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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
31.07.2006 La speranza di Israele è che questa guerra finisca presto
una rassegna di articoli utile a capire la società di un paese aggredito

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 31 luglio 2006
Pagina: 0
Autore: la redazione
Titolo: «rassegna di articoli»

 Pubblichiamo una breve rassegna di articoli sull’attuale conflitto israelo-libanese apparsi su Famiglia Cristiana del 30 luglio 2006. 
In un momento così drammatico nel quale le diplomazie occidentali cercano  di imporre una tregua, gli Hezbollah continuano a lanciare decine e decine  di razzi sulle città israeliane e Israele viene accusata di “reazioni  sproporzionate” e “crimini di guerra” riteniamo utile sottoporre ai lettori  di Informazione Corretta questi articoli che hanno il pregio di offrire uno  spaccato della società israeliana, delle sue preoccupazioni, dei suoi  drammi e della speranza che alberga in ogni cittadino israeliano: che  questa guerra finisca presto.

FAMIGLIE IN TRINCEA di Filippo Landi

Era sera, quando a casa di Noa, sulla collina di Mevasseret che sorge poco  prima di giungere a Gerusalemme, ci si era finalmente fermati sul divano a  guardare il telegiornale. I bambini erano già a letto, presto, come si fa  in Israele, perché loro mangiano già alle sette di sera. La scuola, d’ altra  parte, comincia presto. Ancora pochi giorni e sarebbe stata vacanza per i  figli di Noa e per gli altri scolari israeliani. Quella sera del 25 giugno, quando la Tv ha portato la notizia  dell’uccisione di due soldati israeliani e di tre miliziani palestinesi e  del rapimento, sul confine della Striscia di Gaza, del caporale Gilad  Shalit, in quel momento Noa ha avuto un tuffo al cuore e ha detto al  marito: «Che brutta storia! È l’inizio della terza intifada?».  La cronaca di questi giorni ha portato, in verità, sulle prime pagine dei  giornali israeliani un’altra parola, semmai ancor più angosciante. La  parola: guerra. Le famiglie israeliane hanno più fiuto dei politici, quando  c’è qualche notizia brutta che li può coinvolgere. Il rapimento del  caporale Gilad e poi la cattura, da parte degli Hezbollah, di due altri  soldati sul confine libanese hanno segnato l’accrescersi della paura dei  genitori. Molti figli, infatti, sono sotto le armi e altri potrebbero > essere richiamati. Così era stato per il marito di Noa, l’anno scorso per > la protezione dei soldati e dei coloni che si ritiravano da Gaza. Così è  stato adesso in tante famiglie.  A Kiryat Shmona, a pochi chilometri dal confine libanese, è arrivata, quasi  subito, anche la paura dei razzi Katiuscia. Tanti, questa volta, e quindi  la necessità di trascorrere la notte e poi molte ore del giorno nei rifugi.  Vicino alla cittadina, un poco più verso nord, quasi a ridosso del confine  libanese, ci sono anche i cannoni israeliani che sparano enormi proiettili  verso il Libano. Alcuni bambini della zona, in un momento di tregua,  vengono ripresi da un fotografo. Non sono impauriti, anzi scrivono, sotto  l’occhio dei soldati, e come vecchi uomini incattiviti dalla guerra, i loro  messaggi sulle bombe e non sono messaggi d’amore.  Di quelle fotografie, di quei bambini si discute anche nelle case di  Gerusalemme. «Non è possibile, quelle foto non sono vere, non possiamo > essere diventati così»: Slomi lo dice e lo ripete, fin quando scopre che  non è un falso. Slomi è uno di quei tanti israeliani che appoggia il  Governo, ma che rimane incredulo davanti a dei bambini che augurano la  morte ad altre persone. E allora la discussione prende altre strade. Dice  Amos: «Ammetti la verità: abbiamo chiuso gli occhi davanti ai bombardamenti  di Beirut e di tanti luoghi del Libano. Hai visto l’ultimo sondaggio: dice  che la grande maggioranza di noi è convinta che ci sia una proporzione tra  gli attacchi che subiamo e la risposta del nostro esercito. A me non sembra >che ci sia. Noi stiamo spianando il Libano. Quello che più mi spaventa è  l’odio che stiamo alimentando nel mondo arabo: le foto, terribili, dei  bambini libanesi morti sotto i bombardamenti fanno il giro del mondo e noi > non ce ne rendiamo conto». Amos ora tace. Tutti rispettano quello che ha  detto. «Inevitabile, è inevitabile», è il commento di Aluf, che aggiunge:  «È vero siamo più forti, abbiamo armi più potenti degli Hezbollah. Ma,  pensa cosa potrebbe succedere se noi non rispondessimo con forza agli  Hezbollah. Se accettassimo una trattativa con loro, se ci mostrassimo  deboli davanti a tutto il mondo arabo?» Il padre del caporale Gilad Shalit, una sua risposta l’ha data. In  un’intervista, ha ricordato che il Governo israeliano due anni fa trattò  con gli Hezbollah e liberò molti detenuti dalle prigioni in cambio di un  uomo d’affari israeliano e dei corpi di tre soldati israeliani uccisi in  Libano. Le sue parole non sono cadute nel vuoto. Pur nel fragore delle bombe, un ministro israeliano, Avi Dichtar, ex capo dei servizi segreti  interni, almeno in due occasioni ha detto che una trattativa e uno scambio  di prigionieri si può prendere in considerazione.  Da Kyriat Shmona, e da molte cittadine del Nord di Israele, sono partiti  tanti bambini e genitori: destinazione il Sud. Molti si sono ritrovati  nuovamente insieme, vicino al mare a Nitzanim. Qui un miliardario israeliano, di origine russa, ha organizzato una grande tendopoli. Un campo  estivo, per bambini e genitori. L’atmosfera è molto diversa, assai meno  tesa che a casa. Quanto durerà questa strana permanenza? E che cosa fare  del Libano, che è a pochi chilometri dalle proprie case? «L’esercito ci  deve difendere», dicono alcuni. «Abbiamo sbagliato a ritirare i nostri  soldati dal Sud del Libano, nel maggio del 2000», dicono altri. «Ricorda,  quanti nostri ragazzi sono morti in Libano, negli anni ’80 e ’90»,  ammonisce ancora un altro. Non ci sono soluzioni facili.  A Gerusalemme, davanti alla porta di Damasco, i giovani musulmani sono  costretti nuovamente a pregare in strada. Agli uomini che hanno meno di 45  anni non è permesso accedere alla spianata delle Moschee, il venerdì. La >polizia israeliana teme disordini. > Poche ore e il silenzio cade sulla parte ovest, quella ebraica di  Gerusalemme. Inizia lo Shabbat, la festività settimanale degli ebrei. C’è  però un rumore sordo in più, quello degli aerei, che vanno a bombardare il  Libano.

