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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
29.08.2005 Dimenticare l'informazione equilibrata
dopo una breve pausa, il settimanale cattolico torna all'abituale faziosità

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 29 agosto 2005
Pagina: 50
Autore: Paola Caridi - Alberto Donno
Titolo: «Dimenticare Gaza - Quel muro che divide le famiglie»
A pagina 50 di FAMIGLIA CRISTIANA del 28 agosto è pubblicato un articolo di Paola Caridi intitolato "Dimenticare Gaza".

Dopo le ultime cronache corrette di Guglielmo Sasinini ci eravamo illusi che il settimanale cattolico avesse assunto una linea più "equilibrata".

Ma ci eravamo sbagliati di grosso.

Il pregiudizio antisraeliano è duro a morire e per averne conferma è sufficiente leggere questa cronaca che si commenta da sola.

Ci limitiamo ad alcune riflessioni per quei lettori che desiderano avere una visione obiettiva dei fatti epocali accaduti in Israele in questi ultimi giorni e non vogliono lasciarsi influenzare da una reiterata propaganda filopalestinese che ha le sue radici in un perverso pregiudizio antisraeliano che vede Israele sempre colpevole e, qualunque cosa faccia anche a favore dei palestinesi, comunque dalla parte dei "cattivi".

In questi ultimi otto giorni i riflettori sono stati puntati su Israele, pronti a demonizzare il più piccolo errore; le televisioni di tutto il mondo sono entrate nella Striscia di Gaza, i giornalisti hanno intervistato, raccontato lo sgombero che il primo ministro israeliano Ariel Sharon si era impegnato a portare a termine e tutti sono stati testimoni di un evento veramente prodigioso di democrazia.

Il minimo errore da parte dell’esercito avrebbe potuto far saltare gli equilibri provocando uno spargimento di sangue che, in realtà, molti si aspettavano.

Ma non c’è stato perché i soldati di Tsahal hanno dimostrato una umanità, una preparazione e una forza d’animo difficilmente riscontrabili in altre democrazie.

Nell’articolo della giornalista non si accenna a questi soldati né al disastro umano dei settler costretti ad abbandonare le loro case, il loro lavoro, strappati da una terra che avevano fatto fiorire.

A Sharon non viene riconosciuto il merito di aver compiuto una scelta di democrazia molto coraggiosa che lo ha reso inviso a molti membri del suo stesso partito ma che non lo ha fatto desistere da un progetto nel quale credeva fermamente.

Per la giornalista di Famiglia Cristiana Sharon non ha fatto abbastanza:scrive "il disimpegno non risolverà i problemi economici di un territorio angusto….dove la disoccupazione è la norma..né la proprietà della terra sottratta negli scorsi decenni ai palestinesi .."

Non si vuole ricordare che Israele ha affrontato negli ultimi sessant’anni cinque guerre scatenate per distruggerlo. La comprensione del mondo occidentale, soprattutto di sinistra, si è concentrata sui palestinesi e non sul diritto di Israele a difendersi.

Non si vuole ricordare che se gli arabi avessero accettato la spartizione in due Stati voluta dall’ONU nel 1947 ora i palestinesi avrebbero il loro stato.

Non si vuole ricordare la proposta di pace israeliana del 19 giugno 1967 con la quale l’allora primo ministro Levi Eshkol si era detto disposto a restituire a Siria ed Egitto i territori conquistati in cambio della pace e del riconoscimento di Israele da parte araba.

Non si vuole ricordare che nel luglio del 2000 Arafat rifiutò la generosa offerta di Barak, primo ministro israeliano, che avrebbe consentito ai palestinesi di avere un proprio stato: ennesima occasione perduta.

Non si vuole ricordare tutti gli aiuti economici che la Comunità europea ha elargito ai palestinesi e che Arafat ha invece utilizzato per finanziare i terroristi anziché creare infrastrutture e posti di lavoro.

E sarebbe bene ricordare che è giunto il momento per Abu Mazen di impegnarsi a mettere in atto la prima fase della Road Map che prevede per i palestinesi il disarmo delle organizzazioni terroristiche e la riforma dei servizi di sicurezza.

La lotta al terrorismo è il primo passo che la leadership palestinese deve compiere ma le affermazioni di Mohammed Zahar capo di Hamas a Gaza: "Non riconosceremo nessun diritto di esistenza a Israele, occupa la terra islamica che appartiene a tutti i mussulmani……non possono che generare molti dubbi sulla reale volontà politica del mondo palestinese di voler percorrere quella strada e sfruttare l’occasione offertagli da Sharon per gettare le basi di un nuovo processo negoziale.

Ecco il testo:

La striscia di Gaza è il teatro di due drammi che si incrociano da decenni. Il primo è quello dei coloni che hanno lasciato le proprie case tra lacrime, rabbia e preghiere. Il secondo riguarda gli arabi che rimangono, come quelli dell’enclave palestinese di Al Mawasi, dentro il blocco della colonia israeliana di Gush Katif. Per loro la fame, almeno quella, è scongiurata sino alla metà di ottobre, perché il Pam, il Programma alimentare mondiale dell’Onu, ha mandato ad Al Mawasi razioni di cibo che dovrebbero durare sino alla metà di ottobre.

