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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
03.07.2007 I palestinesi si sparano tra di loro ? Facciamo l'elenco di quel che dovrebbe fare Israele per riportarli alla ragione
in sintesi: rinunciare a difendersi

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 03 luglio 2007
Pagina: 26
Autore: Carlo Remeny
Titolo: «Il rischio della terza intifada»
 FAMIGLIA CRISTIANA pubblica domenica 1° luglio a pagina 26 un articolo di
 Carlo Remeny intitolato “Il rischio della terza intifada”.
 Se nelle scorse settimane il settimanale cattolico aveva rilevato le
 “colpe” di Israele nell’attuale situazione di guerra creatasi sul fronte
 palestinese, con questo articolo si ribadisce che la sorte dei palestinesi
 “dipende” dall’atteggiamento che terrà Israele.
 Quindi, da un lato lo Stato ebraico è responsabile di tutto quanto accade 
a Gaza e in Cisgiordania, dall’altro, deresponsabilizzando i palestinesi, si
 riversa sul governo israeliano la responsabilità di riportare alla
 normalità una situazione di guerra civile determinatasi non per colpa di
 Israele ma per la grave irresponsabilità dei governanti palestinesi.
Israele “deve essere generoso” con Abu Mazen e non “deve soffocare”
“l’Autorità a Gaza.” E chi sarebbe l’Autorità a Gaza?
 Hamas: una formazione terroristica che predica la distruzione dello Stato
 ebraico.
 In sintesi, Israele deve essere disponibile con Abu Mazen, far finta che
 Hamas non voglia distruggerlo, far scomparire i posti di blocco militari
 nella Cisgiordania, “cessare i raid militari nelle città palestinesi”,
 liberare i prigionieri palestinesi ecc. ecc.
 Israele è un faro di democrazia, di tolleranza e di rispetto per i diritti
 umani ma è arrivato il momento che il mondo occidentale imponga ad Hamas 
di riconoscere lo Stato di Israele, ed ammetta senza falsi pregiudizi le
 responsabilità oggettive dei palestinesi nell’attuale situazione politica 
e sociale senza addossare colpe e responsabilità inesistenti a Israele!
 Riportiamo integralmente l’articolo
.

