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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
27.11.2005 Contro Israele o contro l'America
il settimanale cattolico continua per la sua strada. Che ne pensa Papa Ratzinger ?

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 27 novembre 2005
Pagina: 19
Autore: Guglielmo Sasinini
Titolo: «Irak, la destra che ci ripensa»
A pagina 19 di Famiglia Cristiana del 27 novembre è pubblicato, nella rubrica La Bussola, un articolo di Guglielmo Sasinini intitolato "Irak, la destra che ci ripensa"".

Dalla lettura di molti articoli e reportage sull’Irak non è certo sfuggito ai lettori l’orientamento antiamericano del settimanale cattolico, oltre che la sua netta condanna dell’intervento in Irak.

E’ quindi con una certa soddisfazione che il giornaliste riporta l’opinione di alcuni esponenti politici e intellettuali occidentali sulla possibilità che le guerre scatenate in Afghanistan e in Irak conducano ad uno scontro di civiltà e quindi alla mobilitazione delle masse islamiche: il terrorismo diverrebbe pertanto una logica conseguenza.

Non bisogna però perdere di vista alcuni elementi: prima di tutto queste sono le analisi di una parte del mondo politico, militare e intellettuale, legittime certo ma non sono rappresentative di tutto il pensiero occidentale.

In un paese libero e democratico come l’Italia o come gli Stati Uniti tutte le opinioni possono essere espresse liberamente - anche quando contrastano con l’operato del Presidente o del Governo.

Anchel’Irak, dopo la destituzione del tiranno Saddam Hussein, avvenuta grazie a quell’intervento americano sul quale ora si punta un dito accusatore, è un paese dove finalmente i cittadini hanno potuto recarsi alle urne, da uomini liberi, dopo trent’anni di feroce dittatura.

La democrazia non può instaurarsi da un giorno all’altro, le difficoltà ci sono, il terrorismo compie stragi e destabilizza, è innegabile, ma non bisogna neppure per un attimo dimenticare cosa significava per il popolo iracheno vivere in Irak al tempo di Saddam Hussein.

In un bellissimo libro "Diario da Bagdad" la giornalista Asne Seierstad all’indomani dell’arrivo dei soldati americani a Bagdad recandosi nel distretto Zuwiya, in uno dei centri utilizzati dai servizi segreti – mukhabarat – per gli interrogatori, incontra Sabab, un iracheno che, fermo con le mani in tasca, fissa l’edificio: "Sono stato rinchiuso qui dentro per tre mesi e sono uno dei pochi ad esserne uscito. Mi hanno accusato di far parte di un gruppo politico di cui non avevo mai nemmeno sentito parlare. Non credevo che sarei sopravissuto. Mi hanno appeso a una ventola fissata al soffitto, legandomi per le braccia, poi mi hanno fatto girare fino a che non sono svenuto. Mi hanno percosso con dei bastoni, mi hanno torturato con le scosse elettriche. Mi hanno spezzato entrambe le braccia".

Ancora. Visitando una famiglia di Bagdad, dopo la liberazione, la giornalista si sente raccontare: "E’ dal 1967 che non parliamo liberamente, avevamo paura dei nostri vicini, dei nostri stessi pensieri. E la giovane moglie conferma "E’ chiaro che siamo tutti dispiaciuti per quelli che sono morti, ma è il prezzo che abbiamo dovuto pagare e non è stato troppo alto. Basti solo pensare alla paura che non c’è più, al fatto che ora ce ne possiamo stare qui seduti a litigare, è questa la cosa più importante". Infine sempre Iman, la giovane donna, racconta alla giornalista un episodio straziante – uno fra i tanti – a dimostrazione di quanto poco ci volesse per essere denunciati.

" Una giornalista che lavorava per una rivista femminile, una volta si lasciò sfuggire un commento non molto lusinghiero sullo stile dell’abbigliamento della moglie di Saddam Hussein. Poche ore dopo la polizia la prelevò dalla redazione. Il mattino seguente i genitori se la trovarono davanti alla porta di casa. Il corpo era coperto di lividi per le percosse ricevute, portava segni di bruciature di sigarette e la lingua era stata mozzata".

Questo dunque era l’Irak, l’Irak di Saddam Hussein.

Prima che gli americani lo liberassero.

Riportiamo l’articolo:

" La guerra al terrorismo decretata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e che vede la sua massima espressione negli interventi militari in Afghanistan e in Irak, "è profondamente sbagliata, è un insieme di operazioni mal congegnate, legate alla cultura dell’emergenza e dell’esigenza populista di mostrare i muscoli. L’adozione di misure eccezionali, indiscriminate per applicazione e durata rischia di rappresentare un regalo al terrorismo, creando uno scontro di civiltà e quindi la mobilitazione delle masse islamiche".

Non è la tesi di un centro sociale o di qualcuno sospettato di sottili distinguo nei confronti del terrorismo fondamentalista islamico, ma è l’opinione che quattro generali, un ammiraglio, due deputati del Centrodestra e alcuni intellettuali sicuramente amici degli Stati Uniti hanno esposto nel rapporto "Occidente sotto attacco", presentato alla quinta edizione dei "Colloqui di Venezia" organizzata dalla Fondazione Liberal di Ferdinando Adornato, deputato di Forza Italia.

Teoria non nuova, quella dell’assenza della "grande strategia", questa volta però l’uditorio era rappresentato da personaggi come Michel Novak dell’American Enterprise Insitute, Kim Holmes dell’Heritage Foundation, John R. Bolton, ambasciatore americano all’ONU, come dire che lo stesso "pensatoio" di George Bush si sta rendendo conto che reagire alla cieca, stabilendo solo successivamente gli obiettivi da raggiungere, serve unicamente al nemico. Il "grande capo", George W. Bush, ha di che riflettere"
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