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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
11.08.2006 Israele sotto l'attacco di Hezbollah
un corretto reportage pubblicato dal settimanale cattolico

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 11 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Filippo Landi
Titolo: «Colpo su colpo»
Famiglia Cristiana nel n. 33 on line del 13 agosto pubblica un articolo
intitolato “Colpo su colpo”a firma Filippo Landi.
L’articolo delinea in maniera obiettiva le emozioni, i sentimenti di paura,
ansia e angoscia  che albergano nell’animo della popolazione israeliana da
quando la guerra contro i ripetuti attacchi degli Hezbollah è diventata
ancor più cruenta.
La strage di Kfar Gladi del 6 agosto è solo l’ultimo episodio  di una
strategia di terrore che non accenna a fermarsi.


Sono le 12 del mattino, le 11 in Italia. È domenica, il primo giorno di
lavoro. Da alcune settimane, il televisore dell’ufficio è sempre acceso. Il
volume basso, ma sufficiente per capire i nomi delle località citate. E poi
c’è quella scritta in rosso, che appare sulle immagini quando accade
qualcosa di grave: "Kfar Giladi".

Quel nome è come una fitta nel corpo di Noa. Le prime notizie sono già
drammatiche: «Poco fa, a Kfar Giladi, è caduto un razzo, ci sono feriti,
alcuni in condizioni critiche». Questa espressione, "condizioni critiche",
in Israele da sempre prepara chi assiste alla morte di qualcuno. E Kfar
Giladi è il luogo dove Gideon, riservista, uno dei due fratelli di Noa, sta
tornando dopo una brevissima licenza. Adesso è lì, a pochi chilometri dal
confine libanese

Noa prende il telefonino, ma il numero che chiama è fuori servizio. Uno,
due, tre tentativi. Poi si ferma. Un’amica che ha capito tutto fa finta di
domandare: «Cosa succede?». E poi le parole, scontate, ma che in quel
momento si desidera sentirsi dire: «Non preoccuparti, non pensare al
peggio...».

Molti israeliani vivono così questi giorni di guerra. Per un telefono che
squilla, altri tacciono. Alla fine, Gideon è vivo. Quasi per miracolo. Il
parcheggio dove 12 suoi compagni sono morti, lui lo aveva lasciato mezz’ora
prima

Per gli israeliani, la Tv è divenuta la compagna, come anche la radio, del
vivere quotidiano. Ti dice subito dove l’allarme sta suonando. L’allarme
che precede, ma più spesso segue, l’arrivo dei razzi Katiuscia. Al Nord le
sirene si sentono, altrove si ascoltano attraverso le dirette televisive. E
poi c’è l’allarme antifurto delle case. Alle otto del mattino si è messo a
suonare a casa di Amir, all’estrema periferia di Haifa. Non c’è nessuno in
casa perché Amir venerdì sera ha raggiunto Ruth, Emanuel e Odelia a casa
della suocera, vicino a Tel Aviv. Loro sono lì da una settimana, per
prudenza. Ma l’allarme dice che qualcosa è successo. Il telefono dei vicini
non squilla. I telefonini sono fuori servizio. La radio interviene e cita
anche il quartiere di Haifa dove c’è la sua casa. Andiamo a vedere, con la
speranza che i razzi abbiano fatto impazzire solo antifurti e telefono. Non
è così.

La villetta è in piedi, ma dentro è un disastro. Mezzo tetto è venuto giù.
Il salone, la camera da letto, la cucina, un ammasso di polvere bianca che
copre i calcinacci, e i mobili a pezzi. «Sono un uomo senza più una casa,
ma sono vivo», dice Amir a chi lo vuole consolare.

Gli Hezbollah hanno pagato caro l’ultimo lancio che hanno fatto. Non il
razzo Katiuscia che ha semidistrutto la casa di Amir, ma l’altro missile,
il Kaibar, molto più potente, che ha raggiunto nella notte la periferia di
Hadera, caduto in un campo. Gli aerei hanno individuato e colpito, in
Libano, il luogo da dove il missile è partito. È stata fatta terra
bruciata. Yoav, mentre pranza con i colleghi, racconta di Hadera, del
missile che fa paura perché ha superato di 80 chilometri il confine
libanese scendendo verso Sud, ma anche dell’immediata risposta
dell’aviazione. «E tu ci credi?». La domanda di Rachel, sembra spezzare un
incantesimo. «Quante volte ci hanno già detto di aver distrutto le loro
postazioni e invece continuano a sparare!». Yoav risponde: «Hanno distrutto
la postazione di lancio del missile, che è molto più facile da individuare
di quelle dei Katiuscia…».

I giornali pubblicano le foto delle vittime. I soldati caduti in battaglia,
i civili morti nelle loro case. Volti spesso di giovani, e i nomi non sono
tutti ebraici. Mohammed e Sultana erano due arabi israeliani. Sono morti
anche loro. Ma la stampa è piena anche di cronache e di dettagli tecnici
sulla guerra, assai più delle dichiarazioni dei politici.

Anche la strage di Cana, la strage dei bambini, vi ha fatto irruzione.
Qualche israeliano, anzi più di qualcuno, è sceso in strada a Tel Aviv con
lo slogan: Stop the war, "Fermate la guerra". Indirizzato a tutti, agli
Hezbollah, ma anche ai politici e ai militari israeliani. Davanti a quei
cartelli altri israeliani sono andati a sventolare la bandiera d’Israele e
contro i pacifisti sono volati insulti. Ma la maggior parte della gente è
rimasta in casa. Di Cana si è parlato un po’ con il cuore, ma di più con le
parole di chi sul villaggio libanese le bombe le ha gettate. Con le parole
dei piloti degli aerei. Ogni giorno i loro comandanti li autorizzano a
rilasciare interviste. I piloti sono sempre stati gli eroi di Israele.
Oggi, sono anche il puntello delle coscienze.

Spiegano le ragioni degli attacchi; parlano della possibilità di uccidere
civili; affermano che la colpa delle vittime innocenti ricade sugli
Hezbollah; ammettono qualche errore. Soprattutto, dicono che la difesa dei
cittadini israeliani ha la priorità. Parole che rafforzano chi la pensa
così, e vengono ascoltate con attenzione da chi continua a chiedersi perché
affidare la sicurezza di Israele ai militari, che promettono, innanzitutto,
la precisione delle bombe.

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