SIGNOR NO, NON VADO SU QUEL FRONTE di Roberto Zichittella
«Prendi il fucile e ammazzami!». Quando il soldato Tomer Weinberg, ancora  stordito dalle esplosioni, ha sentito le voci di arabi che si avvicinavano,  ha implorato il commilitone di sparargli. Meglio morire piuttosto che  finire ostaggio degli arabi, ha pensato. Ma il soldato Weinberg è stato  fortunato. È riuscito a strisciare verso un cespugli dove si è nascosto.  Ora è in ospedale con il braccio destro devastato dalle ferite. Ma almeno  non gli è stato amputato e con una lunga rieducazione potrà tornare a >usarlo quasi normalmente. È andata peggio a Eldad Regev e Ehud Goldwasser, gli altri due militari che  lo scorso 12 luglio viaggiavano con Weinberg sul mezzo blindato assalito  dagli Hezbollah lungo il confine con il Libano. Entrambi, dopo l’assalto al >blindato, sono stati rapiti. Un rapimento che il Governo del premier Olmert  considera “un atto di guerra”. Entrambi i soldati sono riservisti. Regev, ebreo ortodosso, ha 26 anni e  abita presso Haifa, dove lavora come tecnico della compagnia elettrica.  Ehud Goldwasser ha 31 anni, è sposato e lavora nel Politecnico di Haifa. Di  loro non si sa più nulla. Nessuna notizia anche di Gilad Shalit, il  sergente di 19 anni rapito dai militanti di Hamas lo scorso 25 giugno al  confine fra Israele e la Striscia di Gaza. Per la sua causa si è mossodiscretamente anche l’arcivescovo Antonio Franco, nunzio vaticano a Gerusalemme, che tramite una parrocchia cattolica di Gaza ha tentato di  intercedere con Hamas per la liberazione di Shalit. «Ma da Hamas non sono  arrivate risposte», ha dichiarato il nunzio al quotidiano Jerusalem Post.  Nei giorni scorsi i familiari dei tre soldati rapiti si sono incontrati.  «Abbiamo tante cose in comune, soprattutto dolore, paura e incertezza sul  destino dei nostri ragazzi», dice Noam Shalit, padre del caporale nelle  mani degli uomini di Hamas. Non è la prima volta che soldati israeliani  sono vittime di rapimenti. Qualcuno è tornato libero, altri sono stati  uccisi, di alcuni non si sa più nulla da anni. Ognuno di questi casi è  vissuto con sofferenza da parte di Tsahal, il nome dato a uno degli  eserciti più preparati del mondo, nato con questa missione: «Difendere  l’esistenza, l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato di  Israele. Proteggere gli abitanti di Israele e combattere tutte le forme di > terrorismo che minacciano la vita quotidiana».  Simbolo di Tsahal sono la spada e l’ulivo. Negli ultimi anni sempre più  soldati hanno lasciato cadere la spada per impugnare il ramoscello di  ulivo. In varie occasioni gruppi di militari, ufficiali, riservisti hanno  criticato le iniziative militari del Governo rifiutandosi di prestare  servizio. È il fenomeno dei cosiddetti refuseniks. Anche in questi giorni  c’è stato un caso di obiezione di coscienza. È quello del sergente Itzik Shabbat, un producer televisivo di 28 anni, che è già stato in carcere per  essersi rifiutato di prestare servizio nei territori palestinesi occupati > ed è contrario agli attacchi contro il Libano. L’opinione pubblica si è  subito divisa tra chi lo accusa di essere un eroe e chi invece lo considera  un traditore. 