Ma la fame è solo uno dei problemi. La libertà, la libertà di movimento non c’è ancora, nonostante il doloroso disimpegno degli israeliani sia già stato quasi completato. Un ritiro non solo civile ma soprattutto militare è però una cosa difficile. E così i 7.000 abitanti di Al Mawasi (l’equivalente dei coloni ebrei evacuati dalla striscia di Gaza) si sono trovati sotto il coprifuoco proprio quando l’evacuazione della roccaforte radicale di Neveh Dekalim era stata completata. Perché c’era bisogno di proteggere i coloni e le forze di sicurezza da reazioni violente palestinesi, dopo l’uccisione di quattro lavoratori arabi da parte di un colono in Cisgiordania.

Le oltre 1.300 famiglie di Al Mawasi, a dire il vero, alle restrizioni di movimento ci sono abituate, visto che per quattro anni hanno dovuto fare i conti con i permessi per uscire dall’enclave e muoversi dentro il territorio della striscia. Ma il coprifuoco di pochi giorni fa ha fatto capire loro che il disimpegno israeliano non è ancora finito, anche se le colonie sono state sgomberate

Ci vorrà ancora tempo, per assaporare la libertà. Ma tutti, sulla striscia di Gaza, sono comunque concentrati sulla parte positiva della storia. Muoversi liberamente, non avere l’incubo dei check-point, vedere il mare anche dalle parti del campo profughi di Khan Younis, dove il mare era un oggetto del desiderio, irraggiungibile perché si trovava dopo la terra di nessuno e dopo il blocco delle colonie di Gush Katif. Il senso di liberazione, dunque, fa premio sui problemi che verranno alla luce il giorno dopo la fine del ritiro.

Ma il disimpegno da Gaza non risolverà i problemi economici di un territorio angusto, dove vivono oltre un milione e 200 mila persone. E dove la disoccupazione è la norma. Né il problema delle proprietà della terra, sottratta negli scorsi decenni ai palestinesi e che ora sarà difficile far ritornare ai legittimi proprietari. «C’è gente che ha perso la terra poco meno di 40 anni fa, molti sono morti e ci sono problemi di eredità», ha fatto notare padre Manuel Musallem, l’unico parroco cattolico di Gaza. A preoccupare di più, però, è il fatto che Gaza possa diventare una specie di isola, chiusa al mondo. O, meglio, una sorta di carcere a cielo aperto. Lo avevano denunciato, nella primavera scorsa, quelli di "Btselem", un’associazione israeliana di difesa dei diritti umani e civili, anche dei palestinesi. Il loro rapporto, One Big Prison, denuncia che Gaza rimarrà – appunto – non soltanto isolata da Israele, ma avrà serissime difficoltà a essere collegata con l’Egitto lungo il suo confine meridionale, unico possibile sbocco economico e commerciale.

Soprattutto, la striscia resterà staccata dalla Cisgiordania, in violazione di quello che prevedevano gli accordi di Oslo: che Gaza e Cisgiordania, cioè, fossero entrambe parti costitutive del futuro Stato palestinese. Dunque unite. «Di quello che Israele farà in futuro, però, si sa ancora poco o nulla», ammette anche adesso la portavoce di "Btselem", Sarit Michaeli.
Riportiamo anche l’articolo di Alberto Bobbio che non si discosta, in quanto a faziosità, da quello precedente.
L'uomo che nel settembre del 2000 si affacciò sulla Spianata delle Moschee per compiervi la sciagurata passeggiata che diede il via alla seconda Intifada, la scorsa settimana ha fatto quello che mai nessuno aveva osato fare in Israele: ha demolito la lobby dei coloni e ha spezzato le radici del sionismo, mettendo la parola fine all’idea della sacralità della terra.

Ariel Sharon è andato in televisione per confermare che il sogno del Grande Israele «non si è realizzato». Ora la domanda a cui bisogna trovare una risposta è la seguente: israeliani, palestinesi e il resto del mondo sono preparati alle soluzioni che spaccano gli schemi ordinari e che, forse, possono far imboccare finalmente la via della pace? Sharon ha capito che il suo Paese in questi lunghissimi anni di lotta per implementare il sionismo si è sfibrato.

I pionieri con i piedi saldi per terra, quei coloni, che una volta aveva definito «il giubbotto antiproiettile di Israele», erano diventati un peso anche per il bilancio dello Stato. Le spese complessive per le colonie, per evitare polemiche, hanno dovuto essere nascoste, quasi fossero un segreto di Stato. Ma andava bene ugualmente, essendo considerato il colono una sorta di "avanguardia del Signore" e la conquista e il possesso della terra un atto religioso. Ecco perché la scorsa settimana si sono viste in televisione scene dolorose che sfioravano il fanatismo. Eppure è stata la destra israeliana, soprattutto, a spingere sul rapporto tra il popolo ebraico e la terra, perché lì sta il centro di tutta l’ideologia del sionismo. Adesso il campione della destra israeliana ha spezzato il tabù della terra, almeno a Gaza. Resta il Muro, che avanza. Resta la questione di Gerusalemme, la città santa delle tre religioni monoteiste. Quello che manca ancora è un progetto globale per la pace.
Infine non poteva mancare il richiamo al "muro", la barriera difensiva che il governo israeliano ha iniziato a costruire nel tentativo di difendersi dai feroci attacchi terroristici che negli ultimi anni hanno ucciso centinaia di civili innocenti.

