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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
03.02.2006 Il pericolo Hamas e la situazione politica palestinese
una cronaca scorretta

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 03 febbraio 2006
Pagina: 0
Autore: Gugliemo Sasinini
Titolo: «Rivoluzione Hamas»

Famiglia Cristiana del 5 febbraio, nel numero on line, pubblica un articolo
di Guglielmo Sasinini intitolato “ Rivoluzione Hamas”.

Il giornalista analizza in maniera corretta la situazione politica
palestinese all’indomani delle elezioni che hanno visto salire al potere il
gruppo terroristico di Hamas: una formazione integralista, responsabile
negli ultimi anni di 40 attentati in Israele che hanno causato la morte di
oltre trecento civili, che predica la distruzione dello Stato di Israele ed
esalta le stragi compiute dai kamikaze.

La loro schiacciante vittoria rischia di aprire inquietanti scenari in
Medio Oriente.

Ecco il testo:


Ramallah, "capitale" laica di uno Stato che per il momento non c’è, non si
è ancora ripresa dallo sconcerto seguìto alla vittoria del blocco islamico
di Hamas, che alle elezioni politiche si è aggiudicato 76 dei 132 seggi del
Parlamento. Una clamorosa rivoluzione degli equilibri palestinesi, dalle
conseguenze ancora incalcolabili.
L’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, creata da
Arafat) praticamente sparisce dalla scena. Mentre gli integralisti islamici
– che predicano la distruzione dello Stato di Israele, esaltano gli
attentati kamikaze, non hanno mai accettato il processo di pace, né sono
interessati ad alcun negoziato con Israele – ora possono sventolare le loro
bandiere verdi sul palazzo del Parlamento palestinese. I sostenitori di
Al-Fatah (il movimento storico palestinese arafatiano) li guardano con
umiliazione e rabbia.
I nuovi dirigenti di punta di Hamas sorridono sornioni, e rilasciano
dichiarazioni ambigue. Khaled Mashal, il leader di Hamas rifugiato a
Damasco, manda a dire che «è ancora, più che mai, il momento della lotta
armata». Mahmoud Zahar, leader clandestino nei Territori, ha dichiarato che
i gruppi di fuoco manterranno la tregua, «se Israele non li attaccherà».
Saeb Erekat, il capo della Commissione palestinese incaricata dei negoziati
con Israele, è sconcertato: «La nostra vita non sarà più la stessa, non
sappiamo cosa ci aspetterà, né quali sono le reali intenzioni dei
vincitori». Dice "vincitori" Saeb Erekat, come se il solo nome di Hamas
fosse per lui impronunciabile. «Comunque ha dell’incredibile che chi
considera morto e sepolto tutto ciò che noi, faticosamente, abbiamo
costruito in quindici anni di negoziati oggi possa considerarsi il
rappresentante del popolo palestinese. Per carità, le elezioni sono state
vinte democraticamente, non voglio insinuare nulla, ma il processo di pace
tra palestinesi e israeliani richiede atteggiamenti prudenti e responsabili
da entrambe le parti. E anche la nostra parte deve ammettere che ha delle
gravi responsabilità».
È innegabile che la corruzione imperante nei ranghi più elevati
dell’Autorità nazionale palestinese e la "distrazione" di milioni di
dollari provenienti dagli aiuti internazionali (1 miliardo di dollari
l’anno solo da Stati Uniti e Unione europea) e dalle tasse sul petrolio,
che Arafat provvedeva a dirottare sui suoi fondi neri, hanno alimentato un
malcontento diffuso tra la popolazione palestinese che è confluito
nell’appoggio massiccio al blocco islamico.
Di certo, Israele non è disposto a trattare con un primo ministro di Hamas
e con un’organizzazione terroristica che invoca la sua distruzione.
Altrettanto sicuramente l’Egitto e la Giordania guardano con preoccupazione
alla vittoria del blocco islamico, filoiraniano e con forti appoggi in
Siria.
Hamas, l’organizzazione creata nel 1973 dallo sceicco Ahmed Yassin per
occuparsi dei palestinesi, costruire cliniche, asili, scuole, fornire
un’educazione ai bambini, agli inizi poté contare sull’appoggio non
irrilevante che proprio Israele gli fornì, tra la fine degli anni Settanta
e l’inizio degli anni Ottanta, nel tentativo di creare un contrappeso al
potere dell’Olp di Arafat.
Nel tempo, però, Hamas ha mutato atteggiamento, alleandosi con le frange
integraliste palestinesi islamiche, scavalcando la componente degli
intellettuali cristiani all’interno dell’Olp, stringendo alleanze con i
Fratelli Musulmani egiziani, gli Hezbollah libanesi, gli iraniani, la
Siria. Dopo l’11 settembre 2001, Hamas è entrata ufficialmente nella lista
nera delle organizzazioni terroristiche, ma già molto prima di quella data
gli attacchi suicidi erano diventati la principale arma dell’organizzazione
dello sceicco Yassin.
L’Unione europea, che nel settembre 2003 aveva respinto la distinzione tra
ala politica di Hamas e ala militare, ora dichiara che non vi può essere
alcuna tolleranza nei confronti di un movimento fondamentalista e che è
inaccettabile detenere il potere politico e proseguire nella violenza
terroristica.
La comunità internazionale tenta in queste ore di far capire ad Hamas che
se vuole essere un interlocutore deve riconoscere il diritto all’esistenza
di Israele e, quindi, riprendere immediatamente la strada del processo di
pace.
In Israele ribaltano la questione. «Ora sono loro», dice un esperto
strategico di Tel Aviv, «ad avere bisogno di noi. O riconoscono lo Stato
ebraico e, quindi, gli accordi di Oslo, o nessun Governo sarà disposto a
dialogare mai con un primo ministro di Hamas. Nel 1995 nessuno dei
negoziatori avrebbe potuto immaginare che Hamas undici anni dopo non solo
avrebbe partecipato al voto (nel ’96 aveva boicottato le urne proprio
perché ripudiava Oslo e l’Autorità palestinese), ma che avrebbe addirittura
vinto».
E intanto, l’esercito israeliano, quello giordano e quello egiziano, così
come i rispettivi servizi di sicurezza, hanno decretato lo stato di massima
allerta.
Il timore che Hamas "brindi" alla sua vittoria politica con un’escalation
terroristica è più fondato che mai.

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