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La Stampa Rassegna Stampa
17.10.2022 'Putin mi ha torturato'
Analisi di Francesca Mannocchi

Testata: La Stampa
Data: 17 ottobre 2022
Pagina: 12
Autore: Francesca Mannocchi
Titolo: «Mia sorella ora è un numero»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi 17/10/2022, a pag.12, con il titolo "Mia sorella ora è un numero" il commento di Francesca Mannocchi.

Francesca Mannocchi, biografia, storia, vita privata e curiosità
Francesca Mannocchi

Sasha, torturato dai russi: “Hanno ucciso mia sorella e ridotto come un  vegetale per farmi confessare” - La Stampa
Sasha Hlushko

Una delle croci di Izyum appartiene a Liuba, la sorella di Sasha Hlushko. Un pezzo di legno con un numero scritto sopra. Lui però non sa qual è. Potrebbe essere la 70, la 230, la 447. La croce su cui qualcuno ha poggiato un fiore, o quella scarna. Sua sorella è una delle tante. Una morte tra centinaia. Oggi le fosse alla periferia di Izyum sono vuote, i corpi sono stati esumati un mese fa quando la città è stata riconquistata dalla controffensiva dell'esercito ucraino. Intorno al campo, adiacente al cimitero, i nastri della polizia scientifica delimitano l'area in cui nei mesi di occupazione sono stati seppelliti i morti di Izyum. I torturati, i giustiziati, le persone malate che non avevano più accesso alle cure. I morti di paura, come la sorella di Sasha. Ad agosto un ordigno aveva colpito casa sua, Liuba è rimasta ferita ma era troppo pericoloso far arrivare un medico. È rimasta nel suo letto stretta tra il dolore e la paura dei missili. Una settimana dopo ha avuto un infarto e il suo corpo è stato buttato in una fossa insieme ad altre centinaia e coperto di terra dai civili che portavano lì un cadavere dopo l'altro, a volte accompagnate da un fiore, più spesso da due pezzi di legno a formare la croce. L'unica forma di rispetto concessa, perché anche piangere i morti al cimitero è un lusso, in tempo di guerra.

La scia di crimini dopo la ritirata russa
Stando ai dati dell'investigatore capo della provincia di Kharkiv, Serhiy Bolvinov, le forze della polizia scientifica hanno recuperato 540 corpi, la maggior parte erano nella città di Izyum: «Tutte le persone trovate qui sono state sepolte durante l'occupazione e quindi le consideriamo tutte vittime della guerra della Russia contro l'Ucraina», ha detto Serhiy Bolvinov, presente dai primi giorni alle esumazioni dei cadaveri, «alcuni corpi hanno segni di tortura, alcuni avevano una corda al collo e le mani legate». Izyum, città strategica nella regione nord orientale di Kharkiv, era stata occupata all'inizio di aprile. Quando le forze russe si sono ritirate frettolosamente all'inizio di settembre, hanno lasciato alle loro spalle i segni della distruzione e i racconti dei crimini commessi in cinque mesi di occupazione. Secondo le autorità ucraine, in cinque diverse province liberate sono stati rinvenuti luoghi adibiti a stanze di tortura, abitazioni civili che i russi hanno trasformato in celle dove abusare dei detenuti. Quando Liuba è morta, Sasha non poteva saperlo. L'ha saputo solo dopo la liberazione della città, perché mentre sua sorella veniva gettata in una delle fosse del cimitero di Izyum, lui era in una di quelle celle, in una delle stanze di tortura dei russi.

Sasha, il sopravvissuto
Sasha è seduto su una panchina nel cortile davanti casa sua, tiene accanto il bastone senza cui non riesce a fare un passo, saluta tutti con un sorriso. La sua vicina Maryana si ferma davanti a lui, si china, lo abbraccia, poi gli prende il volto tra le mani. «Dimentica, figlio mio, dimentica - gli dice - non voglio sentire ancora le storie delle tue torture, è tempo di dimenticare». Lui tace, prima di cominciare a raccontare le stringe forte le mani e le augura l'unica cosa necessaria a una madre: «Spero che tu possa avere un posto dove piangere il tuo ragazzo, un giorno. Stare bene non puoi, almeno che tu possa piangere e pregare». Maryana si allontana, sul volto le lacrime di un dolore composto, Sasha dice: io sono sopravvissuto alle torture, suo figlio no.

