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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
12.10.2003 Due articoli equilibrati
Ne prendiamo atto con piacere

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 12 ottobre 2003
Pagina: 15
Autore: Guglielmo Sasinini
Titolo: «Una breccia nel muro-Spettri di guerra in M.O.»
Famiglia Cristiana del 12 ottobre pubblica due articoli interessanti: il primo è un’intervista all’Ambasciatore d’Israele in Vaticano ed il secondo un’ analisi della situazione politica israeliana dopo la strage avvenuta al ristorante Maxim e dopo l’intervento israeliano in Siria, entrambi firmati da Guglielmo Sasinini.

Rileviamo che nel secondo articolo intitolato "Spettri di guerra sul Medio Oriente" il giornalista usa termini corretti, quali "terroristi" per indicare gli appartenenti alla Jihad islamica e ad Hamas e riporta i fatti come realmente sono accaduti.

Ci auguriamo di leggere anche in futuro articoli obiettivi perché disporre di informazioni serie e corrette è un diritto di ogni lettore, il quale solo sulla base di quelle può farsi una propria opinione, non inficiata da orientamenti o propaganda di parte.


INTERVISTA ALL’AMBASCIATORE D’ISRAELE IN VATICANO

UNA BRECCIA NEL MURO

Oded Ben-Hur, ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, insediatosi a Roma da alcuni mesi, si augura che la Road map possa proseguire, nonostante il continuo stillicidio di attentati. «L’importante», dice, «è riaccendere il processo di pace, ci auguriamo che la popolazione palestinese abbia compreso che gli attacchi terroristici sono la via più sbagliata, speriamo che la tregua non dichiarata regga».

«Il problema centrale dell’intera questione», prosegue l’ambasciatore, «è che vi sono due popoli, quello palestinese e quello israeliano, che sono prigionieri nelle mani di qualche migliaio di terroristi palestinesi. Quella della strategia del terrore è una scelta decisiva e non tattica da parte di Arafat. Purtroppo non vi sono più dubbi a questo proposito. La prova è che tre anni fa, quando a Camp David vennero offerti a Yasser Arafat il 98 per cento dei Territori, oltre a un accordo per Gerusalemme, allo smantellamento degli insediamenti dei coloni e all’impegno per trovare una soluzione anche per il ritorno dei profughi palestinesi nel futuro Stato di Palestina, Arafat rigettò tutte queste proposte. Arafat non voleva e non vuole tuttora un compromesso con Israele. Nel marzo 2002, dopo che vennero uccise dai terroristi diverse decine di civili innocenti israeliani, l’esercito israeliano rientrò nei Territori e nelle città dell’Autorità palestinese. In quell’occasione scoprimmo che esisteva un’infrastruttura terroristica pianificata e preparata da anni, che prevedeva armi, esplosivi, collegamenti. È dunque chiaro che l’Intifada non è scoppiata per la visita di Sharon alla spianata delle moschee, ma era stata preparata da anni. Poi abbiamo scoperto il collegamento, provato al cento per cento, tra Yasser Arafat e tutti i terroristi, fino all’ultimo. È evidente che lui ha il controllo diretto, lui sapeva e sa di ogni mossa, di ogni terrorista. Le due navi che venivano dall’Iran, Santorini e Carin-A, trasportavano armi richieste da lui direttamente».

Dopo la caduta di Saddam chi ha preso il posto di sponsor del terrorismo?
«Iran e Siria. Per l’esattezza, l’Iran non ha mai smesso di giocare questo ruolo dietro le quinte, ma anche sul palcoscenico. Quello che è molto cinico è che la Siria fa parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Loro che sostengono e danno ospitalità a tante organizzazioni terroristiche siedono nell’aula dove vengono decisi i destini del mondo. Questo è inaccettabile. Il presidente siriano purtroppo non è all’altezza del padre; Afez Assad pur essendo un nemico sapeva sempre quando fermarsi, il figlio invece è un ammiratore e sostenitore di Hezbollah e rischia di far esplodere una situazione già fragile e delicata».

· Che cosa vuol dire?

«Nel marzo 2000 Israele si è ritirata dal Libano, Arafat ha preso questo fatto come un esempio da seguire poiché pensa che agendo come gli Hezbollah si può cacciare Israele dai Territori».

Ma che cosa manca, oggi, perché il processo di pace conosca finalmente una svolta positiva?
«Israele vuole la pace coi suoi vicini, ha offerto ai palestinesi di dialogare, ciò che manca è la controparte dialogante. Occorre un primo ministro palestinese forte, con potere di decisione, sostenuto dalla maggior parte del suo popolo».

Questa persona può essere Abu Ala?
«Abu Ala lo può essere se si dimostrerà indipendente rispetto ad Arafat. Abbiamo già visto che quando Abu Mazen aveva ottenuto oltre il 40 per cento dei consensi, Arafat si è spaventato e lo ha costretto alle dimissioni. Se il resto del mondo capirà, come lo ha capito Bush, la necessità di dare sostegno a un leader palestinese autorevole possiamo arrivare alla pace, però oggi come oggi sappiamo che non possiamo permettere che questo leader sia Arafat».

Che ne sarà di Arafat?
«Potrà rimanere sul palcoscenico del Medio Oriente, però con un ruolo puramente rappresentativo, come quello della regina d’Inghilterra, per intendersi. Il rispetto va benissimo, ma non deve avere nessun potere effettivo».

