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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
25.08.2006 I rischi della missione italiana in Libano
assurdo assumerseli senza obiettivi chiari

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 25 agosto 2006
Pagina: 0
Autore: Bruno Marolo - Fulvio Scaglione
Titolo: «Ritorno in Libano - Intervista a Franco Angioni»

Nel numero 35 di Famiglia Cristiana on line sono pubblicati un articolo di
Bruno Marolo, corrispondente a Beirut nel 1982, intitolato “Ritorno in
Libano” dal quale emergono le perplessità, le contraddizioni  e gli
interrogativi sull’intervento italiano in Medio Oriente ed un’intervista al
generale Franco Angioni che nel 1982 comandò il contingente italiano a
Beirut.
La storia, a quanto pare, si ripete. Tornando in Libano i soldati italiani
andranno incontro agli stessi problemi che dovettero affrontare nella prima
missione, tra il 1982 e il 1984: si troveranno in un Paese senza pace,
preda delle sue contraddizioni interne e dei conflitti tra i suoi vicini.
Il rischio sarà giustificato soltanto se saranno chiari gli obiettivi.

Ecco l'articolo di Marolo:


Si dice che la prima volta sia andata bene. La Repubblica italiana non
aveva mai svolto un ruolo di protagonista sulla ribalta internazionale. Le
sue forze armate in Medio Oriente hanno dimostrato capacità superiori alle
aspettative. Hanno acquistato prestigio e lasciato un buon ricordo in
Libano. Non hanno colpa se il loro intervento non ha risolto la situazione.
I campi palestinesi che avevano protetto per due anni furono distrutti da
una fazione dell’esercito libanese dopo il loro ritiro, e il Libano
divenne, di fatto, un protettorato siriano.


Il generale comandante, Franco Angioni, paragonava il Medio Oriente a un
malato con la febbre alta. «Il compito di noi militari», mi diceva allora
tra le strade e le macerie di Beirut, dove lavoravo come corrispondente
dell’Ansa, «non è di curare la malattia, ma di impedire che la febbre salga
al punto da uccidere il paziente mentre i medici cercano la cura».


La lezione è ancora utile. L’invio di una forza di pace ha senso soltanto
se si individuano le cause della malattia e si ha il coraggio di
affrontarle alle radici. Nel 1982 il contingente italiano della forza
multinazionale andò in Libano sotto la spinta dell’indignazione suscitata
dal massacro dei palestinesi di Sabra e Chatila.


Gli obiettivi dichiarati erano due: ripristinare l’autorità del Governo
libanese e proteggere i civili nella periferia sud di Beirut, dove erano i
campi palestinesi. La contraddizione, evidente per chi conosceva il Libano,
venne nascosta all’opinione pubblica. La componente più forte del Governo
libanese era il partito falangista, che si era alleato con Israele per
cacciare dal Libano i guerriglieri palestinesi e voleva allontanare da
Beirut i musulmani sciiti affluiti dal Sud: la comunità libanese più
numerosa e più povera, facile preda dei fanatici della guerra santa e
potenziale vivaio di terroristi. Nel 1982 gli sciiti, che combattevano
contro i palestinesi una sciagurata guerra fra poveri, avevano accolto gli
israeliani come liberatori, ma si erano rivoltati contro di loro quando il
partito falangista si era insediato al potere con l’appoggio di Israele.
Era nato così il "Partito di Dio" sciita (Hezbollah) con le sue legioni di
attentatori suicidi.


I soldati italiani si dispiegarono tra sciiti e palestinesi alla periferia
di Beirut. Dovevano proteggerli, ma contro chi? L’esercito libanese, agli
ordini del presidente falangista Amin Gemayel, procedeva ad arresti in
massa e Angioni aveva la consegna di affiancarlo per sostenere l’autorità
del Governo. Si giunse a una soluzione all’italiana. Angioni avvertì
Gemayel che non avrebbe tollerato violenze nella zona sotto il suo
controllo. Il modo in cui l’esercito libanese trattava i prigionieri in
altre zone non era, purtroppo, affare suo.