Poi comincia a raccontare
I russi sono entrati in casa sua la prima volta a maggio, gli hanno messo un sacco sulla testa l'hanno prelevato, quando gli hanno tolto la benda dagli occhi era in uno scantinato. Sasha dal 2018 al 2020 aveva combattuto in Donbass, faceva parte dell'Operazione Antiterrorismo ucraina contro le forze filo russe di Lugansk e Donetsk. I russi dovevano averlo saputo e Sasha non ha dubbi che sia stato uno dei collaborazionisti che in città aspettavano gli occupanti e li hanno aiutati a entrare e a catturare quelli che ritenevano spie. La sua colpa era aver combattuto contro i separatisti. E per questo andava punito. Era solo nello scantinato, e al buio. Non pensava a niente, non pregava nessun dio, pensava solo a sua figlia, sperava che fosse riuscita a mettersi in salvo. L'hanno tenuto per cinque giorni, steso a terra, e picchiato, gli hanno camminato sopra con gli scarponi. Lo hanno bastonato sui piedi così forte che ha perso la sensibilità ai talloni, per questo non si regge in piedi senza il bastone. Racconta ogni dettaglio senza mai piangere, senza alzare la voce, senza insultare i suoi torturatori. Quando non lo picchiavano, i russi lo sottoponevano a ore di interrogatori, volevano sapere dove erano le armi a Izyum, nomi e cognomi di tutti gli abitanti della città che si erano uniti alle Unità di Difesa Territoriale, «volevano sapere chi sono i nostri partigiani». Ma Sasha non parlava, indicava col dito, diceva andate lì a cercare le armi, nel magazzino in fondo alla via. Nel magazzino in fondo alla via non c'era niente, Sasha non avrebbe tradito i suoi. E per non aver parlato e aver depistato i russi ha pagato ancora. Quando sono tornati, dopo le sue false indicazioni, l'hanno fatto spogliare e picchiato ancora più forte, poi l'hanno buttato in strada, fuori dall'edificio. «Mi avevano ridotto come un vegetale», dice. Pensavano che sarebbe morto, e mostrare il suo corpo ridotto così valeva da monito per tutti quelli che sarebbero stati arrestati, valeva da promemoria per le loro famiglie, serviva ad incoraggiare gli informatori ancora timidi. Serviva, cioè a dire: chi sa, parli. Chi ha informazioni sui soldati ucraini le dia, altrimenti il prezzo è questo. Sasha è stato raccolto da un vicino che l'ha tenuto in casa e si è preso cura di lui per due mesi, spostandolo diverse volte per evitare che i russi lo trovassero e lo arrestassero di nuovo, ma non è bastato. Ad agosto sono entrati nell'appartamento dove viveva in quel momento, lo hanno trascinato fuori in mutande e lo hanno portato in una cella dell'ufficio di polizia che avevano stabilito in città. La seconda volta a dividere la cella con lui c'erano altri due uomini. Uno di loro era un medico, lavorava nel poliambulatorio delle ferrovie. Lo hanno picchiato così forte che era rimasto senza denti. Il secondo detenuto era un uomo di 68 anni, era appena stato operato e dimesso dall'ospedale, un informatore aveva detto ai russi che era una spia e che stava inviando le loro posizioni alle truppe ucraine. Lo picchiavano così violentemente che durante gli interrogatori è svenuto due volte. I russi però non si rassegnavano, volevano da lui le coordinate dei soldati ucraini, così un giorno due soldati gli hanno immobilizzato un braccio mentre un terzo soldato glielo spezzava. Erano diventati più violenti di come li ricordava, più violenti del primo arresto, così quando è toccato a Sasha essere interrogato di nuovo, ha cominciato a pensare ai momenti felici della sua vita, pensava che si sarebbe congedato dal mondo lì dentro, tra i lamenti del dottore a cui le botte avevano fatto cadere i denti, e l'anziano col braccio spezzato. Lo interrogavano ogni giorno e lui pensava solo a non tradire i soldati: «Ti umiliano, vogliono che parli, hanno i modi per farti parlare, per farti tradire tuo fratello, non si può spiegare quello che capita alla mente di un uomo torturato, non si può spiegare». Il secondo arresto è durato tre settimane, gli ultimi giorni gli hanno attaccato le dita ai cavi elettrici. Allunga le braccia e mima il tremore della scarica: «Ero certo che sarebbe arrivata la fine», dall'esterno, intorno alla cella arrivava il rumore dei combattimenti. Poi un giorno il rumore della guerra si è fatto più distante, Sasha ha sentito una voce che contava i detenuti, una cella dopo l'altra. Era convinto che i russi avrebbero lanciato le granate attraverso le fessure da cui passavano il cibo. Le granate non sono arrivate, sono arrivati invece i passi di chi li avrebbe salvati. Una voce ha detto: «Vi faremo uscire, con calma. State tranquilli, non alzate la voce e obbedite senza panico. Prendete i vostri documenti se li avete e quando apriamo le porte andate a casa e non girate per le strade per nessun motivo. Potrebbero cominciare combattimenti in strada, uscite e nascondetevi». Sasha era confuso, poi l'uomo ha aperto la porta: «Era in abiti civili ma era uno dei nostri». I soldati erano entrati in città, avevano liberato Izyum. Oggi Sasha è tornato a casa. Sua figlia è in salvo in Polonia, sua sorella in uno dei sacchi neri riempiti dai cadaveri delle croci silenziose. Sasha non ha acqua, né elettricità, i volontari portano a Izyum il cibo da distribuire ogni giorno, ma va a prenderlo Maryana perché lui non riesce a camminare. Dice che non vuole dimenticare e che per questo racconta, per tenere viva la memoria di ogni dettaglio. Non vuole vendetta, ma non spera nella giustizia. È certo che i suoi carnefici non pagheranno, è certo che nessuno sarà punito per le sue gambe compromesse, per il dottore senza più denti, per l'anziano con il braccio spezzato, per il figlio morto solo della sua vicina senza pace. Però è certo anche che finché avrà fiato porterà la testimonianza di cosa sono stati i mesi di occupazione di Izyum, di cos'è l'umiliazione di un corpo torturato.

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