Non si può essere continuamente schiavi della paura, e oggi quello tra israeliani e palestinesi è un confronto tra opposte paure. Le religioni, se autentiche, avvicinano, non separano. Nessuna guerra di civiltà; semmai uno scontro tra amnesie, cioè tra ebrei, musulmani e cristiani che dimenticano quello che sostengono i rispettivi testi sacri: rispetto, amore, solidarietà nel nome del Dio che si prega». «I cristiani», termina padre Atuire, «possono e devono essere un ponte. Un proverbio africano dice che quando gli elefanti lottano, l’erba soffre. La minoranza cristiana in Terra Santa è sempre più minoranza, ma non per questo cessa di avere un ruolo fondamentale. Impossibile sognare la pacifica convivenza? Si diceva così anche per il Sudafrica o per l’Irlanda del Nord. La storia ci insegna com’è andata a finire».

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