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La Stampa Rassegna Stampa
10.12.2022 Qatar, gli intellettuali tacciono
Analisi di Ugo Nespolo

Testata: La Stampa
Data: 10 dicembre 2022
Pagina: 28
Autore: Ugo Nespolo
Titolo: «L'arte segue la moneta del più forte»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/12/2022, a pag.28 con il titolo "L'arte segue la moneta del più forte" il commento di Ugo Nespolo.

Intervista all'artista Ugo Nespolo - Inalpi
Ugo Nespolo

Comunque disorientati dalle più che intricate vicende dei palloni mondiali, traguardati dalla prospettiva italiana in forma di assenza malinconica, si tenta da più parti, in chiave quasi consolatoria, di percorrere la strada delle scoperte, in verità da sempre note, delle tante zone grigie o nere, intrighi monetari, dichiarazioni imbarazzanti, prevaricazioni e aberrazioni sociali, silenzi tombali molto interessati che son parte della sceneggiatura che guida il planetario evento. Infinito e triste il florilegio urlato dai titoli di giornali, inchieste filmate internazionali, prese di posizione fatte per mostrarci la risaputa presenza dello sfacciato dispotismo, l'arroganza monetaria a suon di dollari e rials capaci di rendere cupo e minaccioso il tanto esclusivo quanto improbabile skyline qatariano.

