Famiglia Cristiana on line pubblica nel numero 11 un articolo di Fulvio
Scaglione intitolato “Le armi non bastano”.
Il giornalista riporta un’intervista ad Amedeo Sperotto, generale di
brigata, appena rientrato da Herat il quale analizza l’attuale situazione afgana mettendo in rilievo l’importanza della presenza italiana nel paese. “La gente – dice il generale - stima i nostri soldati perché realizzano progetti utili alla gente, coinvolgendo i locali».
Alla fine del 2006, George W. Bush decise di inviare altri 21.500 soldati
in Irak. Ora il generale David Petraeus, che ha preso il posto del
generale
George Casey al comando delle truppe in Irak, prevede una nuova offensiva
terroristica e chiede al proprio Governo e a quello dell’Irak più
iniziativa diplomatica e l’apertura di un dialogo «con coloro che pensano
che il nuovo Irak non abbia un posto per loro», ovvero con le formazioni
ribelli. Se pensiamo all’Afghanistan, le similitudini saltano all’occhio.
Anche lì le forze della coalizione Nato si stanno infoltendo, anche lì
sono
in corso misure per smorzare l’impatto di una nuova offensiva data per
imminente. Prima che sia un generale della Nato, a ricordarci, come ha
fatto Petraeus, che «non c’è soluzione militare a un problema come l’Irak
(leggi anche Afghanistan, ndr.), l’azione militare è necessaria ma non
sufficiente», abbiamo chiesto a un generale italiano quali sistemi
funzionano in una missione difficile come quella afghana.
Amedeo Sperotto, generale di brigata, ora sottocapo operativo del Comando
forze operative, responsabile della preparazione delle unità dell’Esercito
che devono partire per missioni all’estero, ha appena concluso un turno di comando al Provincial Reconstruction Team italiano di Herat, dove non sono
mancati attentati anche sanguinosi. «È vero», dice il generale Sperotto,
«ma mai contro i nostri uomini o le nostre strutture. Solo in un caso
spararono lungo la strada per l’aeroporto dopo che era appena passato un
nostro veicolo. Le autorità locali, soprattutto la polizia, confermano che
si tratta soprattutto di faide tra gruppi criminali del luogo. I "signori
della guerra" potevano essere recuperati alla democrazia e molti lo sono
stati. Forse alcuni si sentono tagliati fuori, ed ecco che nascono le
tensioni».
Avete avuto a che fare con questo tipo di bande?
«Forse siamo stati fortunati, abbiamo avuto pochi contatti diretti con
l’opposizione armata. E invece ottimi rapporti con la popolazione e le
autorità».
C’è un segreto per questo risultato?
«Più che un segreto, un metodo. Il nostro è: non limitarsi alle strutture
ma lavorare anche sul senso del Paese. È sempre stato chiaro che noi non
eravamo lì "al posto di", ma piuttosto a "collaborare con". Abbiamo sempre
fatto in modo che fossero le autorità locali a individuare le priorità
degli interventi di cooperazione, e anche che fossero loro a spiegare alla
gente che cosa stavamo facendo. E qualche risultato è stato ottenuto,
visto
che abbiamo avviato 90 progetti e 40 sono stati portati a termine. Nel
frattempo, abbiamo visto cambiare l’atteggiamento della popolazione, anche
perché abbiamo scelto progetti di impatto immediato (cioè pronti in 5-7
mesi), per far capire che eravamo lì solo per aiutare. E il nostro metodo
venne studiato, ci fu persino un articolo sul Washington Post in
proposito».
Ci può fare qualche esempio?
«In sinergia con la Cooperazione italiana abbiamo costruito 11 scuole,
ristrutturato lo stadio di Herat che è un forte punto di aggregazione
giovanile, rifatto il pronto soccorso dell’ospedale, tracciato 40
chilometri di acquedotto per dare l’acqua a 40.000 persone, costruito una
stazione di pompaggio delle acque reflue. Con regolari gare d’appalto,
perché il lavoro si distribuisse tra tutti. Due i fiori all’occhiello: la
riorganizzazione della raccolta rifiuti, perché nei cassonetti andavano a
mangiare poveri, bambini e animali; e la costruzione del Centro di
coordinamento provinciale, che abbiamo dotato di radio, telefoni
satellitari e computer, perché il governatore potesse sapere quello che
succede sul suo territorio e comunicare in tempo reale con il Governo a
Kabul».
· A proposito di Kabul: una delle sfide è allargare l’autorità del
Governo
Karzaj su tutto il territorio. Sta succedendo, secondo lei?
«Tutti i nostri interventi erano diretti secondo priorità stabilite dalle
autorità locali con il Governo, ne sono testimone. Quindi secondo me sì,
l’autorità del Governo di Kabul piano piano si allarga».
Lei è in contatto con i suoi colleghi che sono a Herat. Che cosa
pensano
di questa offensiva di primavera?
«Lavorano e li sento sereni».
Dai soldati ai cooperanti. Marco Rotelli di Intersos ora è in Sudan, ma ha
lavorato in Afghanistan dal 2004 alla fine del 2006. Progetti sparsi in
quasi tutto il Paese, da Kandahar a Jalalabad, da Kabul alla provincia di
Helmand. Assistenza nei campi per preparare i profughi al ritorno alle
zone
d’origine, opere dedicate al sistema delle acque («Dove la crisi è
aggravata da sette anni di siccità, e influisce sui profughi: nessuno vuol
vederli tornare e consumare riserve d’acqua già scarse») e della sanità a
esso collegate, consulenza allo sminamento.
A Rotelli la domanda secca: che cosa non ha funzionato? «Nel 2001, dopo 30
anni di guerre, l’Afghanistan era in assoluta emergenza e le Ong sono
intervenute appunto nell’ottica dell’emergenza. Un paio d’anni fa, però,
molti hanno cominciato a riflettere e a chiedere interventi più
lungimiranti. Purtroppo la comunità internazionale non ha dato peso a tale
riflessione e i Paesi donatori si sono lanciati, con interventi
strutturali
anche massicci, verso uno sviluppo che non aveva solide basi. Tra
l’emergenza e lo sviluppo si è creato un buco che nessuno ha saputo
colmare. Ora siamo tornati all’emergenza, che però è insostenibile sul
lungo periodo».
Più soldati o no? La verità dov’è?
«La dichiarazione di vittoria militare è stata prematura, certe abitudini
erano troppo radicate per sparire a causa di una guerra lampo. Il ritiro
dei soldati, però, potrebbe essere devastante. È chiaro che accanto
all’intervento militare ci vuole quello della cooperazione, facendo ognuno
il proprio mestiere».
I cooperanti sono spesso stati attaccati. Voi come vi regolavate?
«Ribelli, talebani, guerriglieri, comunque li si voglia chiamare, sono una
presenza sul territorio, è impossibile non "incontrarli". Noi, grazie
all’utilità del lavoro che facevamo, godevamo della protezione della
popolazione, che era in contatto con i ribelli o addirittura ne era parte,
ma garantiva per noi».
Si può vincere la battaglia per far uscire l’Afghanistan dalla crisi?
«Sì, a patto che nasca un forte coordinamento tra tutti coloro che operano
sul campo e ci sia la volontà di ridiscutere senza pregiudizi e su scala
globale quello che si è fatto finora».
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