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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
15.01.2006 Il settimanale cattolico corretto ed equilibrato
speriamo che duri

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 15 gennaio 2006
Pagina: 24
Autore: Guglielmo Sasinini
Titolo: «Il generale della pace»

L’articolo, molto corretto a partire dal titolo, riporta in maniera obiettiva l’attuale situazione politica israeliana, la grave malattia che ha colpito nelle ultime settimane il primo ministro Ariel Sharon e gli scenari che si prospettano nell’immediato futuro.

 

Emerge il ritratto di un uomo politico coerente e fermo nelle sue decisioni, anche le più difficili e dolorose, un generale che ha difeso il suo paese, che ha lottato contro il terrorismo ma che non ha mai smesso di credere nella pace e nella convivenza pacifica con il popolo palestinese.

Ancora una breve osservazione. La biografia di Sharon che segue il testo ha come titolo "Storia di un falco che diventò colomba".  Pensando ai molti articoli pregiudizialmente negativi su Israele che negli anni abbiamo letto su FAMIGLIA CRISTIANA, potremmo titolare queasta nostra pagina " Un buon articolo sul settimanale cattolico che da filopalestinese è diventato più equilibrato". Aggiungeremmo, finchè dura.

 Ecco l'articolo:

 

L’ultima battaglia del "generale Arik" si è combattuta tra le pareti bianche dell’ospedale Hadassah di Gerusalemme, uno dei pochi posti di Israele impermeabile all’odio, un centro clinico di eccellenza che cura senza distinguere tra ebrei e palestinesi. Anche questo, forse, verrà interpretato come uno dei tanti "segni" che hanno costellato la vita di Ariel Sharon

Di fronte alla malattia del suo premier, Israele ha reagito ricorrendo a quei sentimenti che appartengono al corredo più intimo della società israeliana. 
Da metà dicembre, quando la crisi circolatoria si era manifestata per la prima volta, fino all’ultimo intervento per bloccare l’emorragia cerebrale, l’uomo al quale gli israeliani avevano affidato i propri destini si era comportato da quell’indomabile generale che sui campi di battaglia sfidava la sorte prendendo sempre l’iniziativa. Nessuno riesce a immaginare un domani senza Sharon, con un nuovo premier capace di affrontare le conseguenze delle imminenti elezioni politiche palestinesi e di quelle israeliane, un uomo che sappia continuare a tessere la complessa tela delle trattative di pace tra frenate e impennate.

 

La storia di Ariel Sharon, ebreo di origini bielorusse, nato nel kibbutz di Kfar Malal nel febbraio 1928, che a 16 anni faceva parte dell’Aganah (organizzazione paramilitare nazionalista ebraica, grazie alla quale Israele nel 1948 ottenne il riconoscimento dall’Onu come Stato sovrano), è sempre stata fittamente intrecciata con la storia dello Stato di Israele.

 

Quella metà della società israeliana che non ha mai apprezzato gli atteggiamenti del "falco", col passare degli anni ha scoperto che la destra rappresentata da Sharon riusciva a ottenere molti più successi della sinistra laburista. Dopo la decisione di abbandonare il Likud e di creare un nuovo partito, il Kadima (Avanti), Sharon ha gettato le basi per la costruzione di un solido rapporto tra le migliori menti politiche israeliane, al di là dei tradizionali schieramenti. Neanche l’estrema destra, che ora si raccoglie attorno all’ex premier Benjamin Netanyahu, ora riesce a gioire. Esultano gli integralisti di Hamas ma i palestinesi sanno che non possono gioire, il loro presidente, Mohmoud Abbas, detto Abu Mazen, nonostante le diversità di vedute, sa che senza Sharon la questione palestinese assumerà altri risvolti.

 

Il vuoto lasciato dal premier ha pesanti conseguenze politiche, non soltanto per Israele e per la Palestina, ma per tutta il Medio Oriente. Ha echi in Iran e in Irak, proietta ombre sulla vicina Giordania e sull’Egitto, sconvolge la Siria.

 

Il premier a interim, Ehud Olmert, può dichiarare: «Israele è forte, ce la faremo», e riconfermare la data di marzo per le elezioni israeliane; il mondo politico israeliano si può affrettare a dare dimostrazioni di compattezza e di solidarietà, facendo finta di ignorare le reciproche ostilità. Ma l’uomo della strada sa che non sarà così semplice. Gli echi delle manifestazioni di piazza che giungono dai Territori palestinesi danno il segno di una rivolta integralista che cova sotto l’ordine che Abu Mazen non riesce a imporre. La Casa Bianca teme che in queste giornate di trauma le frange palestinesi più estremiste possano condizionare l’immediato futuro della regione e si sforza di lanciare messaggi affinché la linea sharonista, quella di due Stati vicini e amici, continui.

 

Saeb Erekat, il responsabile palestinese dei negoziati, non ha dubbi nel definire tragica l’attuale situazione: «C’è il rischio che tutto si blocchi». Persino i media palestinesi esprimono una diffusa preoccupazione. «Una vittoria della coppia Peres-Sharon», scrive il quotidiano Al Quds, «avrebbe potuto creare nuove prospettive per il dialogo, mentre ora c’è solo rischio di arretramento. Sharon ha lasciato un’eredità importante per chiunque lo sostituirà».

 

Un’inedita ammirazione, alla quale si associa il giornale saudita Al Sharq Al Awsat, che scrive: «Sharon ha distrutto con le sue mani il dogma della destra: la nascita del futuro grande Israele». Anche il quotidiano egiziano Al Akhbar, rende omaggio all’ex nemico: «Un uomo capace di affrontare di petto una situazione difficile, che ha sfidato il suo partito fondando una corrente politica tellurica per la società israeliana e foriera di grandi sviluppi nella regione».