«SIAMO STATI COSTRETTI A REAGIRE CON FORZA»
di Giulia Cerqueti  Lo scrittore israeliano, noto per le sue posizioni pacifiste, appoggia la scelta di bombardare il Libano. Ecco percLa voce di Abraham Yehoshua è tesa, preoccupata, esausta. A tratti viene  interrotta da un respiro profondo, poi riprende a parlare, adagio,  scandendo le parole con una forza che fa trapelare la disperazione. Lo scrittore israeliano, uno dei massimi rappresentanti della letteratura  in ebraico, risponde al telefono da Haifa. Nonostante i bombardamenti, non  ha abbandonato la sua casa. Tanti anni fa Yehoshua preferì Haifa a >Gerusalemme, scegliendo di vivere in questa città del Nord d’Israele laica,  vitale, attiva. Oggi trasformata in un inferno.  · Yehoshua, come si vive ad Haifa in questo momento?  «Ci troviamo in una situazione di semiguerra. Molti se ne sono andati dai  loro parenti nel Sud, ma non abbiamo rifugiati. Tutti i servizi municipali  e l’assistenza medica continuano a funzionare bene. Possiamo resistere ancora per molto tempo».  · Haifa è un simbolo della coesistenza tra arabi ed ebrei. Ora è stata  trasformata in un campo di battaglia... «Ma la collaborazione tra ebrei e arabi continua e, anzi, ora si è  rafforzata. Gli arabi stanno soffrendo come gli ebrei. Non c’è alcuna ostilità fra i due popoli nella città. Le ostilità vengono dall’esterno». · Lei fa parte di quell’ala pacifista che ha criticato le scelte politiche  del Governo israeliano. Ora appoggia l’operazione militare di Israele in  Libano. Perché?  «Noi abbiamo messo fine all’occupazione del Libano anni fa. Abbiamo sempre  rispettato, da allora, l’integrità dei territori libanesi. Questi attacchi  sono una provocazione al fine di indurci a una guerra. Hezbollah rifiuta il > diritto di esistere di Israele. Ha provocato un conflitto, con l’appoggio  di Siria e Iran, senza calcolare le conseguenze per il Libano. Hezbollah è  un’organizzazione odiata anche dai libanesi».  · Da più parti si giudica la reazione di Israele troppo forte,  sproporzionata. Che cosa ne pensa?  «La questione è che la nostra reazione non è rivolta al Libano ma ai centri  e alle forze di Hezbollah. Questa organizzazione sta operando all’interno > della popolazione civile, ha addirittura nascosto i missili nelle case  private. Dunque, l’unica cosa che possiamo fare è colpire quelle  abitazioni. Siamo costretti a reagire con forza, altrimenti Hezbollah  arriverà a paralizzare la nostra esistenza».  · Israele si è ritirato sia dal Libano sia da Gaza. Il problema, dunque,  non è più l’occupazione, bensì l’esistenza stessa di Israele. Allora, si  può ancora parlare di speranza di pace? «L’unica via di uscita è che l’Europa intervenga con fermezza, con una  forza militare internazionale sul confine tra Israele e Libano. Anche i  Paesi islamici moderati hanno condannato le azioni di Hezbollah. Va  ricordato che la maggior parte dei palestinesi ha riconosciuto Israele come  Stato. Noi non chiediamo più una pace totale, chiediamo semplicemente un > “modo di vivere” fra ebrei e palestinesi».