L’unico caduto italiano in Libano fu un paracadutista di diciannove anni,
Filippo Montesi, che aveva chiesto invano di essere esonerato dal servizio
militare per provvedere alla madre vedova. Perse la vita nel primo
attentato contro la forza multinazionale, il 15 marzo 1983. Qualche giorno
prima il generale Angioni aveva messo a segno un’operazione di tattica
militare da manuale. Aveva individuato e neutralizzato una postazione di
razzi katiuscia rivolta contro le truppe israeliane nel Sud del Libano. La
rappresaglia di Hezbollah provocò la morte del soldato Montesi, ed è un
esempio da tenere presente mentre gli italiani tornano in Libano per
impedire il lancio di razzi contro Israele. Dopo l’attentato i servizi
segreti italiani trovarono un accomodamento con l’imam Fadlallah, guida
spirituale di Hezbollah: lo convinsero che la presenza dei soldati di
Angioni era nell’interesse della popolazione sciita, che da loro otteneva
non soltanto protezione militare, ma anche assistenza sociale e sanitaria.
L’ospedale da campo italiano era al servizio dei poveri di Beirut.


Il contingente italiano venne risparmiato nella notte di sangue del 23
ottobre 1983, nella quale due camion imbottiti di esplosivo dagli
attentatori di Hezbollah uccisero 246 soldati americani e 58 francesi,
forzando il ritiro della forza multinazionale. I militari avevano fatto il
possibile, tuttavia i politici non seppero creare le condizioni per la
pace.


Le guerre finiscono quando un vincitore annienta i suoi nemici, oppure si
trova un compromesso accettabile per tutte le parti in conflitto. Il
presidente americano Bush ha tentato la prima strada con il cambiamento di
regime in Irak, ma il risultato non è tale da suggerire il ricorso alla
forza contro Siria e Iran, i protettori di Hezbollah. L’alternativa è la
creazione di uno Stato palestinese a fianco di Israele, ma sul percorso di
pace si ergono tre ostacoli. Il primo è la provincia siriana del Golan, che
Israele ha occupato nel 1967 e non intende restituire. Il secondo è la
miriade di insediamenti israeliani in Cisgiordania, dove dovrebbe nascere
lo Stato palestinese. Il terzo è Gerusalemme, contesa tra israeliani e
arabi. Senza accordo su questi tre punti non c’è cura per il Medio Oriente.
Il Libano è un sintomo doloroso della malattia, ma le cause profonde sono
queste.


Oggi come 24 anni fa, una forza di pace con un contingente italiano
servirebbe soltanto a prolungare una situazione ingiusta e tragica, se non
la si affrontasse alle radici. Il presidente Bush si è pronunciato per una
soluzione chirurgica: il disarmo di Hezbollah, ovvero il suo annientamento.
Israele ha provato e non è riuscito. Una forza di pace rischia di pagare lo
stesso prezzo di sangue pagato il 23 ottobre 1983, se andrà in Libano per
combattere la guerra di Israele.

Intervista di Fulvio Scaglione

È tempo di missione in Libano, dunque. Molti parlano e giudicano, ma
nessuno può vantare la competenza del generale Franco Angioni, che nel 1982
comandò il contingente italiano di stanza a Beirut. «I preparativi
cominciarono anche allora in agosto: all’inizio il nostro compito era di
sgombrare i palestinesi e i 3.000 soldati siriani bloccati a Beirut
dall’assedio degli israeliani. Poi fummo richiamati dopo l’assassinio del
premier libanese Beshir Gemayel e le stragi di Sabra e Chatila».


Una situazione non meno difficile di quella odierna, anche se Angioni
rifiuta un paragone semplicistico tra le due missioni. «Ci sono differenze
e somiglianze che, a seconda dell’approccio, possono rivelarsi decisive.
C’è sempre il terrorismo di Hezbollah, per esempio, anche se ai miei tempi
era solo all’inizio e consisteva soprattutto di miliziani che affluivano
dall’Iran per aiutare gli sciiti del Libano. E sullo sfondo c’è ancora il
contrasto tra Israele e i palestinesi, benché dal punto di vista politico
il momento sia forse più favorevole: Israele pare un po’ meno rigido e i
palestinesi più disponibili, nonostante il radicalismo di Hamas abbia
raggiunto il Governo, a trattare con Israele. Una differenza importante sta
nel terreno: allora la missione si svolgeva a Beirut, in un contesto
urbano, oggi il Sud del Libano, un campo aperto, disseminato di villaggi e
centri abitati. E poi nel compito: noi dovevamo sostenere il Governo
libanese e proteggere la popolazione, ora la Risoluzione 1701 dell’Onu
parla di un po’ di tutto e accenna al disarmo di Hezbollah, senza spiegare
bene come dovrà essere realizzato».