Non è certo uccidendo Arafat che si risolve il problema…
«Ma nessuno crede seriamente in questa possibilità. La dichiarazione del Governo israeliano a questo proposito è stata fatta anche per motivi interni, e rientra piuttosto nel campo della psicologia, perché non è male che Arafat senta che non può fare tutto ciò che vuole in Medio Oriente».

Come il mondo cristiano può contribuire al dialogo?
«Certamente la soluzione è politica, non militare. Noi, ieri, oggi, domani, offriamo un dialogo pacifico purché ci sia una parte realmente dialogante sul fronte palestinese. Che sia Abu Ala, o un altro, non importa purché sia un interlocutore forte e autorevole. Abbiamo invece bisogno che il mondo cattolico ci sostenga nella via del dialogo e che incoraggi un grande flusso di pellegrini in Terra Santa, proprio ora, in questo periodo che va verso il Natale. Si otterrebbero così almeno tre obiettivi: si darebbe un forte contributo economico al popolo palestinese; si sosterrebbe l’industria turistica palestinese; si fornirebbe un motivo in più ai palestinesi per tagliare ogni legame con la violenza terroristica – che è anche frutto della disperazione economica – e per iniziare a pensare a un futuro migliore, di prosperità accanto e assieme a Israele».

Ma il muro che Israele sta costruendo non è già un confine?
«Niente affatto, è solo una barriera di protezione per impedire la penetrazione dei terroristi nelle nostre città, non è un caso che proprio nelle zone in cui questa barriera è già stata edificata non si verificano da tempo attentati suicidi. Ma non appena riprenderà un dialogo vero e autentico tra le parti questa barriera verrà smantellata».











All'intervista con l'ambasciatore in Vaticano segue l'articolo "Spettri di guerra in Medio Oriente"
"Spettri di guerra sul Medio Oriente"

I piloti degli F-16 israeliani, che nella notte tra sabato 4 e domenica 5 ottobre si sono lanciati contro un campo di addestramento della Jihad islamica in territorio siriano, avevano ancora negli occhi le agghiaccianti immagini della strage nel ristorante Maxim di Haifa, costata la vita a diciannove persone, compresi diversi bambini. Lo spettro di una nuova guerra mediorientale, con il coinvolgimento della Siria, spaventa la comunità internazionale che tenta di decongestionare la tensione. Mentre la Jihad islamica, alla quale apparteneva la terrorista suicida che si è fatta esplodere a Haifa, dichiara: "Verranno intensificati gli attacchi suicidi, fino alla totale distruzione dell’entità sionista". Il raid aereo, il primo sul suolo siriano da più di vent’anni, è stato approvato al massimo livello politico-militare israeliano e ha avuto per bersaglio la base di Ein Tzaha, circa 50 Km a nord ovest di Damasco, che veniva utilizzata dai terroristi di Hamas e della Jihad islamica. "Alla Siria è stato detto più volte dagli Stati Uniti di chiudere le basi della Jihad islamica sul suo territorio", ha spiegato il portavoce del governo israeliano Avi Panzer, "ma non l’ha fatto. Dopo quanto è accaduto a Haifa, la nostra politica è quella di perseguire i terroristi fondamentalisti ovunque si trovino".

La base di Ein Tzaha, finanziata dall’Iran, figurava tra gli obiettivi individuati dagli americani dopo l’11 settembre. I satelliti spia avevano infatti scoperto che, in quella località, gruppi di terroristi venivano addestrati a preparare esplosivi, usare armi da guerra e artiglieria, persino a pilotare velivoli.

In basi come questa, sia sul territorio siriano che su quello libanese, vengono addestrati dai "pasdaran" iraniani i terroristi e gli "uomini bomba" di Hamas, Jihad, Hezbollah. L’Iran degli ayatollah è da sempre contrario ad ogni forma di dialogo con Israele ed è il grande sponsor della Jihad e dei movimenti fondamentalisti sciiti. La Siria ha continuamente offerto il proprio territorio a una miriade di formazioni armate e il segretario della Jihad islamica vive da anni a Damasco, dove dispone di un ufficio e di strutture propagandistiche. Dopo il raid, il presidente siriano, Bashar Assad, si è appellato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ottenendo dal segretario generale Kofi Annan una "forte delorazione" per l’incursione israeliana sul territorio siriano, ma anche un richiamo a recidere ogni legame con le organizzazioni terroristiche che minacciano la stabilità e la pace.

Abu Ala si è invece affrettato a formare un Governo palestinese d’emergenza. Sul fronte palestinese il timore è che gli avvenimenti precipitino al punto di arrivare alla già annunciata espulsione di Arafat. In questo caso, gli unici che detrarrebbero un vantaggio sarebbero proprio gli oltranzisti della Jihad e di Hamas che puntano al tanto peggio, nella speranza di essere favoriti dal caos che seguirebbe inevitabilmente la cacciata del rais. Nessuno pensa realisticamente a una guerra su vasta scala, a un confronto tra Gerusalemme e Damasco, che finirebbe col coinvolgere anche l’Iran, un conto sono le dichiarazioni bellicose, altra cosa sono gli schieramenti effettivi degli eserciti. Ma la strage di Haifa ha fatto precipitare le speranze, o forse erano solo illusioni, di una tregua, il che ora può rendere tutto possibile.





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