Un diritto all’autodifesa stabilito dal diritto internazionale ma che non viene riconosciuto ad Israele.

Meno del 3% della barriera è formata da cemento il resto è semplicemente una recinzione ma tutte le immagini che i media ci propinano ( compresa la fotografia apparsa su Famiglia Cristiana) ritraggono solo quel 3%!!.

Se non ci fosse stato il terrorismo, Israele non sarebbe stato costretto a costruire una barriera per proteggere i suoi cittadini.

I palestinesi dovevano smantellare le organizzazioni terroristiche e non l’hanno fatto, confiscare le armi e non l’hanno fatto, arrestare i mandanti e gli esecutori degli attentati, impedire l’incitamento alla violenza e non l’hanno fatto.

Grazie alla barriera difensiva gli attentati dei kamikaze sono diminuiti dell’80%: tante vite umane si sono salvate grazie a quel "muro".

Quali altre misure avrebbe dovuto adottare Israele per difendersi?

Oppure Israele non ha diritto a difendersi?

Queste sono le domande che vorremmo rivolgere alla giornalista che ha scritto l’articolo che di seguito riportiamo.

QUEL MURO CHE DIVIDE LE FAMIGLIE di Paola Caridi

L'appuntamento è stato fissato al primo di settembre, giorno in cui, tradizionalmente, in Terrasanta si aprono i cancelli delle scuole. A Betlemme, invece, se ne apriranno altri di cancelli. Quelli del nuovo gate preparato dall’esercito israeliano per entrare in città, ricavato nel muro di separazione che ormai divide il centro del Natale cristiano da Gerusalemme.

Gli operai hanno lavorato alacremente per finire in tempo un terminal sul tipo di quello di Eretz, il valico tra Israele e Gaza. Da lì, dal terminal nuovo di zecca, dovranno passare palestinesi e pellegrini. Qualche centinaio di metri più giù, dirimpetto al check-point gestito dai soldati israeliani, è stato allestito un parcheggio. Vicino al vecchio varco nel muro. Così stretto che può passarci solo una macchina per volta. Quel cuneo esile in una barriera di cemento armato alta sino a nove metri rimarrà, nei piani dell’esercito. Sarà l’entrata riservata agli israeliani che – attraverso un percorso obbligato – passeranno davanti alle prime case di Betlemme per poter andare a visitare la tomba di Rachele.

Per i palestinesi è un "ghetto", come scrivono i graffitari sul muro, ormai diventato una lunga pagina grigia che si inoltra dentro Betlemme, passa su Caritas Street, si incunea accanto alle case per inglobare il sito della tomba di Rachele e andare su sino a Beit Jalla. Per gli israeliani, invece, è uno strumento per difendere Gerusalemme dal terrorismo.

Gerusalemme e Betlemme, per i palestinesi, sono una cosa sola. Fatta di legami familiari, sociali, economici. Legami che corrono lungo i 15 chilometri che separano la Città vecchia dalla Natività. Come i matrimoni misti tra i palestinesi della Cisgiordania e i palestinesi di Gerusalemme. I primi, legati all’Autorità nazionale, non possono passare il check-point, neanche se accompagnano il proprio coniuge. Pena, un processo e multe salatissime. Così, le famiglie miste rimangono separate. Moglie e figli a Betlemme, marito a Gerusalemme.

C’è chi, da una realtà come questa, ha deciso di fuggire. Padre Ibrahim Faltas, parroco francescano di San Salvatore, per anni a Betlemme, dice che in cinque anni sono già 2.500 i cristiani che se ne sono andati. Alcuni nella vicina Giordania. Il grosso, però, ha varcato l’Atlantico, dal Canada sino al Cile, e tenterà di dare nelle Americhe un futuro ai propri figli. Gli altri, i betlemiti che non se lo possono permettere, rimangono invece al di là del muro. I pellegrinaggi, è vero, sono aumentati. Ma i gruppi si fermano raramente a dormire in città. Lo fa appena un 5 per cento del totale dei fedeli che arrivano in Terrasanta. A Betlemme ci vanno per una breve gita in pullman. Arrivano, visitano la Natività, la Grotta del Latte, il Campo dei Pastori. Comprano qualche souvenir, vanno a mangiare. E poi via, di corsa a Gerusalemme.

Poca roba, per commercianti e albergatori. Pochissima, per chi non lavora con il turismo. I ragazzi riescono ad andare all’Università grazie alle centinaia di borse di studio che l’ateneo riesce a raccogliere. Ma poi, dopo la laurea, la prospettiva è solo quella di emigrare. Dal "ghetto".
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