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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
19.06.2005 toh, un articolo corretto
finalmente,era ora

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 19 giugno 2005
Pagina: 48
Autore: Guglielmo Sasinini-Davide Silvera
Titolo: «La rabbia dei coloni»
Ariel Sharon ha annunciato che il ritiro degli abitanti dalla Striscia di Gaza e dal Nord della Cisgiordania comincerà dopo il 9 del mese di Av (data che nel calendario ebraico ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme) e che coincide quest’anno con il 14 di agosto.

Sono più di 8.000 le persone che dovranno lasciare le loro abitazioni.

Alcuni vivono in quei luoghi da più di 20 anni, hanno cresciuto i loro figli, hanno visto nascere i loro nipoti, hanno avviato relazioni, hanno una vita che scorre nella sua semplice quotidianità.

Ma se ne devono andare.

Questa la prima delle "rinunce dolorose" decise dal primo ministro e che inevitabilmente sta creando fermenti e discussioni sia nell’opinione pubblica israeliana, sia all’interno del suo partito, il Likud.

Una decisione sofferta, senza dubbio, ma che farà anche molto soffrire: ebrei scampati agli orrori della Shoah che si erano rifatti una vita costruendo qui la propria casa; israeliani, come gli abitanti di Elei Sinai – uno dei quattro insediamenti della Striscia di Gaza creato da famiglie che già avevano lasciato l’insediamento di Yamit nel Sinai dopo gli accordi pace con l’Egitto, devono fare i bagagli e andarsene nuovamente.

Con quali garanzie di pace per il futuro?

Ecco cosa ne pensa Yuval Shteinitz, presidente della Commissione Sicurezza ed Esteri della Knesset.

" Se ho molti timori riguardo alla nostra uscita dalla Striscia di Gaza il prossimo agosto, riguardo al "dopo" sono molto scettico. Sono scettico perché sono deluso dal presidente dell’ANP Abu Mazen che non fa seguire i fatti alle sue dichiarazioni pacificatorie. Ha lavorato bene e duramente per ottenere la fragile tregua che stiamo vivendo, ma non è riuscito a mantenere l’impegno di disarmare le organizzazioni terroristiche di Hamas e Jihad islamica. Al contrario, sta dando loro la possibilità di riorganizzarsi e riarmarsi dopo i duri colpi che avevano ricevuto negli ultimi anni da Israele. Le informazioni in mano alla nostra intelligence indicano chiaramente che queste organizzazioni stanno preparando la ripresa della lotta armata contro Israele"

Di seguito riportiamo l’articolo di Famiglia Cristiana. corretto e accurato. è una novità per il settimanale cattolico. ce ne felicitiamo.

Neve Dekalim (Oasi delle palme) è il più grande insediamento israeliano della Striscia di Gaza, abitato da 493 famiglie di coloni, per un totale di 1.600 persone. Lo smantellamento degli insediamenti, che dovrebbe iniziare il 15 o il 17 agosto e concludersi nel giro di 6-8 settimane, è visto come una tragedia nei confronti della quale c’è un misto di rassegnazione e volontà di resistere. Incontrando i coloni che in questo insediamento, affacciato sul mare, potrebbero apparire come turisti in un villaggio vacanze, si raccolgono storie che rimandano a qualcosa di intimo e attinente alla storia più recente del popolo ebraico.

Non c’è rabbia nei ricordi di Miriam e Yehuda Gross, entrambi 83 anni, di origini ungheresi, che 18 anni fa si trasferirono in questo insediamento. La loro vita si intreccia con gli orrori di Auschwitz e di altri campi di sterminio. L’ipotesi del ritiro da Gaza in questa coppia di anziani ebrei richiama i ricordi più orribili. «Anche allora», dice Yehuda, «vennero i camion a portarci via, anche allora si parlava di trasferimento, dislocazione, evacuazione, gli stessi termini che vengono usati oggi. Per carità, nessun paragone, ma i ricordi quando si è vecchi riaffiorano tutti insieme. Quando siamo arrivati qui c’erano solo dune di sabbia e il mare, io che per anni avevo fatto l’autista di autobotti per l’esercito, a 65 anni mi rimisi in discussione con tutta la mia famiglia».

Miriam interviene con tono di sfida: «Te ne sei pentito?». «No», risponde Yehuda, «per me è stato un paradiso. Poi nell’ultimo anno, quando sono iniziate a circolare le prime voci che avremmo dovuto andare via, mi sono detto: "Ma come è possibile che un ebreo cacci un altro ebreo? Cosa faremo? Dove andremo?". Fino a oggi nessuno del Governo si è degnato di venire qui a dircelo. E poi lo sanno tutti che una volta che ce ne saremo andati la situazione non migliorerà, i palestinesi continueranno ad armarsi e ci attaccheranno. Anche Sharon lo sa. Se ci dicessero: "Andrete via e ci sarà la pace", senza dire una sola parola ce ne andremmo tutti, anche prima della data prevista dal Governo».

Le manifestazioni dei coloni che bloccano le strade, occupano gli alberghi, attaccano sui loro abiti una stella arancione in segno di protesta non piacciono ai coniugi Gross. «Sono cose che fanno molto male», dice Miriam. «Non si può paragonare Sharon con l’Olocausto, chi lo dice non sa cos’è stata la Shoah. Non ci piacciono certi toni. Non potrei mai alzare la mano su un soldato israeliano, sei dei miei 22 nipoti sono ufficiali. Quando siamo venuti qui i nostri rapporti coi palestinesi erano ottimi, lavoravano per noi. Poi ci furono gli accordi di Oslo, venne Arafat e rovinò tutto».

Yehuda sbotta: «Non rimarremo in strada, speriamo di andare a vivere da nostra figlia e di poter costruire un appartamentino. Quello che è certo è che non voglio essere qui quando tutto succederà. Dio non voglia, ma ci sarà trambusto, forse violenza. Non voglio vedere tutto questo, non lo sopporterei; anche mia figlia dice che non se la sente di rimanere fino al giorno del ritiro». E dopo? «Dopo», rispondono Miriam e Yehuda, «possono pure bruciare tutto, se lo devono fare è meglio che lo facciano i nostri soldati, gli arabi verrebbero a ballare sui tetti delle nostre case».

I ricordi, le speranze, i sogni, le passioni sono uno degli argomenti di discussione tra i coloni che alla sera si riuniscono nella sala al centro di Neve Dekalim. Quando i più piccoli si addormentano nelle carrozzine, gli uomini iniziano a parlare sommessamente. Yehuda ascolta, interviene con saggezza, poi pronuncia la domanda delle domande, rivolgendola a sé stesso: «Cosa chiederei ad Ariel Sharon? Lo guarderei fisso negli occhi e gli direi: "Perché fai questo? Qual è la verità?. È un delitto permettere che degli ebrei caccino altri ebrei da questo territorio. La gente che sarà costretta ad andarsene resterà traumatizzata per tutta la vita. Sappilo, Ariel, e porta il peso della tua decisione"».

La notte tiepida, accarezzata dal vento leggero che proviene dal mare, sfiora le case bianche dei coloni, all’interno delle quali sono più le luci ancora accese che quelle già spente.

Si intravedono letti a castello e scatoloni di cartone, valigie accatastate, furgoncini con i portelloni aperti, automobili con enormi portapacchi sul tetto. Sono tutti segnali inequivocabili, smorzati da una lontana litania che ricorda un antico canto religioso.
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