·  Dunque, la prima delle differenze sta nel mandato?

«Nel 1982 il Consiglio di sicurezza dell’Onu non poté arrivare a una
risoluzione per il veto dell’Urss. Si limitò a una "raccomandazione", e
quindi il contingente internazionale fu formato su base volontaria, per
iniziativa di alcuni Paesi: gli Usa considerati filo-Israele, la Francia
filo-Libano e noi, l’Italia, a fare da cuscinetto. Poi, il 10 marzo 1983,
arrivò anche uno squadrone inglese, 100 uomini che rientrarono nel novembre
dello stesso anno. Erano pochi, non potevano fare nulla: in Medio Oriente
se non sei forte rischi di essere spazzato via. In ogni caso, la mancanza
di una risoluzione impedì la formazione di un comando unico dell’Onu. Le
tre forze rispondevano ai propri Governi, quindi la catena di comando era
veloce e rapida nelle reazioni».

·  Dagli ambienti militari italiani traspare sfiducia nel comando Onu, che
stavolta ci sarà.

«Il ricorso a un contingente militare, in un’emergenza, è sempre l’ultima
ratio, la scelta estrema della politica. Ma la saldatura tra sfera militare
e sfera politica dev’essere chiara e netta. Altrimenti il rischio è che si
fermi tutto. Gli esempi non mancano: la Somalia, la Bosnia, dove i caschi
blu olandesi assistettero inerti al massacro dei musulmani bosniaci, il
Ruanda...».

·  Questo fa pensare che la missione possa essere assai pericolosa…

«Tutte le operazioni militari lo sono, per questo si ricorre ai militari.
Ma qui è la natura della missione a essere ambigua. È un’operazione di
peacekeeping? No, perché non c’è una pace più o meno precaria da garantire,
ma solo una tregua. E poi, pace fra chi? Non c’è una guerra di Israele
contro il Libano, ma di Israele contro Hezbollah. Né il Libano ha chiesto
aiuto all’Onu contro Hezbollah».

·  Eppure il punto chiave della missione è il disarmo di Hezbollah. A chi
toccherà il compito?

«Gli analisti della Risoluzione 1701 dicono che il disarmo delle milizie
compete al Governo di Beirut, anche se è chiaro che, se solo avesse potuto,
l’avrebbe già fatto, come infatti è successo con le altre milizie. E poi
non si tiene conto della realtà dell’esercito libanese. In primo luogo ha
una scarsissima capacità operativa. Inoltre poi la truppa è per la maggior
parte sciita, mentre gli ufficiali sono drusi, cristiani e sunniti. Se
questo esercito dovesse disarmare Hezbollah, si arriverebbe alla guerra
civile, come infatti successe nel 1983. L’esercito libanese fu incaricato
di cacciare i miliziani sciiti da un settore di Beirut contiguo a quello da
noi presidiato. Vi fu un massiccio bombardamento di mortai, ma quando
entrammo nel quartiere sciita trovammo tutti i proiettili inesplosi: i
mortaisti libanesi, sciiti anche loro, avevano manomesso le spolette. Ne
seguì una specie di ammutinamento e a noi toccò scortare gli ufficiali al
sicuro nel settore cristiano».

·  Allora che cosa possiamo aspettarci?

«È probabile che si arrivi a un accordo tra Governo libanese e Hezbollah e
a una messinscena ipocrita: i miliziani consegneranno i ferrivecchi e
l’esercito libanese fingerà di prendere in consegna armi vere. Questa
risoluzione non fa nulla di concreto per il risultato politico
fondamentale, che è eliminare la minaccia per Israele che arriva da Nord
(cioè, appunto, Hezbollah) per consentire di risolvere il problema con i
palestinesi a Sud. Al più serve da trampolino di lancio, ma il balzo lo
deve ancora fare la volontà di tutti i Paesi interessati alla pace in Medio
Oriente».

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