 Mai come in questo momento la sorte dei palestinesi sembra essere nelle
 mani di Israele. Ci sono due Governi palestinesi, uno nella Cisgiordania
 occupata e l’altro a Gaza. Se Israele saprà essere generoso verso quello 
in Cisgiordania, senza voler soffocare l’Autorità a Gaza, la frattura interna
 potrebbe rimarginarsi sotto l’egida di Abu Mazen, altrimenti in pochi mesi
 la resa dei conti in campo palestinese si trasferirà da Gaza a Ramallah,
 Nablus, Hebron, Betlemme, con esiti incerti anche per lo Stato ebraico.
Che non sia più tempo di promesse e dichiarazioni di principio, ma di 
gesti
 concreti, lo ha capito primo fra tutti il presidente egiziano Hosni
 Mubarak, e non è un caso. Gaza in mano a un movimento islamico influenza
l’Egitto per due motivi: a causa della vicinanza fisica tra i territori e
 per la vicinanza ideale tra Hamas e i Fratelli Musulmani. Non è solo Abu
Mazen che deve far presto per evitare che il suo trono prenda fuoco, ma anche Mubarak, prima che un disastro umanitario nella striscia di Gaza 
vada a provocare un’opinione pubblica egiziana che si sospetta molto più vicina
 ai Fratelli Musulmani che non al regime dello stesso Mubarak.
 Questo spiega come mai l’Egitto abbia preso le distanze da Hamas,
 trasferendo la sua missione diplomatica presso l’Autorità nazionale da 
Gaza a Ramallah, invitando Abu Mazen, Ehud Olmert e re Abdallah di Giordania a
 un vertice a Sharm el Sheikh, che secondo il Cairo deve assolutamente
 produrre risultati favorevoli ad Abu Mazen.
 Il presidente palestinese ha bisogno di denaro per pagare gli stipendi dei
 dipendenti dell’Amministrazione pubblica, per gli agenti dei suoi servizi
 di sicurezza, per ristrutturare e rendere più efficienti gli stessi
 servizi. Ha assoluto bisogno di dimostrare all’opinione pubblica che 
grazie a lui la qualità della vita migliora: quindi i posti di blocco militari
 israeliani nella Cisgiordania occupata devono scomparire, come i quasi
 quotidiani raid militari delle forze ebraiche nelle città palestinesi
 devono cessare. Abu Mazen deve provare di non essersi dimenticato dei
10.000 detenuti nelle carceri israeliane. Ha bisogno che Israele ne liberi
 un numero consistente.
 Tra questi potrebbe esserci quel Marwan Barghouti, condannato a cinque
ergastoli da Israele, che sembra essere l’unico dirigente di al-Fatah a
godere di vasto seguito popolare. Lo sanno bene anche gli israeliani, non 
è un caso che per esempio un ministro come Gideon Ezra, un ex dei Servizi di
 Sicurezza interna, ne suggerisca il rilascio da almeno due anni, e ora con
 maggiore insistenza: per salvare Abu Mazen e al-Fatah, e garantire a
 Israele un partner laico con cui poter trattare.
 Il presidente dell’ANP ha bisogno, inoltre, che lo Stato ebraico lo
 autorizzi a riarmare i propri servizi e acconsenta che quadri militari
 palestinesi a lui fedeli, attualmente in Giordania, possano fare ingresso
 in Cisgiordania. Inoltre, ha l’assoluta necessità che sul piano politico
 venga avviato un processo che porti a una Conferenza internazionale per
 affrontare la questione dello status finale dei Territori palestinesi: il
 futuro di Gerusalemme Est, delle colonie ebraiche illegali in
Cisgiordania, il ritorno dei profughi palestinesi, i confini e l’autorità del futuro
 Stato palestinese, e via discorrendo. Se tutto questo potesse davvero
 essere messo in moto, sarebbe il momento per convocare elezioni politiche 
e presidenziali anticipate. Ha chiesto che abbiano luogo il più rapidamente possibile anche il Consiglio centrale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, il massimo organo palestinese che comprende pure i rappresentanti della diaspora, e appoggia incondizionatamente Abu Mazen, ma ha due gravi  lacune: non è un organo democraticamente eletto come il Parlamento dell’Autorità
palestinese, dominato da Hamas, e Hamas e Jihad islamica non ne fanno
 parte. Un sondaggio realizzato da un istituto indipendente palestinese in questi
 giorni ha rivelato che il 75 per cento degli intervistati tra Gaza e la Cisgiordania vuole il voto anticipato e il 59 per cento attribuisce in egual misura ad al Fatah e a Hamas la responsabilità delle recenti violenze. Hanna Amireh, membro del Consiglio centrale e del Comitato esecutivo dell’Olp, ci dice che la separazione tra Gaza e la Cisgiordania è per “un lungo periodo”, e ammette l’esistenza del rischio che Hamas possa “esportare” la rabbia da Gaza verso la Cisgiordania: “E’ per questo che a Gaza non devono mai mancare cibo, elettricità, acqua (tutto passa via Israele)  e la riunificazione deve avvenire con strumenti politici”. Più volte negli ultimi mesi il capo dell’Ufficio politico di Hamas Khaled Meshal ha ammonito: se Israele non negozierà con i palestinesi in tempi brevi, ci sarà una nuova sollevazione popolare. Ora, questa terza Intifada potrebbe essere anche una rivolta contro Abu Mazen in Cisgiordania, se Hamas non avesse altri strumenti per uscire
 dall’isolamento. Il Governo di unità nazionale palestinese, archiviato con troppa
 leggerezza, era pure un freno a ogni rivolta.

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