 

Solo nelle moschee di Teheran l’aggravarsi delle condizioni di salute del "Satana-Sharon" è stato scandito da urla di festa, così come solo in alcune zone di Gaza sono stati distribuiti dolci. I tanti musulmani che hanno esultato per l’uscita di scena del "macellaio di Beirut", col passare dei giorni hanno ceduto il passo alla ragionevolezza.

 

Se la situazione di stallo proseguisse per un lungo periodo, i primi a farne le spese sarebbero proprio i palestinesi; non a caso i leader arabi più illuminati, temendo il ritorno della destra israeliana più conservatrice, cercano di rassicurare Olmert. Il presidente egiziano Mubarak e il re giordano Abdallah hanno confermato che la loro collaborazione continuerà e si svilupperà. È ancora presto per dire se il partito della continuità si chiamerà Kadima, intanto Olmert deve dare prova che la strada tracciata non verrà interrotta. Sia che il testimone resti nelle sue mani sia che passi in quelle di Shimon Peres. Gli ultimi sondaggi dicono che con Peres alla guida del Kadima potrebbe ricevere 42 seggi sui 120 del Parlamento. Il massimo che era stato previsto per Sharon.

 

Ma nelle prossime settimane, quando la gente avrà smaltito lo choc e interiorizzato il vuoto, c’è chi prevede una caduta a picco nei sondaggi. Nachum Barnea, editorialista del quotidiano Yediot Aharonot, spiega: «In ogni caso, Peres non ha mai vinto alcun importante appuntamento elettorale. Non ci riuscì con Ytzhak Shamir negli anni Ottanta, quando venne costretto alla coalizione di unità nazionale. Fallì nel 1995-96, quando prese il posto ad interim del premier assassinato Ytzhak Rabin, salvo poi essere clamorosamente battuto al voto proprio da Benjamin Netanyahu».

 

L‘attuale leader laburista, Amir Peretz, ha offerto un posto d’onore a Peres qualora fosse disposto a «tornare a casa». Mentre Olmert rilancia per Kadima. Nella storia di Israele i partiti di centro, tanto più quelli di centrosinistra, hanno sempre avuto vita difficile. In particolare oggi che si tratta di decidere del futuro di un Paese sulla base di scelte e scadenze elettorali frutto di ben diverse situazioni. Il vuoto lasciato da Sharon è ingombrante, il suo silenzio è così roboante da apparire ingestibile.

 

 

 

Storia di un falco che diventò colomba

 

Ariel Sharon nasce a Kfar Malal, in Palestina, il 27 febbraio 1928, con il nome di Ariel Shinerman. Entra giovanissimo nel servizio segreto di difesa Aganah. A vent’anni, partecipa come comandante di compagnia alla guerra d’indipendenza. Al termine della quale rimane nell’Esercito prendendo attivamente parte a operazioni di intelligence e di rappresaglia contro i vicini Stati arabi.

 

Nel 1956 partecipa alla Guerra del Sinai. Nel 1964, viene nominato capo del Northen Command Staff; nel 1966, capo del dipartimento di addestramento dell’Esercito. Nel 1967, generale di brigata, partecipa alla Guerra dei sei giorni come comandante di una divisione corazzata, e nel 1969 viene nominato capo del Southern Command Staff. Si congeda nel giugno 1972, ma nell’ottobre del 1973 è richiamato a comandare una divisione.

 

Già attivo nella politica israeliana, essendosi iscritto al partito Gahal e avendo partecipato alla formazione del Likud, nel dicembre 1973 viene eletto deputato. Presenta, però, le proprie dimissioni l’anno dopo per ricoprire un’importante posizione all’interno delle truppe di riserva israeliane.

 

Nel 1975 viene nominato consigliere di sicurezza del primo ministro Rabin. L’anno successivo forma il partito Shlomzion e, nelle elezioni del 1977, quando questo partito riceverà due seggi, viene rieletto deputato e poi ministro dell’Agricoltura. Nominato ministro della Difesa nel 1981, guida l’invasione del Libano. Nel febbraio del 1984, giudicato responsabile da una Commissione d’inchiesta israeliana dei massacri di Sabra e Chatila (quando, il 16-17 settembre 1982, furono uccisi circa 2.000 palestinesi); è costretto alle dimissioni.

 

Gli viene poi affidato un nuovo dicastero con il Governo di Shimon Peres: ministro dell’Industria e del commercio dal 1984 – anno in cui diviene anche leader del Likud – al 1990, quando si dimette, destabilizzando il Governo, che cadrà.

 

Dal maggio dello stesso anno, con il Governo Shamir, è ministro dell’Edilizia e favorisce energicamente la politica di insediamento israeliano nei territori occupati, contribuendo così ad accrescere ancora di più la propria impopolarità.

 

Tra il giugno e il luglio del 1997, la sua candidatura a ministro delle Finanze nel Governo Netanyahu contro il volere dello stesso primo ministro, lo pone al centro di pesanti discussioni. Benjamin Netanyahu lo nomina comunque ministro degli Esteri il 9 ottobre 1998, incarico che detiene fino alla caduta del Governo, nel maggio dell’anno successivo.

 

Il 28 settembre 2000 si reca in visita alla Spianata delle moschee, a Gerusalemme, gesto questo che viene interpretato dai palestinesi come una vera e propria provocazione e che innescherà una pesante crisi che causerà, in tre mesi di scontri, oltre 350 vittime, in gran parte palestinesi.

 

Ricevendo il 62,5 per cento delle preferenze, il 6 febbraio 2001 viene eletto primo ministro di Israele. Il 7 marzo giura e presenta alla Knesset il suo Governo. Il 20 novembre 2005 lascia il Likud, per fondare un nuovo partito, il Kadima.

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