NONOSTANTE TUTT LA PACE È POSSIBILE» di Roberto Zicchitella

Tristezza e preoccupazione. Per Renzo Gattegna, neopresidente dell’Unione  delle comunità ebraiche, sono questi i sentimenti che prevalgono tra gli  ebrei italiani in questi giorni di guerra al confine tra Libano e Israele.  · Avvocato Gattegna, come state vivendo questo conflitto?  «Prevale una grande tristezza per le perdite rilevanti di vite umane e di  beni da entrambe le parti. Ma la comunità ebraica è anche molto preoccupata  perché è evidente che si stava preparando un tentativo di attacco molto > pericoloso da parte degli Hezbollah, creati e protetti da Iran e Siria, nei  confronti delle città israeliane».  · Sembra che Israele sia stata quasi colta di sorpresa da questa minaccia  che si stava preparando al confine, come mai?  «Certamente Israele sta tentando di eliminare un pericolo che si sta  rivelando molto più grande del previsto. Anche perché questo pericolo è  sparso nel territorio, a volte annidato negli insediamenti abitati dai > civili. Quindi, per quanto si cerchi di limitarle, le perdite sono molto  pesanti e questo turba la coscienza di tutti». · Si discute molto sulla proporzionalità della risposta armata di Israele,  lei che cosa ne pensa?  «Bisogna considerare la dimensione della minaccia. Rispetto al rapimento  dei due soldati israeliani la risposta di Israele è certamente molto decisa  e molto violenta. Poi però è emerso un pericolo molto più serio e mortale.  Si è dimostrato che certe minacce di distruzione di Israele non erano  parole al vento. Si stava passando ai fatti. Perciò ritengo che la reazione  abbia voluto eliminare anche una minaccia incombente molto seria».  · Pensa che in Italia le forze politiche e l’opinione pubblica abbiano  compreso le ragioni di Israele?  «La veglia di qualche giorno fa vicino alla sinagoga di Roma ha raccolto  una presenza solidale di quasi tutte le forze politiche. Credo che gli  italiani stiano capendo qual è la posta in gioco e le ragioni che  costringono Israele a difendere la propria sopravvivenza».  · Dopo tutto questo sangue e questi lutti quale futuro prevede in Medio  Oriente? «Resto ottimista. Se Israele ha potuto concludere accordi con Egitto e  Giordania non vedo perché non si possa stabilire un rapporto di convivenza con tutti gli altri Paesi della regione e con la popolazione palestinese, che dovrebbe poi riuscire a esprimere una propria entità nazionale».

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