New Qatar tra archistar e arte nel deserto - ViaggiOff
Doha, Qatar

L'Assemblea di Strasburgo denuncia, da tempo, l'assenza totale di tutela per i lavoratori migranti morti nelle faraoniche costruzioni pallonare senza tacere delle presunte venature di corruzione e concessioni utili all'assegnazione della sede ospite. L'Eurocamera si è persino spinta a chiedere alla FIFA e al Qatar un pronto risarcimento economico a favore delle vittime ingaggiate in quelle babeliche costruzioni sportive, vittime stimate in diverse migliaia d'individui. Strasburgo poi, per acclamazione, pare aver adottato una risoluzione per la presunta corruzione all'interno della FIFA in merito alla scelta del Qatar come sede dei giochi mondiali. Assenza di procedure democratiche e trasparenti che chiedono l'impellente necessità dell'attuazione di riforme capaci di contrastare il miliardario gioco dello sportwashing, quella possibilità abusata e pianificata per mascherare il sorriso impunito e beffardo di stati e governi dittatoriali nel tentativo di distogliere la nostra attenzione dalle crudeli e plateali violazioni dei diritti umani. Amnesty International, da par suo, ricorda che un milione cinquecentomila lavoratori migranti presenti in Qatar (il 94 per cento di tutta la forza lavoro) sono alla mercé di sponsor e datori di lavoro e hanno scarse possibilità di lasciare il Paese o di passare da un impiego all'altro in base alle regole della Kafala, sovente definita, da chi sa, quasi una moderna forma di schiavitù. Per l'etica forzata dei giochi è stata persino redatta dal governo una Media Guide con le rigide richieste per l'osservazione di norme costellate di divieti e obblighi di comportamento. Si proibiscono, per esempio, scambi di gesti d'intimità in pubblico (incluse le carezze), indipendente da genere e orientamento sessuale. Linguaggio o gesti ritenuti osceni sono da considerare veri reati, punibili con una pena detentiva. Ambasciate e governi come quelli di Germania o Inghilterra, nei loro siti ufficiali, riportano l'elenco delle proibizioni che vanno dal divieto di acquistare bevande alcoliche (inclusa la birra), possesso di materiale pornografico, libri e altro materiale religioso e persino sigarette elettroniche. Gesti maleducati (?) sono ritenuti atti osceni e sono punibili con il carcere. Per le donne obbligo di spalle coperte e niente gonne corte, pantaloncini o top senza maniche. Si sa che l'omosessualità è illegale in Qatar, dimostrazioni d'affetto tra persone dello stesso sesso possono essere punite con la carcerazione. I mussulmani condannati per zina (nel diritto islamico, il reato di zina sanziona le relazioni sessuali illecite), possono subire frustate se non sposati e la pena di morte se sposati. Per le donne vige la tutela maschile e, come riporta l'HRW (Human Rights Watch), il sistema incoraggia violenza e soprusi. Inutile nascondere la malinconia che suscita la vasta schiera di restrizioni, obblighi, punizioni durante eventi nati per esaltare la gioia sportiva, la dinamicità dei colori che sprigiona dai verdi terreni di gioco e che invece, nel profondo, sono oscurate da nebbie dense, senso di rassegnazione e impotenza. Voci e vocine si sono levate qua e là nell'impossibilità di far tacere con la forza del silenzio ferite e storture ben visibili ma son state per lo più voci di organizzazioni che hanno a cuore diritti civili, illegalità sociali, ingiustizie. Sono suoni che si perdono alla distanza, echi prontamente combattuti ignorando o confutando con la negazione sfacciata. Si può dire, senza tema di smentita, che il silenzio più assordante è però quello della classe intellettuale, di coloro che – come scrive Frank Furedi sociologo all'University of Kent – fino agli anni Settanta poteva essere considerata una forza moderna e progressista. Inutile ricorrere al pensiero di Eric Hobsbawm quando scrive di come il secolo breve, il Novecento, sia stato caratterizzato dall'impegno degli intellettuali, in campo politico e sociale innanzitutto, dando vita a mobilitazioni d'opposizione «contro la guerra nucleare, contro lo stalinismo, l'invasione sovietica di Ungheria e Cecoslovacchia». Sabino Cassese ci propone di scegliere l'accezione più convincente dell'intellettuale: «Dotto, Chierico, Saggio, Opinionista, Mâitre à Penser, Public Intellectual, Idea Worker, Political theorist». Quello che si può dire invece – sulle orme di Edward Said – è quello che l'intellettuale non deve essere: «Uno che si trae nell'ombra lasciando la scena» o aspirare «a intendere senza partecipare». Bene ricordare, seguendo il pensiero di Régis Debray, ne Le pouvoir intellectuel en France, quando indica pensatori come Sartre, de Beauvoir, Camus, Mauriac, Gide e Malraux come coloro che hanno costruito una potente compagine d'intellettuali pronta ad agire a tutto campo. Oggi pare di vivere soltanto una sorta di memoria letteraria a proposito dell'intellettuale come figura solitaria, individuo critico verso la società e i suoi banali e comodi riti, uomo ribelle per cultura e temperamento, nemico giurato degli obblighi imposti, un personaggio che possa aver da fare con lo Stephen Dedalus di James Joyce. L'artista, poi, cancellata l'attitudine critica, l'irrequietezza intellettuale, il gusto autentico e amaro del non allineamento, si perde in un vago universo di presunta onnipotenza espressiva, l'opposto dell'ideale di chi crea, proposto dal potente scrittore vittoriano Thomas Carlyle nel suo On Heroes, in cui vagheggia il personaggio dell'impavido artista, quasi un aristocratico dell'intelletto capace di guidarci verso autonomi ideali di cultura. Senza andare a scomodare la logica kantiana, pare di evidenza immediata l'assioma che Enrico Baj non si stancava, con ironia sottile, di ripetere: «L'arte segue la moneta più forte». Senza troppa commozione ci tocca sentire che «quella che chiamiamo la penisola araba è un territorio complesso» ed anche che «il processo di identificazione panarabica portata avanti da Doha passa attraverso la cultura, l'arte e la moda, più che la religione». Insomma i prodighi curatori s'affrettano a farci sapere che è tutto nuovo sul fronte occidentale e che «il soft power degli sceicchi» sta tutto nell'arte e – in fondo – che il Qatar è adesso tutto un museo proprio come lo è il deserto. La caccia alla leadership culturale, sepolta da montagne di valuta pregiata, si scatena al plauso interessato dei curatori internazionali, essenza dell'accomodante Artworld. Si dà vita a oltre quaranta nuove istituzioni, musei, siti espositivi, celebrazioni King Size del risaputo per incontrare gli stessi Koons senz'anima, le noie Kusamesi, le ennesime scenografie milionarie di Ólafur Elíasson che si pregia anche di raccontarci la fiaba ambigua per cui «lì la cultura è lo spazio dove si riconsiderano i valori». Non mancano mai – si sa - gli Herzog & De Meuron, J. M. Pei, Jean Nouvel e tutti gli altri i quali, con la benedizione di Sheikha Al-Mayassa, si impegnano a proporre al mondo intero lo sviluppo culturale del Paese come tappa obbligata del Grand Tour dell'architettura del terzo millennio. Più che la golosa politica del parco a tema miliardario, si adora il volto accomodante della cultura ufficiale, si scomoda Joseph Cornell per il Forever (rosso) Valentino, ora di proprietà del Fondo del Lusso Mayhoola di Sheikha Moza, proni alle meraviglie della spettacolarità che, come scrive Jean Clair, considera «la cultura un divertimento e il museo un magazzino».

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